F ilosofo, allievo di Luciano Anceschi, agitatore culturale, Franco “Bifo” Berardi è stato protagonista del lungo Sessantotto italiano, quello iniziato prima del ’68 e proseguito fino al ’77. Militante di Potere Operaio, il gruppo politico più legato all’operaismo delle riviste “Quaderni rossi” e “Classe operaia”, dopo lo scioglimento del gruppo avvia una delle sperimentazioni più innovative dei movimenti autonomi europei: Radio Alice. Studioso raffinato e preveggente delle discontinuità tecnologiche, si batte per la riduzione al minimo del lavoro salariato, per il pieno sviluppo dell’automazione, per l’estensione a dismisura del tempo dell’attività libera, della cura, dell’invenzione solidale. Futurabilità (Nero, 2018) è il suo ultimo libro: una diagnosi disperata di un presente dominato da estremismi e carico di scommesse politiche.
L’epoca nella quale siamo immersi, quella del web e dei social network, della nuova robotica e delle macchine che imparano, a tuo avviso è l’età dell’impotenza, determinata dalla separazione tra cervello e corpo sociale. Si può dire che viviamo in un paradosso in cui alla massima socializzazione delle forze produttive, attraverso la rivoluzione informatica, si accompagna una solitudine di nuova natura?
Il paradosso della prima generazione connettiva sta nel fatto che, quanto più si interagisce con automi tanto meno si acquisisce quell’expertise raffinatissima che serve ad interagire con gli ambigui esseri umani. Di conseguenza gli esseri umani, perduta l’expertise dell’ironia, divengono “poco interessanti e brutali”. E allora si eviteranno, in una spirale di solitudine crescente e sempre più affollata di stimoli info-neurali. Possiamo ipotizzare un paradiso di relazioni pure, cioè puramente virtuali? Io faccio fatica. E l’esperienza sta dimostrando che il prezzo da pagare per la disincarnazione sociale è un sentimento di miseria esistenziale. L’impotenza nasce dall’incapacità dei corpi di entrare in contatto con l’astrazione. L’astrazione è intoccabile, inattaccabile, immodificabile. I corpi la subiscono e si ribellano in un territorio che l’astrazione comanda senza toccarlo, e senza esserne toccato.
L’ondata identitaria e razzista è l’effetto catastrofico del trentennio neoliberale e della sua crisi, esplosa nel 2008. Un “razzismo dei perdenti”, sottolinei a più riprese, fortemente connesso con una efferata violenza misogina, contro la quale da diversi anni sta lottando il movimento femminista globale Non una di meno. Il disastro del nostro tempo è allora, anche, la vendetta del maschio bianco, invecchiato, impoverito e impotente?
Come si cura il nazi resta a mio parere la questione principale. Non sono sicuro che esista una cura, ma se non c’è una cura allora le cose si complicano enormemente, perché resta solo la guerra. Venticinque anni fa scrissi un libretto che si chiamava proprio Come si cura il nazi. Era un modo per aprire una questione che allora appariva lontana, marginale, quasi inesistente. Purtroppo non abbiamo curato il nazi, e adesso il rischio è che sia il nazi a curarsi di noi.
La questione dell’invecchiamento della razza bianca, a mio parere, è centrale. Sul lungo periodo il declino è destinato ad accentuarsi. Due generazioni hanno ormai rallentato il ritmo riproduttivo al punto che i riproduttori sono in quantità molto limitata. Non c’è Salvini che tenga, non c’è Kaczinski che tenga: la razza bianca, questo oggetto inesistente ma potentissimo, è destinata a declinare. La paranoia della sostituzione non manca di fondamento. La miscegenation è un processo globale inarrestabile. Ma può benissimo produrre una guerra permanente per i prossimi decenni.
