Michele Di Giorgio
/ Immagine: Foto delle proteste al g8 di Genova nel 2001.
Crediti: Jmenj/Wikimedia Commons
22.7.2021
Un altro mondo è necessario: vent’anni dal G8 di Genova
Michele Di Giorgio (Campobasso, 1984) svolge attività di ricerca presso l'Università di Siena. Ha conseguito il dottorato in Storia Sociale Europea all’Università Ca’ Foscari Venezia. Si occupa di storia delle polizie nell’Italia contemporanea. Ha pubblicato con Viella il saggio "Per una polizia nuova. Il movimento per la riforma della Pubblica Sicurezza (1969-1981)".
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ei fatti accaduti a Genova tra il 19 e il 22 luglio del 2001 si è molto parlato nel corso di questo anniversario, forse anche troppo se consideriamo il silenzio che investe certi argomenti nel quotidiano. Come spesso accade durante le ricorrenze, i racconti della stampa si sono concentrati solo sul ricordo più doloroso di quelle giornate, sulla memoria degli avvenimenti più eclatanti, rumorosi e tristi. Al contrario, uno sforzo molto minore è stato fatto per restituire le premesse che condussero a quelle giornate, né si è riflettuto a sufficienza sulle conseguenze a lungo termine di quegli eventi.
Inoltre i grandi media si sono guardati bene dal mettere in evidenza la fortissima attualità delle battaglie e delle istanze portate avanti dall’eterogeneo movimento che si ritrovò a Genova allora. Istanze ancora più attuali oggi, a un anno e mezzo dall’inizio della pandemia che ha trasformato la vita dell’intero pianeta. I racconti proposti nelle ultime settimane hanno giustamente insistito sulla memoria di alcuni testimoni, sulle storie e sulle traiettorie personali di coloro che presero parte di persona alle giornate genovesi, senza però ricordare che nelle strade e nei vicoli della città ligure erano in campo le idee, le illusioni e soprattutto le speranze di un’intera generazione, non soltanto dell’avanguardia che scese in piazza.
La galassia di movimenti, gruppi e associazioni che si ritrovò a Genova nel luglio del 2001, dietro slogan come “un altro mondo è possibile”, “voi G8 noi 6 miliardi”, “il nostro mondo non è in vendita”, metteva in discussione gran parte delle distorsioni e degli aspetti peggiori del mondo attuale: sistema economico-finanziario predatorio e iniquo, saccheggio delle risorse del sud del mondo, riscaldamento globale, scarsa attenzione per la lotta all’AIDS e alle altre epidemie, sfruttamento del lavoro, disuguaglianze economiche, politiche e sociali, cattiva gestione delle migrazioni, disparità economiche incolmabili tra primo e terzo mondo, eccessivo peso delle spese militari e ricorso alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie.
Il movimento, per comodità chiameremo così quell’arcipelago eterogeneo di gruppi, rifiutava in maniera decisa il modello neoliberista e capitalistico di globalizzazione che,lontano dall’idea di scambio, crescita collettiva e condivisione, era soltanto una nuova forma di colonialismo e di imperialismo, e lo è tuttora. Oggi come allora il parallelo tra globalizzazione neoliberista e sfruttamento coloniale non è campato in aria e si rafforza se guardiamo alle forme con cui i grandi protagonisti dell’economia e della finanza globale si autorappresentano, legittimano e assolvono raccontandosi come attori positivi e caritatevoli impegnati a valorizzare le risorse dei paesi poveri, contribuendo al loro sviluppo e alla loro crescita economica.
