N ella Sardegna di fine Ottocento, lo studioso francese Gillebert d’Hercourt esaminò quarantotto crani e novantotto teste di essere umani vivi. Si trattava dei soggetti individuati per partecipare ad una ricerca condotta per conto della Société d’Anthropologie di Parigi. A seguito del viaggio esplorativo, nel 1882 si tenne un incontro per discutere del rapporto stilato da d’Hercourt sull’antropologia e l’etnologia delle popolazioni sarde. L’indagine risentiva delle storture insite nelle teorie positiviste e nelle speculazioni lombrosiane, poiché stabiliva che la razza sarda non è intelligente, è incivile ed è portata a delinquere per natura. Lo stesso Lombroso aveva collocato la Sardegna tra le province ultradolicocefaliche, ovvero popolate da abitanti dotati di un cranio più piccolo del normale, troppo ridotto per contenere un cervello normodotato.
Nel 1883, l’anno in cui moriva Karl Marx e nasceva Benito Mussolini, in un piccolo paese nel Sud della Sardegna si celebrava il matrimonio di Francesco Gramsci e Peppina Marcias. Erano i genitori del fondatore de L’Unità Antonio Gramsci, arrestato poco più di quarant’anni dopo per mano del regime fascista, mentre era deputato in carica del Partito Comunista Italiano. Durante la prigionia, quando i suoi aguzzini gli concessero di scrivere, Gramsci decise di aggrapparsi allo studio, concentrandosi su alcuni ambiti del sapere come la questione meridionale e la storia italiana risorgimentale. Era il 1929 quando stavano prendendo forma i Quaderni del carcere, un’opera magmatica dove si condensa il pensiero del filosofo di Ghilarza. Molte pagine dei quaderni sono fitte di riflessioni sulle categorie di egemonia culturale e di subalternità. Tante sono le righe dedicate alla condizione dei contadini sardi e del meridione o a quelle degli operai del settentrione.
Dopo l’Unità d’Italia, secondo Gramsci, le presunte barbarie congenite attribuite ai meridionali hanno esercitato una precisa funzione storica nella politica della classe dirigente italiana: abolire l’autonomia dei popoli del Sud, ovvero delle classi subalterne. Se sono le classi egemoniche del settentrione a stabilire cosa sia il meridione, è perché i subalterni appartengono ad una categoria storicamente determinata da processi economici, politici, sociali e culturali. Condizionare l’azione politica dei popoli significa impedire che possano scrivere la loro storia e generare le loro autorappresentazioni.
Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, sulla coscienza collettiva del popolo sardo c’era molto spazio bianco su cui scrivere. Questa carenza di argini è una conseguenza storica del postcolonialismo in Sardegna. Ne è un esempio la trasposizione cinematografica del romanzo autobiografico di Gavino Ledda, ad opera dei toscani fratelli Taviani. Padre padrone (1977) si aggiudicò la Palma d’oro al Festival di Cannes, ma divise la critica e l’opinione pubblica locale. Film come quello dei Taviani o come Banditi a Orgosolo (1961), diretto dal siciliano Vittorio De Seta, possono risultare problematici perché provenienti da una narrazione eterodiretta, in una lingua diversa dal sardo, focalizzata sugli attributi ruvidi di una realtà rurale e che non poteva essere messa in scena da un’industria cinematografica autoctona, perché di fatto ancora non esisteva.
Condizionare l’azione politica dei popoli significa impedire che possano scrivere la loro storia e generare le loro autorappresentazioni.
Le antiche credenze popolari sarde, così come le origini storiche della civiltà nuragica non sono state oggetto di narrazione cinematografica, fino a non molto tempo fa. Nell’arco di pochi decenni, lo spazio bianco è stato scritto e oggi l’isola comincia ad essere sinonimo di terra magica, fuori dal tempo e dalla modernità. La Sardegna dei fratelli Taviani ora è stata superata e resa più attraente perché dalla miseria della vita rurale nel dopoguerra, si è passati al fascino dell’esotismo. Così, anche nella contemporaneità la Sardegna risulta altresì ai margini e non inclusa nell’immaginario del sistema egemonico.