Solo un’etica fondata sull’amicizia, solo un’etica egualitaria può evitare che il declino demografico bianco produca quello che sta producendo. Ma non c’è dubbio che quell’etica è stata sconfitta, ridotta a patrimonio fragile di una minoranza. L’ha distrutta il fanatismo neoliberale, e adesso gli si rivolta contro. E adesso mi pare troppo tardi per evitare che il sentimento accumulato dai perdenti esprima la sua forza distruttiva. La demenza è un altro tema che mi interessa, la demenza come fenomeno epidemico, come effetto di uno scollamento della mente iper-connessa dal corpo solitario. E come fenomeno linguistico, l’esasperazione cinica dell’ironia. Il delirio paranoico che si auto-realizza, le modalità discorsive e politiche in cui il panico si esprime.
Con riferimento prima al fallimento di Obama e poi alla novità di Papa Francesco, torni su un tema a te caro: la fine della speranza. Se “la volontà umana è impotente”, la “macchina del mondo è ingovernabile”. C’è una forza, però, che può “trasformare la disperazione in gioia”: l’amicizia. Cos’è, nel tempo del razzismo e dei nazionalismi, l’amicizia? Un ritiro rassegnato nella sfera privata o, piuttosto, una nuova forma della politica?
Un altro paradosso decisivo dell’epoca è l’aumento smisurato dell’orario di lavoro, nonostante le innovazioni tecnologiche consentano di aumentare a dismisura la produttività e, dunque, di ridurre il lavoro necessario. Questo paradosso, chiarisci, è sostenuto dalla “superstizione” del salario. Non trovi contraddittorio che i nuovi soggetti produttivi, di certo più scolarizzati delle precedenti generazioni, siano così superstiziosi e incapaci di pensiero critico? La mente interconnessa porta con sé forme inedite di stupidità?
La domanda è qui: cosa vuol dire coscienza? Diciamo capacità di auto-riflessione etica ed estetica, oppure diciamo capacità cognitiva di decidere in condizioni di indecidibilità. La coscienza è interpretazione di messaggi ambigui, interpretazione dell’enigma. L’automazione connettiva tende a ottundere la facoltà interpretativa, a ridurre l’interpretazione a decodificazione dati. La superstizione lavorista, l’idea che la sopravvivenza è legata al salario, aveva un fondamento storico robusto e motivato: la costruzione del mondo industriale richiedeva una sottomissione formale e reale del tempo di lavoro umano. Ma quando la tecnologia rende questo obbligo obsoleto, quando l’attività in variazione irriducibile a valore di scambio si fa forza produttiva generale, tutto impazzisce, e l’economia si mette ad andare contro la produzione di utile.
Rovesciando Marx affermi che la filosofia, oggi, debba occuparsi di interpretare il mondo, piuttosto che cambiarlo. Nelle pagine finali del tuo libro, poi, invochi la diffusione di una coscienza solidale tra i “neuroproletari” (ingegneri, artisti, designer, ecc.). Non pensi che per assolvere questo compito siano necessari anche sindacati di tipo nuovo e pratiche di lotta incisive?
Lo dico altrimenti: la piattaforma tecnica per la riprogrammazione della rete globale sarà (e non potrà essere che) il prodotto di lavoratori cognitivi che sono usciti dalla condizione di isolamento e di sofferenza inconsapevole. Solo un “movimento”, cioè un processo consapevole e collettivo potrà attivare una piattaforma tecnica di riprogrammazione della macchina globale. Senza la formazione di un movimento (cioè di una corporeità collettiva consapevole) non si potrà uscire dalla condizione di sofferenza, di miseria psichica, di suicidio. Solo un moto di solidarietà affettiva e quindi politica, potrà rompere l’incantesimo dell’affollata solitudine virtuale.
Non è detto che questo movimento nasca in continuità con le esperienze dei cinquanta anni passati. Probabilmente no, probabilmente non riusciremo neppure a riconoscerlo perché le sue modalità espressive e linguistiche saranno irriducibilmente nuove. Ma è nostro compito insistere, come psicoterapeuti, sul fatto che non c’è uscita dall’angoscia e dalla depressione, se non si trova una modalità di riattivazione della corporeità collettiva.