L a recente proposta di legge “Sécurité Globale”, elaborata dal partito La République en marche di Emmanuel Macron e discussa (e approvata) in tempi record dall’Assemblea Nazionale francese, ha suscitato polemiche molto dure dentro e fuori la Francia. Dopo l’approvazione del provvedimento, Yves Jeanclos, dalle pagine del quotidiano “Le Monde”, ha definito la Francia come “il primo paese securitario dell’Unione europea”. Il provvedimento, concepito per rispondere a un disagio diffuso nelle polizie francesi (e alle fortissime pressioni esercitate dai loro sindacati), oltre a prevedere un aumento dei poteri delle polizie locali e dei privati impegnati nella sicurezza, consentirà alle forze dell’ordine un ricorso più facile e rapido a tutte quelle strumentazioni tecnologiche utilizzate per il controllo delle persone come droni e telecamere.
L’articolo più contestato della legge, il numero 24, come narra un lungo e approfondito racconto di Viola Stefanello, introduce una multa fino a 45mila euro e la reclusione di un anno per chiunque diffonda, con qualsiasi mezzo, “l’immagine del viso o di qualsiasi altro elemento identificativo di un ufficiale della polizia o della gendarmeria nazionale impegnato in un’operazione di polizia, con lo scopo di danneggiare la loro integrità fisica o psicologica”. Una formula ambigua quella dell’integrità psicologica che, oltre a colpire in maniera grave il diritto di cronaca, garantirà alle polizie un maggiore livello di impunità in caso di abusi; abusi che in Francia si sono verificati molto spesso negli ultimi tempi, anche nel corso delle manifestazioni contro la legge in oggetto. Un altro effetto che potrebbe conseguire dall’applicazione della norma stessa è quello di dissuadere in maniera diffusa i cittadini dal riprendere o fotografare ciò che accade in strada in presenza della polizia, costringendo le persone a rinunciare al ruolo di testimoni e favorendo nella società un clima di silenzio – quasi di omertà – dettato dalla paura concreta di incorrere in sanzioni e condanne.
In passato le testimonianze fotografiche e audiovisive, non solo quelle raccolte dai giornalisti ma anche quelle opera di persone comuni, hanno consentito di fare luce su episodi poco chiari – sia dal punto di vista giudiziario che pubblico. A partire dalla fine dello scorso decennio, il progredire della tecnologia e la diffusione di dispositivi muniti di fotocamera ha favorito il moltiplicarsi di questo tipo di materiali, utili non soltanto per denunciare abusi o reati, ma anche come semplice testimonianza del presente. Tra l’altro nel 2019, proprio in Francia, un film profetico come Les Misérables, realizzato da Ladj Ly, regista francese figlio di genitori maliani, ha anticipato con una storia ricca di suggestioni alcuni dei temi del contestato articolo 24 della legge “Sécurité Globale”. Al centro della pellicola ambientata nel comune di Montfermeil, periferia est di Parigi, c’è proprio un video, girato con un drone da un ragazzino, che documenta le violenze commesse da alcuni poliziotti della Bac (Brigade anti-criminalité) ai danni di un altro minore.
Al di là della reale applicazione che avrà il provvedimento (che dopo le recenti manifestazioni il governo francese ha dichiarato di voler rivedere), e degli effetti che saranno apprezzabili soltanto negli anni, una legge del genere ha un peso enorme, anche solo sul piano simbolico e ideale: è una misura autoritaria – si può dire senza timore di essere smentiti – presa non in un regime qualsiasi, ma in un paese dell’Europa occidentale con una lunga tradizione democratica alle spalle, oltre che il secondo più grande dell’Unione, che ha come motto Liberté, Égalité, Fraternité. Un provvedimento adottato, come hanno raccontato molti osservatori, dietro le enormi e indebite pressioni dei sindacati di polizia (una parte dei quali non fa mistero delle sue simpatie per la destra estrema).