Ne è un esempio lo spot Ichnusa Anima Sarda (2017) diretto dagli hollywoodiani David Holm e Justin Henning per l’agenzia pubblicitaria Leo Burnett. Il film integrale, della durata canonica di 90 secondi, introduce il marchio con un messaggio: “L’Ichnusa è la birra più famosa della Sardegna”. Dopo alcune indicazioni di tipo geografico, si annuncia che il motivo per cui è stato realizzato uno “strong copy tv” è per restituire l’autentica anima sarda di questa birra, da tempo di proprietà dell’olandese Heineken. La dichiarazione dei pubblicitari è il preludio di nove sequenze, volutamente provocatorie. Lo spot della Leo Burnett contrappone ritmicamente i cliché sulla vita rurale in Sardegna a quelli delle realtà altre, distanti, metropolitane, dove la modernità ha trovato terreno fertile per attecchire. La prima scena ritrae dei pescatori di Alghero, mentre issano reti cariche di pesci, accompagnata dalla didascalia “Il nostro sushi”. La reggia nuragica di Barumini (un grande insediamento risalente al XVI-XIV secolo a.C.) è contrapposta ai loft; i murales politici di Orgosolo corrispondono ai vernissage. I mamuthones, costume tipico del carnevale del paese di Mamoiada, equivalgono alle maschere di Halloween e i pastori dalla barba incolta agli hipster. La risacca sta al sound, come il surfare sulle onde sta ai social network; infine la birra Ichnusa è la birra sarda, l’anima sarda.
La Sardegna non può essere dentro la storia, nella modernità. L’isola è mostrata per la sua asincronicità ed è questo che affascina i suoi visitatori, che affollano le coste per pochi mesi l’anno. L’essenza arcaica attribuita ai sardi acquisisce valore attrattivo ed è così che nel 2022 la Regione Sardegna, per promuovere il turismo sull’isola, a livello nazionale e internazionale, ha presentato lo spot Sardegna, un mondo straordinario. Lo spot inizia con un tramonto sul mare, due surfisti in controluce che lo guardano e un primo piano su una donna in costume tradizionale, con un copricapo rosso, blu e dorato, immersa nella penombra di un bosco. Il montaggio serrato svela che la donna sta osservando qualcosa. Dalle profondità del mare si intravede una figura, su cui ruota attorno l’intero film da 90 secondi. Si alternano orizzonti maestosi. I surfisti stringono le tavole e dalla riva corrono verso le onde, mentre dal mare emerge uno strano essere vestito di pelli, il dorso ricoperto di campanacci e il volto celato da un’arcigna maschera di legno nero. È, ancora una volta, un mamuthone. Alcuni attribuiscono l’origine del costume ad un rito apotropaico residuale, celebrato per accompagnare il passaggio dalla stagione invernale a quella primaverile. Ad ogni carnevale, i mamuthones sfilano in processione muovendosi per salti cadenzati, sotto il ritmo dettato dall’issohadore, un uomo in maschera bianca e dotato di lazzo, ai quali i mamuthones sono sottomessi.
Di contro, nello spot della Regione Sardegna, all’apparizione del mamuthone la donna in abito tradizionale reagisce lanciando dei petali rossi, che volano su un sito archeologico nuragico: il complesso monumentale megalitico di Santu Antine (XV sec. a.C) nel quale sono in visita una donna e quella che si presume essere sua figlia. Una serie di transizioni sorvolano su mastodontici faraglioni di calcare e dune di sabbia dorata. Il personaggio in maschera ora è in groppa ad un cavallo sui monti dell’entroterra. Un uomo anziano tocca delle rocce e, subito dopo, alle ultime luci del tramonto, la figura misteriosa sfila la maschera e mostra il suo volto di donna, interpretata dall’ex Bond girl Caterina Murino. A questo punto, un essere titanico erge la donna nel palmo della sua mano. Si tratta della riproduzione in computer grafica di un Gigante di Mont’e Prama, che dovrebbe rappresentare uno dei ventotto colossi di pietra scolpiti a tutto tondo, risalenti a tremila anni fa. Lo spot si conclude con Caterina Murino che legge una favola a sua figlia in una spiaggia, incredibilmente deserta, nei pressi di Tavolara.
La Sardegna non può essere dentro la storia, nella modernità. L’isola è mostrata per la sua asincronicità ed è questo che affascina i suoi visitatori, che affollano le coste per pochi mesi l’anno.