Proprio per queste ragioni è importante sottolineare che le espressioni allora utilizzate dai grandi media per etichettare il movimento, come “no global” e “anti-global”, erano (e restano) scorrette e fuorvianti. Il movimento che si ritrovò a Genova non era un’accozzaglia male assortita di sovranisti, paladini della conservazione, del protezionismo e delle frontiere chiuse: al contrario, era un insieme eterogeneo di attori diversissimi che proponevano un’altraidea di globalizzazione. Un movimento che suggeriva una visione “altermondialista” di globalizzazione per tutti, fondata su un’ottica bilanciata ed equa dello sviluppo e su una serie di buone pratiche sociali, politiche e di vita, che costituivano un’alternativa reale e tangibile a un modello di sviluppo fondato sulla crescita senza fine, priva di direzione e controllo. Si metteva in discussione in tal modo anche l’idea illusoria e comoda (ampiamente sposata da una parte della sinistra moderata) di poter correggere, attenuare o in qualche modo bilanciare gli aspetti più negativi del capitalismo, dell’economia e della finanza attuali.
La galassia di associazioni e organizzazioni che si ritrovò a Genova il 20 luglio del 2001 per protestare contro il G8 non era nata il giorno prima. Proteste contro i vertici internazionali (e contro l’idea di una governance globale gestita solo dai paesi più ricchi e potenti) si verificavano già da molti anni. A partire dal 1999, questi dissensi iniziarono a strutturarsi in un movimento transnazionale che ebbe un primo momento di notorietà a Seattle, dove il 30 novembre 1999 oltre quarantamila persone si ritrovarono in città con l’obiettivo dichiarato di bloccare una conferenza promossa dall’organizzazione mondiale del commercio, impedendo ai partecipanti di recarsi all’incontro. Da quell’episodio e dagli scontri violenti che ne seguirono scaturì la definizione “Popolo di Seattle”, spesso usata dai giornali per riferirsi a quel nuovo fenomeno di contestazione.
Da quel momento in poi il movimento tentò di bloccare e impedire quasi tutti i grandi summit internazionali che seguirono. Nel 2000 le proteste si svolsero in aprile a Washington, in occasione di un raduno del G7 con il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, asettembre a Praga per una riunione del Fmi e della stessa Banca Mondiale, poi in ottobre al G20 di Montreal, mentre a dicembre a Nizza fu organizzato un controvertice per protestare contro la riunione del Consiglio europeo. L’anno successivo – il 2001 – si aprì con il Social Forum di Porto Alegre, in cui il movimento si riunì per la prima volta in un Forum sociale mondiale, e nello stesso mese di gennaio, a Davos, in Svizzera, ci fu la contestazione a un Forum economico mondiale che era stato definito “la settimana bianca dei padroni del mondo”. Il 17 marzo le manifestazioni arrivarono in Italia, il Global Forum di Napoli fu contestato con una manifestazione organizzata e massiccia che fu repressa con violenza e brutalità incontrollata dalla polizia (l’episodio fu successivamente riletto come anticipatorio dei fatti accaduti poi Genova). Ad aprile la protesta colpì il Vertice delle Americhe, a Québec City, dove i presidenti del continente si erano riuniti per valutare la creazione di una zona di libero scambio simile al NAFTA (North American Free Trade Agreement). Infine, poco prima di ripetersi a Genova, nel giugno del 2001, a Göteborg, le manifestazioni avevano assediato una riunione del Consiglio Europeo. In quell’occasione la polizia svedese, forse presa alla sprovvista dalle dimensioni della protesta, reagì sparando sui manifestanti: ne fece le spese un ragazzo che rimase gravemente ferito.
La composizione del movimento Alla vigilia del G8 di Genova aveva aderito alla protesta una tale pluralità di anime che riesce difficile rendere conto in poche righe di una vastità di esperienze politiche, pratiche di lotta e di impegno sociale (nazionali e internazionali) così eterogenee, ma è bene tentare di fare almeno alcuni esempi per dare una proiezione di quali fossero i temi e gli attori in piazza nel corso delle manifestazioni contro il G8.
Il movimento confluito a Genova era un insieme eterogeneo di attori diversissimi che proponevano un’altra idea di globalizzazione.