Entrando più nello specifico, chi si occupa di polizia non può fare a meno, ancora una volta quest’anno, di riflettere, oltre che sulle scelte discutibili della politica, anche sul ruolo negativo e deformante che i sindacati di polizia stanno giocando nelle trasformazioni delle polizie occidentali. Il 2020 è iniziato con il culmine della violenta repressione operata dai Carabineros nei confronti delle proteste che hanno scosso il Cile dall’ottobre 2019 ed è poi stato segnato dalle manifestazioni contro la brutalità poliziesca negli Stati Uniti e dal movimento Black Lives Matter. Nel dibattito seguito all’omicidio di George Floyd negli Stati Uniti si è avuta la percezione chiara del ruolo distorto che stanno assumendo alcune tra le maggiori associazioni di categoria della polizia statunitense, ruolo più volte sottolineato dagli studiosi che si occupano di forze dell’ordine e sicurezza.
La capacità dei sindacati di polizia – in diversi contesti europei ed extraeuropei, non solo negli Stati Uniti d’America – di entrare nei meccanismi di gestione delle istituzioni e di influenzarne in maniera decisiva le scelte, si è spesso accompagnata a operazioni discutibili e ambigue. Da una fitta e rumorosa attività finalizzata a scongiurare riforme o anche soltanto una maggiore trasparenza nelle operazioni (si pensi, riguardo al caso italiano e non solo, ai dibattiti frequenti e ricorrenti sul numero identificativo da apporre sui caschi degli agenti nei servizi di ordine pubblico), fino alla difesa cieca e a oltranza di quegli agenti che si sono macchiati di crimini, anche brutali. Questi comportamenti hanno in gran parte oscurato e messo all’angolo quelle operazioni virtuose, sperimentate soprattutto negli Stati Uniti, in cui autorità locali, sindacati di polizia e polizie si sono impegnati in maniera concreta per ridurre al minimo l’utilizzo della violenza favorendo un dialogo intenso, serrato e duraturo tra la cittadinanza e i poliziotti.
Un effetto che potrebbe conseguire dall’applicazione della norma è quello di costringere le persone a rinunciare al ruolo di testimoni, favorendo nella società un clima di silenzio (o di omertà).
Per questo motivo appare controproducente la proposta, sostenuta e appoggiata in un articolo pubblicato nelle pagine di Jacobin, di espellere o allontanare le associazioni di polizia ancora affiliate ai sindacati dei lavoratori, decisione presa in una sezione californiana dell’American Federation of Labour (la più grande centrale sindacale statunitense) a margine dei fatti che hanno agitato gli Stati Uniti negli ultimi mesi. Le deformazioni che avvengono e si moltiplicano nelle polizie e nelle loro associazioni scaturiscono proprio dall’isolamento e dall’assenza di contatti forti e stretti con la società e con le altre categorie di lavoratori. Tuttavia, la provocazione rilanciata da Jacobin non può essere ignorata, perché il problema indubitabilmente esiste: occorre interrogarsi sul ruolo dei sindacati di polizia, e per farlo vale la pena accennare a un importante cambiamento in corso, proprio in Italia, che non ha avuto la necessaria attenzione sulla stampa nazionale.
Nel settembre 2018 una sentenza della Corte costituzionale (n. 120/2018) ha dichiarato l’illegittimità del divieto (pertanto abolito) per gli appartenenti delle forze armate (quindi anche carabinieri e guardia di finanza) di costituire associazioni di tipo sindacale o di aderire a sindacati. Anche se in sordina, sia a causa dell’epidemia di COVID-19 sia soprattutto per il disinteresse mostrato dall’opinione pubblica, dalla politica e dagli stessi militari, si è cominciato a ragionare fra gli addetti ai lavori (e in parlamento) sulla natura e sul ruolo dei futuri sindacati per le forze armate: tra i pochi ne ha parlato diffusamente Andrea Leccese in una lunga e dettagliata serie di articoli pubblicati online sul “Fatto Quotidiano”. I progetti di legge con cui il Parlamento vorrebbe normare la sindacalizzazione delle forze armate finora si sono distinti per miopia e chiusura, prevedendo una forte limitazione delle materie oggetto di contrattazione, l’assenso del ministro per la nascita dei futuri sindacati, la verifica triennale da parte del Ministero sulla natura e l’operato del sindacato e il divieto di rappresentare altre categorie di lavoratori (che si traduce in sintesi con l’obbligo di creare sindacati autonomi separati dalle grandi centrali sindacali). Dalla nascita di associazioni siffatte non si riesce ad intravedere alcun ruolo progressivo, mentre al contrario è realistico prevedere la comparsa di tutte le deformazioni cui abbiamo accennato in precedenza per i sindacati di polizia già esistenti.