Longevità, natura incontaminata, rituali misteriosi e antichi giganti di pietra sembrano costituirsi come gli odierni elementi di cui si compone l’orizzonte immaginifico sui sardi e sulle sarde. Già qualche anno prima dello spot della Regione Sardegna, il rapper Salmo, pseudonimo di Maurizio Pisciottu, si è prestato alla realizzazione di un corto action fantasy, ambientato in una Sardegna mitologica, scritto e diretto da Mauro Aragoni. Il corto, intitolato Nuraghes S’arena, risale al 2017 e sembra una sorta di parodia di Valhalla Rising (2009), ma nell’entroterra sardo. Si apre con il primo e unico capitolo intitolato “Is cogas”, le streghe. Dei corvi gracchiano attorno ad una torre a forma di tronco di cono rovesciato, come un nuraghe, ma composto da teschi lucidi e neri. Due uomini vestiti di pelli si trovano nel Bosco Nero, dove il protagonista Arduè, interpretato da Salmo, crede di vedere sua figlia. La bambina è stata uccisa da un uomo e suo padre intende vendicarla a S’arena, partecipando ad un torneo sacro, durante il quale gareggerà contro l’assassino. Non si tratta di una qualsiasi competizione agonistica, ma di una sorta di rito al quale il popolo non può assistere e che mette in palio per il vincitore un posto come dio.
“Loro esistono. È la loro terra quella che calpestiamo”, dice Bachis il maestro di Arduè, con lo sguardo perso in una vallata brulla davanti a loro. Si riferisce ai Giganti, disposti l’uno di fianco all’altro nella sequenza successiva. Sono schierati su un colle con alle spalle la riproduzione di una reggia nuragica integra, molto simile a quella dei castelli medievali. Indossano maschere di fantasia rispetto a quelle effettivamente tramandate dalla tradizione sarda. Sono travestimenti ricavati da teschi di animali dotati di corna. Uno dei giganti sostiene un bastone capeggiato da una grande croce celtica. I Giganti sono guerrieri sanguinari e pare che l’assassino della figlia di Salmo sia uno dei più agguerriti, ma questo non lo ferma dal prepararsi per la competizione, indossando indumenti di pelle borchiata, con il collo ornato dal ciondolo della dea della fertilità, sottili dreadlocks neri sopra la rasatura che circonda la testa, perché essere vendicativi è nel sangue dei sardi: “Siamo guerrieri dal cuore ribelle”, coraggiosi quasi come animali, magici quasi come dei druidi mediterranei.
L’immaginario magico della Sardegna contemporanea si compone anche di una recente produzione: La terra delle donne (2023) diretto dalla pugliese Marisa Vallone. È ambientato negli anni attorno alla Seconda Guerra Mondiale in un paesino sperduto dell’isola, dove quattro donne della stessa famiglia sono legate da un destino di natura esoterica. La protagonista Fidela, interpretata dalla sceneggiatrice e produttrice del film Paola Sini, è vittima di una maledizione, poiché settima figlia femmina consecutiva: è nata coga, una strega. Secondo alcune tradizioni popolari, le cogas, così come le surbiles, sono esseri vendicativi, che hanno il potere di insinuarsi in altre forme di vita o di prenderne le sembianze, rendere le donne sterili o causare la morte dei bambini.
La seconda donna è la madre di Fidela che considera la figlia un problema, se ne occupa con disamore e se ne sbarazza il prima possibile, abbandonandola nei boschi. Fidela impara in autonomia ad usare le erbe curative e, una volta diventata donna, vive ai margini della comunità come curatrice e accabbadora, sovrapponendo in un solo ruolo differenti figure della cultura popolare sarda. Le affidano Bastiana una bambina nata coga come lei e che diventerà la sua filla de anima, una sorta di figlia adottiva alla quale trasferisce le sue conoscenze. La quarta donna è Marianna, la sorella maggiore di Fidela, l’unica in famiglia ad aver dimostrato affetto nei confronti della sorella nata strega. Marianna, interpretata da Valentina Lodovini, non riesce a diventare madre ed è ossessionata dalla sua fertilità, ma non sa di essere stata vittima di una maledizione, spingendosi all’estero alla ricerca di un rimedio. Tornerà a casa senza soluzioni, ma in compagnia di due medici inglesi, interessati a scoprire il segreto della longevità dei sardi.
Longevità, natura incontaminata, rituali misteriosi e antichi giganti di pietra sembrano costituirsi come gli odierni elementi di cui si compone l’orizzonte immaginifico sui sardi e sulle sarde.