In prima linea nell’organizzazione e nelle proteste ci fu naturalmente la rete dei centri sociali italiani, che nel corso degli anni Novanta aveva conosciuto un’espansione notevole. Si trattava di un insieme di associazioni grandi e piccole che si erano riappropriate di spazi spesso in abbandono riportandoli a un uso pubblico, libero e gratuito, favorendo una socialità aperta e diffusa, estranea alle logiche commerciali e di consumo. Un sistema di occupazioni e autogestioni che aveva portato una ventata di freschezza nel panorama politico di sinistra e che nel tempo si era esteso e ramificato anche in provincia e a sud, superando le tradizionali visioni e divisioni che immaginavano uno spazio per l’attivismo soltanto nei grandi centri urbani e principalmente a nord.
Aderirono alla protesta genovese anche diversi sindacati (tra cui Cgil, Fiom, Cobas) e una serie di grandi associazioni impegnate nel sociale (Arci, Acli, Anpi), partiti politici di sinistra (Rifondazione Comunista, Verdi, Comunisti Italiani), associazioni studentesche e universitarie e un nutrito gruppo di quelle cattoliche. Accanto a questi ebbe un peso molto importante anche la Rete Lilliput, un variegato insieme di organizzazioni non governative, associazioni impegnate nella tutela dell’ambiente, nelle missioni e nella cooperazione internazionale, sia cattoliche che laiche. Ne facevano parte sigle come Altromercato, Wwf, Mani Tese e Pax Christi. Tra i volti simbolo di questa unione di associazioni c’era quello di padre Alex Zanotelli, un missionario attivo da anni in varie zone dell’Africa. Parteciparono inoltre organizzazioni ambientaliste come Greenpeace e Legambiente e associazioni animaliste come la Lav. Alla protesta si unirono attivamente organizzazioni come Attac (Association pour la Taxation des Transactions financières et pour l’Action Citoyenne), una delle principali impegnate nel sostegno alla “Tobin Tax”, una tassa minima che avrebbe dovuto essere applicata a tutte le transazioni finanziarie internazionali per ottenere risorse da destinare alla parte più povera del mondo.
Accanto a queste associazioni furono importantissime per il movimento alcune figure carismatiche – nazionali e internazionali – diventate veri e propri simboli, icone del movimento e delle sue diverse battaglie. Tra i volti internazionali vale la pena citare almeno alcuni nomi. Innanzitutto Naomi Klein, un’attivista canadese autrice di No Logo, che divenne uno dei testi di riferimento del movimento. In secondo luogo José Bové, attivista e allevatore francese, noto per le azioni clamorose, come quella in cui smantellò un McDonald’s in costruzione per protestare contro i dazi imposti dagli USA su alcuni prodotti europei. Bové nel 2001 era portaparola del sindacato agricolo Confédération paysanne. E in ultimo, forse oggi il più esemplare, il subcomandante Marcos, allora a capo dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (EZLN), l’organizzazione clandestina armata che a partire dal gennaio 1994 aveva guidato l’insurrezione delle popolazioni indigene nella Selva Lacandona, nello stato messicano del Chiapas. Le parole e la figura del subcomandante Marcos, un guerrigliero con il volto coperto da un passamontagna e con la pipa in bocca, conobbero una diffusione senza pari (sfruttando la rete internet sin dalla sua fase iniziale) creando uno dei simboli di resistenza e di lotta più suggestivi. Accanto a queste persone è necessario accostare almeno il cantante Manu Chao, che oltre alla partecipazione diretta offrì al movimento un grande contributo in termini di risonanza attraverso le sue canzoni e i suoi concerti, tra cui quello tenuto proprio a Genova al termine del primo giorno di manifestazioni. Il suo primo album da solista, Clandestino, uscito nel 1998, fu una delle colonne sonore simbolo di quella stagione. Tra le icone italiane del movimento è necessario nominare almeno don Andrea Gallo, spesso definito il “prete degli ultimi”, un religioso genovese di idee libertarie e animo battagliero da sempre impegnato accanto ai poveri con la comunità San Benedetto al Porto. Fu proprio Don Gallo, con l’incasso di un concerto devoluto da Manu Chao, a creare per le giornate delle manifestazioni un punto di ristoro e accoglienza ribattezzato “Bar Clandestino”.
