T ra le numerose chiavi di lettura di Moby Dick ne esiste una che, nell’ossessiva caccia di Achab alla balena bianca, rintraccia un’allegoria degli Stati Uniti di metà Ottocento, il periodo in cui iniziavano a proiettare la loro potenza sugli oceani. Ed è proprio da un’isoletta fittizia del Pacifico che proviene uno dei personaggi più enigmatici e complessi dell’opera. Queequeg è il miglior arpioniere del Pequod e il primo incontro del giovane Ishmael, voce narrante del libro. Erede al trono di un popolo di cannibali tenacemente attaccato al suo culto animista, nelle fasi finali del romanzo, Queequeg diventa la voce della coscienza e del raziocinio contrapposta alla crescente follia di Achab.
Il ruolo di guida assunto da Queequeg e la sua figura enigmatica in grado di fornire a suo capriccio nozioni preziose per la caccia e la navigazione sono altrettante metafore dei rapporti tra i popoli della Polinesia e quelli europei. Per i primi esploratori europei, infatti, i polinesiani furono fin da subito una risorsa e un mistero. La profonda conoscenza di questi popoli affini tra loro per lingua e costumi, situati in una zona dell’Oceania a triangolo che vede come punti di congiunzione la Nuova Zelanda, le Isole Hawaii e l’Isola di Pasqua, è stata fondamentale per il buon andamento delle spedizioni nell’oceano Pacifico da parte dei primi esploratori europei, tra cui James Cook e Louis Antoine de Bougainville nel XIX secolo. Nonostante questo, per i primi europei, fu sconvolgente constatare come questi popoli in apparenza arretrati riuscissero a solcare il Pacifico con il solo utilizzo di grandi canoe.
Privi degli strumenti per poterli comprendere, gli occidentali hanno lasciato spazio al pregiudizio nel raccontare i polinesiani. Ha avuto così origine lo stereotipo di una Polinesia come “paradiso perduto”, in cui gli abitanti vivono di generazione in generazione senza evolversi, cristallizzati in una sorta di stato di natura simile a quello immaginato da pensatori quali John Locke e Jean Jacques Rosseau. Ad aver contribuito all’idea dei polinesiani come un popolo senza storia dagli strani costumi tribali è stata soprattutto la visione di stampo eurocentrica che vede nel reperimento di fonti scritte (i Polinesiani avevano un alfabeto, ma la sua comprensione è stata a lungo ignota) e nell’urbanocentrismo i principali fattori di progresso e, di conseguenza, di interesse per l’approfondimento storico.
La Polinesia ha di fronte un’occasione di rilancio del proprio ruolo a livello globale guardando non più verso Est, come fecero i loro antenati, ma verso Ovest.
La Polinesia è sempre stata considerata, al più, un teatro strategico che ha visto potenze esterne competere tra di loro, come è avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale tra Stati Uniti e Impero Giapponese. Sotto tutti gli altri aspetti invece la regione è stata sostanzialmente ignorata. In una disciplina come le Relazioni Internazionali che tende a valutare l’importanza degli attori globali in proporzione alla loro capacità di mettere in campo ingenti risorse – naturali e umane – gli arcipelaghi della Polinesia non sono considerati altro che una periferia semi dimenticata dell’Occidente.
Qualcosa però sta cambiando, e molto in fretta. Con il progressivo spostamento del baricentro degli equilibri mondiali dall’Atlantico verso il Pacifico, la Polinesia sta diventando un crocevia strategico di grande importanza, e questa volta in maniera stabile. Per le potenze affacciate sulle sponde orientali dell’oceano Pacifico in particolare la regione è un passaggio obbligato per poter accedere a quel collo di bottiglia in cui si stanno andando a concentrare gran parte dei traffici commerciali. Un’area che parte da Singapore e termina nei mari contesi tra Cina, Taiwan e Filippine.
La Polinesia, quindi, ha di fronte un’occasione di rilancio del proprio ruolo a livello globale guardando non più verso Est, come fecero i loro antenati, ma verso Ovest. Ironia della sorte, l’inizio dell’epopea di questi popoli ha origine proprio nel Sud-Est Asiatico, come sottolinea il Professor Francesco Montessoro dell’Università degli Studi di Milano.
Il popolamento dell’oceano Pacifico rinvia, prima di fasi propriamente “storiche”, alle migrazioni di popoli dell’Asia continentale che hanno colonizzato aree oggi parte del Sud-est asiatico per poi spiccare il balzo negli immensi spazi marittimi. La preistoria dell’Asia sudorientale e del Pacifico è stata un fenomeno di grande rilievo, e lo è ancora per i nostri studi, dalla primitiva espansione degli ominidi verso sud al primo attraversamento del mare, quarantamila anni fa, verso le isole del Pacifico occidentale e l’Australia. E poi, più tardi, per l’espansione di un singolo gruppo etnolinguistico – quello delle lingue austronesiane – in un’area che va dal Madagascar all’isola di Pasqua. Popoli che si distingueranno, in un percorso durato più di trentamila anni, tra gli aborigeni australiani, i melanesiani, i micronesiani, i polinesiani: diversi ed uguali per la comune origine e per le comuni sfide ambientali che hanno dovuto affrontare.Si tratta di una civiltà che nel corso di migliaia di anni ha dato luogo a una koinè fondata su miti, credenze, tecniche, pratiche culturali, cibi sostanzialmente comuni. Li affratella, dopo le fasi della caccia e della raccolta, la domesticazione di piante come il taro, la palma, il banano; i cibi a base di pesce; l’ideazione di barche a bilanciere in grado di sfidare i mari e le distanze. Anche le idee e le parole s’incontrano, se l’antropologia moderna non può rinunciare a termini come “tabù” e “mana”, “tatù” (da cui “tatuaggio”), mentre per gli italiani continuerà a valere su tutti Sandokan, con i suoi praho e i suoi pirati della Malesia: cugini, in fin dei conti, dei polinesiani.