In La terra delle donne sacro e profano, riferimenti a culti pagani, poteri magici e medicina tradizionale si mescolano in un intreccio narrativo composto da diversi filoni. Le vicende di queste donne sono ambientate in luoghi come i bastioni aragonesi di Alghero o il Pozzo Sacro di Santa Cristina. La coga si rifugia nelle cascate dei boschi al confine fra Belvì e Seulo, nel cuore dell’entroterra barbaricino, che sembra non molto distante dalle scogliere granitiche dell’arcipelago della Maddalena, l’isola ex base NATO a Nord Est della Sardegna. La narrazione è intessuta di spot per promuovere la vocazione turistica di una regione che può offrire ai visitatori un’esperienza vacanziera versatile e completa: scampagnate in montagna, relax in spiaggia e quando il vento di maestrale imperversa, si può addirittura pensare di visitare qualche sperduto sito archeologico.
La cesura tra gli stereotipi del passato e il nuovo immaginario è restituita, per certi aspetti, dal lungometraggio prodotto da Rai Cinema L’uomo che comprò la luna (2018). Lo iato emerge sia perché il soggetto del film è stato scritto dal regista sardo Paolo Zucca, con l’ausilio della conduttrice e attrice di Macomer Geppi Cucciari (ma anche della scrittrice e sceneggiatrice Barbara Alberti), sia per via della sceneggiatura, che contrappone gag su stereotipi e cliché etnici all’autoironia, basata sulla conoscenza diretta di alcune caratteristiche identitarie. In L’uomo che comprò la luna il contrasto oppositivo è rafforzato dalla suddivisione della trama in due parti distinte: una ambientata nella penisola e una sull’isola. Il pretesto narrativo è del tutto fantastico: in Sardegna c’è qualcuno che reclama il legittimo possesso della Luna, allarmando l’intelligence italiana e di tutte le grandi potenze mondiali, con gli USA in prima linea. Al fine di far desistere il sardo sedicente proprietario della Luna dalle sue smanie di possesso, gli accordi internazionali finiscono per stabilire che l’unica soluzione percorribile sia quella di designare un sardo autoctono come mediatore. Dino e Piero, due agenti segreti italiani (Stefano Fresi e Francesco Pannofino), individuano nel soldato Gavino Zoccheddu l’uomo adatto alla missione di persuasione, senza badare ad un fattore determinante: il rifiuto. Zoccheddu è un militare, pertanto non dovrebbe essere abituato ad esercitare la sua volontà, eppure sceglie di rinnegare le sue origini, facendosi chiamare Kevin Pirelli. Il soldato ripudia la sua identità di sardo e modifica il suo nome all’anagrafe per non essere associato a suo nonno anarchico, ma alla fine è costretto ad eseguire gli ordini.
Zoccheddu non è sufficientemente preparato per portare a compimento la missione e necessita di un corso accelerato di sarditudine, in modo tale da confondersi, senza destare sospetti, con gli indigeni. Dino e Piero individuano come formatore culturale sardo uno stalliere, trapiantato da tempo nella penisola, interpretato da Benito Urgu, il quale incarna lo stereotipo: la comicità etnica alla vecchia maniera. Durante il periodo di formazione, al soldato Zoccheddu si insegna la corsa del latitante, il gioco della morra, come portare il fucile, la posa da maschio sardo virile: tutte dritte adatte al confronto con i suoi pari. Una volta arrivato in terra sarda, gli insegnamenti ricevuti non saranno del tutto utili e troverà modo di applicarne solamente alcuni, in un contesto limitato ai piccoli paesi dell’interno, peraltro senza grandi risultati. Infine, il protagonista scoprirà cosa significa essere sardi tramite ciò che imparerà dal confronto diretto con gli autoctoni. Se, pertanto, la prima parte del film potrebbe risultare anacronistica e disturbante, il secondo tempo riabilita il lavoro di Zucca, lasciando che emerga il contrasto fra stereotipi e autenticità, per quanto anch’essa frutto di un costrutto culturale.
L’uomo che comprò la luna termina con un finale onirico e romantico. Il protagonista è finalmente riconvertito ai valori della sua terra natia, tanto da sovvertire la riuscita della missione. Sceglie di andare contro la CIA e gli odiati statunitensi, grazie al contributo di un’anziana donna sarda, capace di chiedere alla luna di agitare le maree contro i nemici invasori. Le sequenze conclusive, pur restando comiche, acquisiscono un’atmosfera magica e, allo stesso tempo, alquanto eccentrica. Una stramberia che si potrebbe ricondurre ad un attributo caratteristico della storia del popolo secondo Gramsci, ovvero la sua spontaneità.