Per organizzare questa pluralità di singoli e associazioni, alcuni mesi prima della manifestazione genovese fu istituito il Genoa Social Forum, una piattaforma di coordinamento e di informazione creata anche per gestire le comunicazioni con la stampa e con le istituzioni in vista delle manifestazioni contro il G8. Vittorio Agnoletto, presidente della Lega Italiana per la Lotta all’AIDS (Lila), fu nominato portavoce dell’organismo.
Il ruolo dei media La creazione del Genoa Social Forum vide il supporto attivo di Indymedia, la rete di comunicazione indipendente creata nel 1999 per sostenere il movimento. Questa grande attenzione per i media era dovuta all’esigenza di evitare e contrastare il più possibile le rappresentazioni distorte che giornali e telegiornali avevano prodotto fino a quel momento sulle proteste contro i vertici internazionali. Dinanzi alla pluralità di voci e di istanze che abbiamo elencato in precedenza, la stampa, specialmente in Italia, svolse un ruolo estremamente negativo. Rispose inizialmente col silenzio, ignorando l’evolversi del movimento e seguendo a stento le proteste internazionali più clamorose. Poi, in una seconda fase, nel periodo immediatamente precedente alle manifestazioni di Genova, fornì ai lettori una rappresentazione falsata e fuorviante, infarcita di luoghi comuni, banalità e talvolta vere e proprie menzogne.
D’altro canto, nel silenzio generale con cui la grande stampa ignorò il movimento mondiale nel periodo precedente al G8 di Genova, vale la pena ricordare, oltre a Internazionale, almeno i nomi di due settimanali, Diario e Carta, che pur con taglio e natura molto diversi tra loro si distinsero dalla massa dei media nazionali e offrirono ai fortunati lettori un ricco e documentato racconto delle molte anime che di quel movimento facevano parte.
Oltre al cattivo lavoro della stampa, una serie di eventi che precedettero il vertice concorse ad esacerbare gli animi e a favorire un clima di forte apprensione. Innanzitutto il G8 non era stato preparato con la necessaria attenzione dal governo di centrosinistra, che aveva scelto Genova come sede per contribuire a un rilancio della città, colpita da una grave crisi economica e da un forte calo demografico; e il successivo cambio di governo, col passaggio di consegne al centrodestra, non migliorò affatto la situazione e aumentò la confusione dal punto di vista organizzativo.
In secondo luogo, nel periodo che precedette il vertice iniziarono a circolare attraverso i giornali una serie di voci incontrollate (poi rivelatesi totalmente false), talvolta attribuite a fonti istituzionali come i servizi segreti, che contribuirono a creare un forte clima di tensione e allarmismo. Si presagirono attacchi terroristici dei manifestanti più violenti contro le forze di polizia, attraverso l’utilizzo di armi non convenzionali che prevedevano l’utilizzo di sangue infetto, lamette e alianti; addirittura alcuni giornali immaginarono il possibile rapimento di appartenenti alle forze dell’ordine da utilizzare come scudi umani. La paura e i timori divennero talmente elevati da spingere a una sospensione temporanea dei trattati di Schengen. Tutto ciò finì per alimentare un clima di insicurezza anche nella stessa città di Genova: nei giorni precedenti al vertice molti residenti, dopo aver assistito sbalorditi alla fortificazione e alla costruzione degli sbarramenti metallici che delimitarono la zona rossa, preferirono lasciare la città per l’intero fine settimana.
In parallelo, anche nel movimento sorsero molte preoccupazioni e tensioni in seguito alle violenze commesse dalla polizia durante le manifestazioni contro il Global Forum di Napoli pochi mesi prima del G8, il 17 marzo del 2001. Si trattò di un episodio di violenza e brutalità inaspettata, nel quale i manifestanti in piazza furono accerchiati da più lati, inseguiti e picchiati in una caccia all’uomo durata ore e culminata con le violenze sui fermati, trattenuti illegalmente in caserma e sottoposti a offese, umiliazioni e pestaggi. A margine di questi episodi, il governo di centrosinistra ai suoi ultimi mesi scelse il silenzio e preferì coprire le spalle alla polizia, evitando di assumere una posizione di condanna chiara e ferma, concorrendo probabilmente a creare le premesse per ciò che accadde successivamente a Genova.