Le esplorazioni dei polinesiani verso gli arcipelaghi dell’oceano Pacifico hanno avuto inizio nel nono secolo avanti Cristo. Mentre fenici e greci si limitavano al Mar Mediterraneo e a malapena si spingevano fino al litorale atlantico, questo popolo di navigatori si spostava su distanze di decine di migliaia di chilometri; nello stesso periodo in cui la potente Roma aveva vaghe nozioni del Mar Baltico, i primi uomini mettevano piede sulle spiagge delle isole Hawaii (con buona pace degli estimatori di James Cook).
I più recenti studi storici hanno fortunatamente abbandonato gli approcci “esotici” verso i polinesiani e stanno cercando di ricostruire il lungo percorso, nel tempo e nello spazio, compiuto da questi popoli. Un primo luogo comune da sfatare è che una volta approdati su un’isola gli abitanti si isolassero dal resto del Mondo. L’insieme di isole che compongono l’attuale Melanesia, Micronesia e Polinesia sono state coinvolte da una fitta rete di scambi commerciali, che a sua volta comunicava con la regione indonesiana. Un altro luogo comune smentito dagli studiosi è la casualità delle scoperte compiute dai polinesiani. In realtà, secondo l’archeologo Geoffrey Irwin, i polinesiani pianificavano battute di pesca che avevano anche lo scopo di esplorare l’oceano in cerca di nuove terre da colonizzare: un procedimento pianificato, che faceva leva sulle impressionanti conoscenze dei polinesiani sia dell’ambiente naturale, in particolar modo degli spostamenti delle specie animali della regione, sia nell’abilità di calcolare la propria posizione dallo spostamento del sole e delle costellazioni. Come ha avuto modo di osservare l’esploratore cileno Andia Y Varela, “…non avevano compasso, ma dividevano l’orizzonte in sedici parti, usando come punti cardinali quelli in cui il sole sorgeva e tramontava”.
Ma per quali ragioni i polinesiani hanno navigato in lungo e largo per il Pacifico a caccia di nuove isole? La prima ragione che può venire in mente è naturalmente la scarsità di terre emerse da popolare. Tuttavia occorre entrare nel merito della specificità di questi popoli per comprenderne le strategie. A differenza dei cugini melanesiani, che si sono affidati a un modello rudimentale di capo che decideva per tutti quanti, quello che gli antropologi chiamano il big man, i polinesiani hanno dato vita a strutture molto complesse su base dinastica. Questi chiefdom spesso hanno portato ad accanite lotte per il potere tra i membri della famiglia reale e tra le famiglie reali, rievocando, per certi versi, il nostro sistema feudale. Un micro-sistema internazionale di questo genere ha caratterizzato per secoli l’isola meridionale della Nuova Zelanda, che ha visto sorgere e morire diversi regni maori in perenne competizione tra loro, e un’intera civiltà polinesiana antecedente a quella maori: i moriori, i quali si distinguevano nella pratica di una rigorosa forma di non violenza e resistenza passiva. Caratteristica lodevole, che tuttavia non li ha salvati dal genocidio perpetrato dai maori taranaki nel 1830.
A dispetto delle immagini da cartolina, l’ambiente polinesiano è tutt’altro che ospitale e benevolo: le sue avversità hanno profondamente segnato il destino dei suoi abitanti.
Fatta eccezione per territori relativamente estesi, quali la Nuova Zelanda e le Hawaii, spesso nella Polinesia non c’era neppure lo spazio per due o più gruppi politici rivali. Per diminuire quindi il ricorso alla violenza generalizzata all’interno della società, i polinesiani hanno incoraggiato l’esplorazione e la colonizzazione delle nuove terre, secondo logiche non troppo diverse da quelle che hanno portato i greci a fondare colonie per tutto il Mediterraneo. Questi viaggi spesso assumevano i toni del mito e costituirono un elemento culturale molto importante per i popoli polinesiani.