Tornando alla norma appena approvata in Francia, chi studia le polizie non può fare a meno di interrogarsi anche sui possibili effetti di lungo periodo che avrà la legge e se essa sarà in grado di influenzare anche le future analisi sul passato, facendo mancare una parte della materia prima che serve agli studiosi: le fonti. Non sappiamo, in assenza di certe testimonianze, quanto si potrà scrivere sui punti più controversi dell’operato dei corpi di polizia francesi e quanto si potrà analizzare la loro condotta, in piazza o per strada, nel contenimento di una manifestazione o della criminalità. Possiamo solo dire che nel momento attuale, oltre che a danneggiare pesantemente il diritto di informazione e a intralciare il lavoro dei giornalisti – addirittura il ministro dell’interno francese Gérald Darmanin ha parlato di un “accredito” di polizia da concedere ai reporter che vorranno seguire le manifestazioni – il provvedimento potrebbe ostacolare anche il lavoro di quegli studiosi che (in)seguono le polizie nel presente, come sociologi e criminologi.
Chi studia le polizie degli anni Sessanta e Settanta, ma anche quelle delle epoche precedenti, sa bene che oltre a una lettura delle carte d’archivio, delle fonti ufficiali e a stampa, l’indagine sui corpi e sulle istituzioni passa in parte anche da un’analisi visiva, iconografica e fotografica e – per il passato più recente – da un’analisi delle fonti audiovisive, che hanno ormai acquisito per gli studiosi un ruolo importante. È bene fare qualche esempio dagli ultimi quarant’anni di storia per far capire come certe immagini della polizia abbiano avuto un certo rilievo nel raccontarne la storia.
Alla fine degli anni Settanta un eccezionale lavoro del fotografo Leonard Freed, Police Work, raccontò al mondo la vita degli agenti della polizia di New York in un momento in cui la città viveva un forte periodo di crisi. Lo fece senza nascondere volti, nomi e cognomi, in accordo con l’istituzione ma senza esserne embedded. Per realizzare questo lavoro, che resta una sorta di monumento per chiunque voglia oggi raccontare la vita in divisa e il lavoro sulla strada, Freed seguì per molto tempo i poliziotti della NYPD nel corso delle loro giornate, affiancandoli in situazioni spesso tristi, violente e pericolose, seguendoli infine anche nella vita privata e nei momenti di pausa con le loro famiglie. Resta agli atti un documento ricco di spunti, che racconta senza alcun filtro o censura il contatto quotidiano di uomini e donne con la povertà, il disagio, la vita e la morte della parte più oscura della città.
Nel contesto italiano diversi fotografi si sono messi alla prova, soprattutto negli anni Settanta, nel fotografare la polizia anche nel corso delle sue azioni più violente in piazza o nelle strade. Sono noti e diffusi gli scatti di Tano D’Amico, che raccontano le proteste e gli scontri del settembre 1974 nella lotta per la casa a San Basilio (Roma). Altrettanto famosi sono gli scatti di Uliano Lucas che, oltre ad aver documentato manifestazioni e scontri, ha il merito di essere stato tra i primi in Italia a fotografare in maniera ampia e diffusa non solo i poliziotti, ma tutti gli “uomini in uniforme” dei diversi corpi separati dello Stato. Il suo l’istituzione armata resta insuperato per la capacità che ebbe di cogliere, sia in servizio sia nelle caserme, la realtà, la vita, i problemi e i fermenti che stavano attraversando con forza, in quel particolare periodo (la metà degli anni Settanta), non soltanto la società ma anche le istituzioni armate dello Stato.
Per comprendere come i tempi e le percezioni possano cambiare nei decenni – talvolta non in meglio – vale la pena citare un breve passo con cui “Nuova polizia e riforma dello Stato”, una rivista per il personale di polizia, senza dubbio la più progressista del suo tempo, raccontò nel 1978 l’uscita di un lavoro del fotografo Aldo Bonasia dedicato per intero alle forze dell’ordine in servizio: L’io in divisa. Immagini per un’analisi sociale. La recensione recitava: V’è tutta la realtà del poliziotto, con le diverse sfumature che accompagnano la dura vita del tutore dell’ordine: la paura, la violenza, lo smarrimento, il sorriso, la noia, la solitudine, l’angoscia. Dinanzi alle foto di Bonasia, dopo la prima lettura veristica, ci appaiono, tuttavia, nuove e profonde immagini: ci appare come in un’epifania l’uomo sotto la divisa, il malessere esistenziale riflesso sul metallo delle armi, la contraddittoria umanità dietro il ghigno terribile di colui che si appresta a sparare, l’inquietudine e il dubbio accanto al gelo degli occhi che spiano la folla dei manifestanti. Quello di Bonasia è un bianco e nero tremendo e drammatico che scava dentro la vicenda quotidiana per trarne la durezza spietata della nostra epoca.