Le giornate di Genova Il dettaglio delle giornate di luglio a Genova è stato già raccontato molte volte e migliaia di video e foto documentano ampiamente i fatti accaduti. La prima giornata di manifestazioni dedicate ai migranti e al tema delle migrazioni si svolse senza incidenti e culminò con un affollatissimo concerto dei 99 Posse e Manu Chao. Tra il 20 e il 21 luglio si assistette invece a una vera e propria mattanza. Le forze dell’ordine presenti in piazza esibirono, oltre ad impreparazione e scarsa organizzazione, una furia cieca, scatenando sui manifestanti un livello di violenza senza controllo, caricando cortei autorizzati e infierendo brutalmente su persone inermi.
In parallelo poche centinaia di dimostranti appartenenti all’ala più radicale, spesso definiti “black bloc” (nonostante resti il dubbio sulla loro reale appartenenza a quel movimento), furono lasciati liberi di compiere vandalismi e ruberie. Decine di video girati da operatori amatoriali mostrano piccoli gruppi in azione a pochi metri da grossi schieramenti di forze dell’ordine che restano a osservare senza intervenire. Riguardo a queste pratiche di lotta, su cui si può essere o non essere d’accordo, è bene specificare che a Genova l’ala più dura dei contestatori non si limitò a colpire con danneggiamenti selettivi solo gli obbiettivi riconducibili al potere economico e al capitalismo, come banche, finanziarie, auto di lusso. Danni enormi furono procurati anche ad attività e mezzi che poco avevano a spartire con il potere e col capitalismo. A mezzo stampa questi manifestanti furono definiti spesso, ancor più impropriamente, con la parola “anarchici”, e anche su questo bisognerebbe per correttezza correggere il tiro.
Ma torniamo all’operato disastroso delle polizie, che fu il fattore determinante della catastrofe di Genova. Nella folle giornata di venerdì 20 luglio, alle cariche indiscriminate si aggiunse l’utilizzo di blindati lanciati a grande velocità sulla folla, con i dimostranti inseguiti fin sui marciapiedi. Nel pomeriggio, nel momento più drammatico degli scontri, un ragazzo genovese di ventitré anni – Carlo Giuliani – fu ucciso in piazza Alimonda da un carabiniere di leva di ventuno anni che preso dal panico aveva fatto fuoco contro i manifestanti con la pistola d’ordinanza. Anche in quel caso gli incidenti con chi manifestava, fino ad allora in maniera pacifica, erano scaturiti da una carica illegittima dei carabinieri, un’azione ingiustificata e violentissima compiuta frontalmente contro un corteo regolarmente autorizzato. A distanza di vent’anni, sia la morte di Carlo Giuliani che la carica avvenuta in via Tolemaide ancora attendono una minima verità.
Nonostante la tragica morte di Giuliani, per le manifestazioni del giorno successivo la polizia non cambiò strategia né atteggiamento e mostrò di non avere nemmeno la vicinanza umana per la morte di una persona. Un corteo enorme, autorizzato, di circa trecentomila persone, fu caricato in maniera selvaggia e spezzato in più punti senza alcuna ragione valida. Nella nebbia asfissiante di gas lacrimogeni centinaia di persone furono percosse brutalmente e in migliaia si dettero alla fuga in ogni direzione cercando di mettersi al riparo. I video mostrano persone in fuga attraverso vie anguste e ripide scalinate che rischiano di morire calpestate o schiacciate nella calca. Altrettanto raccapriccianti sono le sequenze che ritraggono centinaia di manifestanti che, per sfuggire alle violenze e lasciare la manifestazione, camminano in direzione della polizia con l’aria terrorizzata e le mani alzate, come prigionieri di guerra in una resa totale. La quantità di sangue che si vede nelle riprese è impressionante e rende l’idea della brutalità con cui la polizia infierì contro chi protestava.