Nel pensiero gramsciano la storia degli ultimi è asistemica e, pertanto, lascia un certo grado di autonomia, di spazio di azione politica, poiché ai margini dalla dialettica coloniale.
Nel pensiero gramsciano la storia degli ultimi è asistemica e, pertanto, lascia un certo grado di autonomia, di spazio di azione politica, poiché ai margini dalla dialettica coloniale. Spesso la storia non ufficiale dei “vinti” non supera concezioni del mondo legate al senso comune, poiché non è animata dalla consapevolezza politica dei confini entro cui è inserita la propria coscienza collettiva, ma da concezioni esplicite ed implicite che si oppongono alla concezione del mondo egemonica e che Gramsci chiama folclore. Nel Quaderno 27 si esorta a non trascurare le concezioni del mondo astoriche, la morale e la religione del popolo:
Il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente la nascita di una nuova cultura nelle grandi masse popolari, cioè sparirà il distacco tra cultura moderna e cultura popolare o folclore.
Per Gramsci il subalterno col folclore resiste attivamente al potere egemonico e alle sue narrazioni. In questo senso la storia dei popoli subalterni non è solamente un residuo storico negativo, ma rappresenta anche un moto direzionale asincrono e oppositivo rispetto a quello della storia ufficiale. Così, il proposito gramsciano del Quaderno 25 di ricercare “ogni traccia di iniziativa autonoma dei gruppi subalterni” è la pratica individuata per ripensare il processo di emancipazione delle classi sociali marginalizzate.
Il presupposto per il quale i subalterni abitano nello spazio autonomo della propria storicità è una delle convergenze fra il materialismo storico-geografico del filosofo sardo e le teorie sul colonialismo sviluppatesi in India, Sud America e Medio Oriente. Le intuizioni gramsciane in dialogo con gli studi decoloniali e postcoloniali sono tra gli oggetti di studio del gruppo di ricerca sardo Filosofia de Logu, che attraverso le prospettive acquisite da campi di indagine eterogenei, vuole decostruire la ragione coloniale, a partire dalla Sardegna. Secondo il collettivo, i recenti studi postcoloniali e decoloniali condividono una medesima derivazione: la definizione della categoria di subalternità, assimilata attraverso le traduzioni dei testi di Antonio Gramsci, in particolare quelli sulla questione meridionale e la storia sociale dello stato italiano. La subalternità al settentrione della Sardegna e del Sud Italia è compresa nei termini di un materialismo geografico per il quale i rapporti di potere e le dinamiche di sfruttamento sono dislocate nello spazio. Non solo il tempo, ma anche lo spazio è da considerare come parametro per misurare i processi storici del modo di produzione capitalistico e il conflitto di classe. Ciò significa tenere conto delle dinamiche escludenti, a danno dei popoli extra-europei e di tutti quelli oppressi dal dominio coloniale.
Il sacrificio originario del sistema produttivista, dell’industrializzazione liberista e dell’accumulazione è avvenuto nel solco della marginalità; pertanto è proprio da lì che è possibile decostruire il pensiero colonialista. In questo senso, la femminista afrodiscendente bell hooks accoglie l’invito di Gramsci a stare nello storico negativo e ad assumere una postura rivoluzionaria, esortando ad esercitare uno sguardo oppositivo e sottrarsi alla passività. In Elogio del margine-Scrivere al buio, scritto in dialogo aperto con Maria Nadotti, bell hooks ricorda come i bianchi punivano i loro schiavi quando osavano guardarli. Pochi paragrafi dopo, facendo riferimento esplicito a Michel Foucault, sostiene come “persino nelle peggiori condizioni di subordinazione, la capacità di manipolare il proprio sguardo, in barba alle strutture di dominio che lo reprimono, sottrae alla passività.” Ne sono un esempio i romanzi di Sergio Atzeni, i film di Giovanni Columbu e Salvatore Mereu, la musica di Jacopo Incani e Daniela Pes, autori capaci di raccogliere e interpretare l’epos dei sardi e delle sarde per farne poesia senza esotismi.