Gran parte delle foto del libro di Bonasia era stata scattata a Milano senza alcun accordo con l’istituzione, nelle immagini erano riconoscibili e identificabili guardie di PS e funzionari che in quel periodo prestavano servizio in città, alcune foto mostravano senza alcun filtro situazioni di conflitto o di violenza. L’intero volume era privo di didascalie e le immagini in bianco e nero erano alternate, generando ironia e disorientamento, a estratti dall’Enciclopedia della polizia di Luigi Salerno, un testo destinato agli operatori di polizia pubblicato nella sua prima edizione durante il fascismo e poi riedito per altre tre volte negli anni Cinquanta. Nonostante questi aspetti, il volume fu pubblicato senza problemi e recensito sulla seconda rivista di polizia più diffusa d’Italia, perché parlare di polizie era necessario e urgente.
In ultimo, ritornando alla recente legge francese, possiamo riflettere sulle implicazioni di questo provvedimento ricollegandoci alla storia e alla memoria di un caso italiano, una ferita aperta di cui l’anno prossimo ricorreranno i vent’anni: le manifestazioni contro il G8 di Genova del 2001. Nessun episodio della storia recente dell’Italia si presta meglio per fare un parallelo e per immaginare quali potrebbero essere i possibili effetti della legge francese. Una volta, quando non c’erano le videocamere portatili, i telefonini in grado di riprendere e scattare fotografie, le macchine digitali, i siti internet in cui diffondere tutto, una volta era più difficile documentare un evento. Anzi, era più facile nasconderlo, depistare (…) Su quello che è successo a Genova tra il 19 e il 22 luglio del 2001, durante lo svolgimento del vertice del G8, esistono migliaia di fotografie, centinaia di ore di ripresa, registrazioni audio, praticamente ogni secondo significativo è stato registrato, i fatti sono tutti lì, su pellicola o su file digitali.
Con queste parole Carlo Lucarelli ha introdotto una puntata del suo programma “Blu notte – Misteri italiani” (22 luglio 2011), dedicata al racconto delle proteste genovesi. I fatti di Genova sono dunque un episodio utile per comprendere l’importanza delle testimonianze audio e video raccolte in determinate circostanze, non soltanto ad opera di giornalisti, ma molto spesso anche da parte dei manifestanti. E lo sono da due punti di vista distinti, che poi in parte andrebbero tenuti insieme nel ricostruire una storia di quelle giornate. Quello giudiziario, delle indagini condotte dalla magistratura e dei processi in cui alcuni degli abusi commessi dalle polizie sono stati accertati; e quello della memoria, poiché la storia di quelle giornate, scritta peraltro solo in parte, sarà fondata anche su quell’enorme massa di video, foto e registrazioni audio che per fortuna possediamo. Queste testimonianze hanno contribuito a tramandare un ricordo ampio delle brutalità commesse dalle polizie a Genova (un ricordo molto più vasto e completo di quella che alcuni chiamano verità giudiziaria) e sono un tassello fondamentale per ricostruire se non la verità, almeno una storia che raccolga i molti punti di vista su quelle vicende.
Per questi motivi e per gli esempi del passato che abbiamo raccontato, si spera che l’esperimento securitario condotto con le norme della legge “Sécurité Globale” sia soltanto un errore, uno scivolamento autoritario su cui la Francia saprà tornare indietro, a partire già dal passaggio della legge al Senato, per continuare a percorrere l’unica strada possibile per affrontare questi problemi: studiare, fotografare, riprendere le polizie, dialogare con chi in quelle istituzioni vive e lavora e soprattutto tenere sempre vivo il dibattito sulle questioni sociali che sono all’origine di certi problemi di “sicurezza”.