Al termine di quelle giornate la contabilità della cattiva gestione fu impietosa: 6.200 candelotti lacrimogeni sparati e almeno venti colpi di pistola (la cifra esatta, visto il livello di omissione, negligenza e inaffidabilità mostrato dalle polizie, forse non verrà mai resa nota), 250 arresti e 1.200 feriti (di cui 273 agenti) e un morto. Nella conta dei feriti va tenuto presente che tantissime persone, per paura e per legittimo timore di ritorsioni non si presentarono in ospedale o lo fecero solo successivamente, lontano da Genova. A questo bilancio bisogna poi aggiungere i circa 50 miliardi di lire di danni patiti dalla città.
Le violenze della polizia non terminarono tuttavia con la fine del G8 e delle manifestazioni.Nella notte tra sabato 21 e domenica 22 luglio, la polizia fece incursione in una delle strutture concesse al Genoa Social Forum per ospitare i manifestanti, la scuola Diaz. Anche qui i fatti sono noti: ragazzi e ragazze furono presi nel dormiveglia, pestati in maniera selvaggia e molti finirono in ospedale con traumi talvolta gravissimi, il filmDiaz – Don’t Clean Up This Blooddi Daniele Vicari narra quegli avvenimenti con estrema fedeltà. Ne fece le spese anche il giornalista Lorenzo Guadagnucci, in seguito autore insieme a Vittorio Agnoletto del racconto più efficace di quelle giornate. A questo episodio si aggiunsero le gravissime violenze fisiche e psicologiche commesse su quelli che furono trattenuti in arresto nella caserma di Bolzaneto dal personale della Polizia Penitenziaria e della Polizia di Stato. Dei soprusi furono vittime molti cittadini stranieri, in tal modo la notizia e l’eco di quelle violenze si sparse rapidamente in tutta Europa.
Pur essendo forzati i paragoni con certi contesti sudamericani evocati dalle espressioni utilizzate dopo i fatti di Genova – “macelleria messicana”, “notte cilena” o i vari riferimenti alla dittatura argentina – è innegabile che di fronte al comportamento della polizia e dinanzi alle pozze di sangue viste alla scuola Diaz il parallelo con certi contesti appare meno inverosimile. E lo è ancora meno dopo la scoperta che i materiali sequestrati dalla polizia nella scuola (molotov, tute nere e attrezzi da cantiere) e utilizzati per giustificare l’irruzione, erano stati in realtà raccolti e recuperati in altri luoghi dagli stessi agenti: in sostanza le prove furono fabbricate, cosa che evidenzia un livello di inaffidabilità, faziosità e arbitrio senza precedenti. Il pm Enrico Zucca, impegnato in uno dei diversi processi che seguirono i fatti di Genova, definì quelle violenze “la più grave violazione di diritti umani in un paese democratico dal dopoguerra”.
Il dopo Il ricordo di quelle giornate dolorose ha avuto peraltro un riflesso enorme a livello culturale per un’intera generazione, basti pensare al centinaio di musicisti che in vario modo hanno parlato dei fatti di Genova nelle loro canzoni. Su tutti spiccano – ma qui si tratta di preferenze personali – i brani degli Assalti Frontali (Rotta indipendente) e dei 99 Posse (Mai più io sarò saggio).
Dinanzi a un tale carnaio, la cronaca delle violenze finì per spegnere definitivamente qualsiasi discussione intorno ai giusti e legittimi argomenti che avevano alimentato la protesta contro il G8. Come scrisse Giuliano Pisapia poco tempo dopo, “quel popolo, che voleva essere gioioso e pacifico, è stato stretto in una micidiale tenaglia da parte di chi, nel governo e tra le forze dell’ordine, voleva scardinare, distruggere, sconfiggere, brutalizzare, impaurire ogni dissenso e creare le premesse per impedire la crescita di un movimento che intendeva solo mandare un messaggio che poteva essere recepito da tanti altri: a sinistra e oltre la sinistra”.