Ad aumentare la pressione a cui erano sottoposti i polinesiani nel cercare nuovi territori ha contribuito anche la loro tendenza al sovra-popolamento: spesso la loro rapidità riproduttiva era tale da prosciugare le scarse risorse naturali offerte dalle isole della Polinesia. Un esempio tanto lampante quanto tragico è quello dell’Isola di Rapa Nui, anche nota come Isola di Pasqua, riportato anche dal famoso antropologo Jared Diamond nella sua opera Collasso: come le civiltà scelgono di vivere o morire. I Polinesiani giunsero relativamente tardi su questa terra, forti delle tecniche più avanzate mai raggiunte dalla propria civiltà. L’isola tuttavia era arida, con una biosfera fragile e troppo lontana rispetto al resto della regione polinesiana per far sì che gli abitanti potessero almeno affidarsi alle reti commerciali per approvvigionarsi di risorse. All’inizio gli abitanti di Rapa Nui diedero vita a una società florida, testimoniata dallo sguardo austero dei Moai che tutt’oggi si possono ammirare nell’isola. Con il progressivo esaurimento delle risorse tuttavia questa civiltà fu teatro di sanguinarie guerre civili, e quando le prime spedizioni europee e sudamericane raggiunsero Rapa Nui, ai loro occhi si presentò una realtà deprimente, ben lontana dalla prospera civiltà che diede vita ai Moai e che fu poi ulteriormente devastata dai saccheggi e dalle spedizioni degli schiavisti dalle coste del Perù.
A dispetto delle immagini da cartolina, l’ambiente polinesiano è tutt’altro che ospitale e benevolo: le sue avversità hanno profondamente segnato il destino dei suoi abitanti. Non solo dal punto di vista tecnologico, ma anche per quanto riguarda la struttura politica e sociale. Non può esistere un forte potere politico senza che esso sia in grado di garantire un’adeguata distribuzione di surplus di risorse. Le prime grandi civiltà non a caso sono nate proprio grazie alla loro capacità di ridistribuire le risorse e garantire l’armonia sociale. Essendo tale condizione pressoché impossibile da raggiungere in Polinesia, questi popoli furono soggetti a una crescente parcellizzazione del potere, nonostante le grandi affinità dal punto di vista culturale, linguistico e sociale.
L’estrema divisione all’interno del popolo polinesiano rese la colonizzazione da parte europea relativamente semplice, con le sole eccezioni, e non a caso, di due sole regioni: la Nuova Zelanda e le Hawaii. Entrambe vantano infatti un’estensione territoriale sufficiente a garantire una buona presenza di risorse, consentendo la formazione di gruppi politici più strutturati rispetto al resto della regione. L’accanita guerriglia maori in Nuova Zelanda diede diversi problemi al Regno Unito, il quale riuscì a piegare queste popolazioni soltanto nella metà del XIX secolo. Nelle Hawaii, i poderosi sforzi da parte dei regnanti in ottica di modernizzazione del paese e trasformarlo in un attore riconosciuto all’interno del sistema internazionale furono coronati (quasi) dal successo. A impedire una “epoca Meiji” in salsa polinesiana fu proprio quella fame d’espansione da parte degli americani metaforizzata da Melville in Moby Dick. Con un colpo di mano, nel 1898, l’esercito americano prese possesso delle isole hawaiane, un atto che soltanto un secolo più tardi la stessa Washington ha riconosciuto come del tutto illegale.
Un insuccesso, quello dei polinesiani, che ha causato la quasi completa estinzione del loro retaggio culturale, migrazioni di popoli allogeni che hanno sconvolto i delicati equilibri demografici di molti arcipelaghi delle regioni e trasferimenti forzati per via dei test nucleari condotti soprattutto dalla Francia durante la Guerra Fredda. Anche l’ecosistema è minacciato: oggi la più estesa superficie emersa della Polinesia è un enorme accumulo di spazzatura, grande quanto la penisola iberica e in costante crescita a causa delle correnti che convogliano i rifiuti dispersi nell’oceano su di un unico punto. La centralità che avrà il Pacifico negli equilibri di potere a livello mondiale potrebbe quindi essere sia un’opportunità, sia il fattore scatenante di nuove sofferenze per i popoli polinesiani. Le risposte efficaci passano per lo studio del passato: i polinesiani hanno dovuto cedere di fronte alla morsa di un ambiente che ha sostanzialmente indirizzato l’agenda politica e sociale al loro posto, costringendoli a cercare in continuazione nuove terre per evitare di cadere nel baratro del conflitto civile per le poche risorse disponibili.
Oggi, grazie alla globalizzazione, questo stato di necessità può essere superato. D’altra parte i polinesiani si ritrovano ad affrontare una sfida ancora più complessa: lo stato di dipendenza in cui versa gran parte della regione nei confronti di attori esterni i quali, con l’aumentare dell’importanza del Pacifico sullo scacchiere globale, saranno sempre meno disposti a concedere margini di autonomia: degli otto membri della principale organizzazione interstatale polinesiana, il Polynesian Leader Group, solo tre sono stati indipendenti. Tuttavia le recenti spinte da parte di Tahiti verso l’indipendenza dalla Francia costituiscono un timido, ma incoraggiante, segnale di un popolo che vuole tornare a essere padrone del proprio destino.
In copertina: Il primo dipinto dell’Isola di Pasqua realizzato da mano occidentale. A View of the Monuments of Easter Island, Rapanui. William Hodges, 1795.