La cronaca delle violenze finì per spegnere qualsiasi discussione intorno ai temi che avevano alimentato la protesta.
Alla fine della stessa estate, a poco più di un mese di distanza dai fatti di Genova, l’undici settembre, gli avvenimenti che seguirono e la successiva “guerra al terrorismo” silenziarono sul nascere una riflessione immediata e più profonda su quelle giornate tragiche. La verità giudiziaria emersa dai processi rende conto e racconta soltanto una percentuale minima dei fatti occorsi, attribuendo peraltro l’utilizzo sistematico e massiccio della violenza alle decisioni di un piccolo gruppo di dirigenti, usati come parafulmine (ma successivamente riabilitati e promossi) per coprire comportamenti diffusi ed evitare di indagare sulle molteplici responsabilità individuali. Tra l’altro in alcuni dei processi seguiti al G8 di Genova, di cui qui non possiamo occuparci nel dettaglio, i magistrati tirarono fuori dalla naftalina del fascismo alcune fattispecie di reato per continuare nelle aule giudiziarie ciò che la polizia aveva iniziato in piazza. Anche se non collegato direttamente con i fatti di Genova fu esemplare di questi atteggiamenti autoritari della magistratura il processo farsa istituito allo scopo di perseguire alcuni dirigenti e militanti della Rete del Sud Ribelle.
Andando oltre la cronaca di quelle giornate, una questione su cui troppo poco si è ragionato è quella del vuoto politico, sociale e culturale che si è lentamente creato nei dieci anni successivi al G8 di Genova. Non si è riflettuto abbastanza sui danni generati dalla scomparsa (o comunque dalla compressione) di un orizzonte “ideale” diverso, alternativo ma comune, verso cui continuare a camminare come individui appartenenti a una collettività che aveva una visione critica del presente e aveva il coraggio di proporre e praticare delle alternative. La scomparsa di questa prospettiva, di questo orizzonte, ha rischiato di intaccare l’importanza stessa del cammino, della vita e delle parabole personali dei giovani che avevano preso parte, anche solo idealmente o simpatizzando, a quella galassia di movimenti che aveva animato le proteste prima e dopo il G8 di Genova. La fine di quel frastagliato panorama di alternative ha privato una parte consistente di quella generazione di un orizzonte collettivo condiviso (non importa quanto utopico o difficilmente realizzabile) che aveva il merito di infondere coraggio e speranza, di animare la marcia, di rendere concreto, tangibile e sopportabile il presente.
A vent’anni dalla fine del G8 di Genova, in un mondo che ancora fatica a riprendersi dalle ferite di una pandemia di COVID-19 che sembra non passare, i temi portati in piazza da quella collettività variopinta sono di un’attualità senza precedenti. Tutte le questioni sollevate con forza dal movimento tra il 1999 e il 2001 hanno subìto in questo sciagurato ventennio un’accelerazione spaventosa: il riscaldamento globale, lo sfruttamento forsennato delle risorse del pianeta, l’alterazione dell’equilibrio tra uomini e animali, le guerre, le migrazioni, la compressione dei diritti dei lavoratori in tutto il mondo, le disuguaglianze tra ricchi e poveri e la forte disparità di accesso a diritti elementari come casa, salute e istruzione. Dopo vent’anni parla per tutti lo slogan coniato per celebrare il ricordo di quelle giornate “un altro mondo è necessario”. Nonostante questo assunto sembri inoppugnabile vediamo mancare tuttavia le energie umane per supportare le idee.
Due giorni fa, il 20 luglio 2021, a piazza Alimonda per ricordare quelle giornate e la morte di Carlo Giuliani eravamo in qualche migliaio, non pochi ma non una moltitudine. Anche se quel popolo non è stato sconfitto, immaginare un altro mondo con queste premesse è molto difficile. Ma necessario.