

L’ industria culturale contemporanea pare tutta impegnata nelle attività espansive e imprenditoriali di crescita quantitativa, moltiplicazione dei titoli, stampa-distribuzione-vendita. Chissà cosa ne avrebbe pensato Vladimir Majakovskij – lui che in una celebre poesia (invecchiata male) scriveva: “Contro la marea di parole innalziamo una diga. / All’opera! / Al lavoro nuovo e vivo! / E gli oziosi oratori, / al mulino! / Ai mugnai! / Che l’acqua dei loro discorsi faccia girare le macine”. E quanto avrebbe berciato Louis-Ferdinand Céline di fronte al galateo della benignità sciorinato in vesti eleganti (o eccentriche, in ogni caso distintive) al vernissage dei molti eventi culturali, piccoli o grandi, dai benemeriti attori editoriali che raccontano l’incremento di vendite librarie, sic et simpliciter, come un fattore autoevidente di sviluppo culturale? “Forse semplicemente il pubblico applaude perché è presente; intendo non tanto presente a se stesso, ma all’evento”, scriveva un altro autore allergico alla mondanità, Vitaliano Trevisan, in Works.
Il meccanismo dello spettacolo, il cui esito inevitabile è appunto l’applauso, e la logica del “purché si legga” hanno moltiplicato – ancora: quantitativamente – le occasioni in cui le diverse agenzie del campo letterario, tutte insieme nel pentolone “culturale”, celebrano la propria bontà (così, tra l’altro, è intitolato un racconto lungo di Walter Siti pubblicato nel 2018, il cui protagonista è proprio un editore misantropo e del tutto a disagio in questo nuovo clima): il festival, l’happening, il reading e altri sostantivi di importazione. La letteratura, l’arte, i prodotti estetici, tuttavia, sono sempre frutto di un compromesso tra i vari attori sulla scena: “il patrimonio culturale […] non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie”, scriveva Benjamin nella più celebre delle Tesi di filosofia della storia (la VII), evidenziando la dialettica storica che produce ciò che genericamente siamo disposti a chiamare “arte”. Pertanto, in tempi di reazione come i nostri, ancor più che in passato, tutte le dichiarazioni in ambito culturale sulle quali ricade la più completa unanimità andrebbero portate a critica con particolare accuratezza.
Vorrei condurre qui, passato lo zelo forcaiolo puntualmente sgonfiatosi nel giro di un amen, una critica spassionata della vicenda Più libri più liberi, concentrando l’attenzione su un aspetto solo di rado chiamato in causa eppure, a mio giudizio, cruciale, forse il vero prius della faccenda. La faccenda… ricordate? Chiara Valerio, in qualità di direttrice editoriale della fiera della piccola e media editoria, invita Leonardo Caffo, autore di Anarchia. Il ritorno del pensiero selvaggio (2024), nonostante i molti dubbi, sollevati in tempi non sospetti, sull’opportunità della presenza di una persona imputata (e poi condannata in primo grado l’11 dicembre 2024) per maltrattamenti e lesioni nei confronti della ex compagna in una fiera dedicata, tra gli altri, a Giulia Cecchettin, uccisa brutalmente nel novembre del 2023 dall’ex fidanzato. Molto presto il caso è scoppiato, come si dice, e si è creata subito una polarizzazione mediatica che, com’era prevedibile, ha impedito un dibattito accurato, e che si incardinava fondamentalmente su due argomentazioni: da un lato la presunzione di innocenza e la libertà di parola, arrocco difensivo immediato quanto inefficace di Valerio e dei suoi difensori, in compagnia – insolita, ma significativa – della nuova destra reazionaria e alternative (che tiene il dito sul grilletto per tirare a vista su qualsiasi cosa possa essere, com’è qui il caso, ricondotta a ciò che sempre spesso più viene definita ideologia woke); l’altra argomentazione riguardava l’inadeguatezza dell’invito, declinata in molti modi, più o meno aggressivi: chi ha rinunciato all’invito alla fiera defilandosi in silenzio come un imbucato, chi l’ha fatto platealmente, con una comunicazione pubblica; chi, ancora, ha pubblicato dei pezzi rap sarcastici contro Valerio e il suo femminismo di carta (brani verbalmente molto violenti e di pessima qualità, ad essere onesti).
La questione va forse ripensata a partire proprio dalla dedica a una persona, Giulia Cecchettin, la cui vita (e la cui morte) c’entra ben poco con l’editoria e con i libri. Occorre fare un passo indietro. La dichiarazione di Valerio all’apertura della sua direzione, nel novembre del 2023, era un appello, di per sé più che legittimo benché un po’ astratto e dunque evasivo, alla connessione tra i testi e il mondo: “Le fiere e i festival, i libri, stanno nel mondo e servono nel mondo, in mezzo alle persone. E così questa fiera comincia in un momento tetro. Noi parliamo mentre Giulia Cecchettin è stata ammazzata. Ma siamo qui a parlare perché siamo certi che leggere fornisca le parole e più parole si hanno, meno mani si alzano. […] Per me questa fiera è per Elena Cecchettin che ha tutte le parole, ma ci aggiungo le mie, anzi, le nostre ogni volta che dovessero servirle, i libri servono in mezzo agli esseri umani. Ed è in memoria di Giulia Cecchettin.”
Il patrimonio culturale non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie, scriveva Benjamin.
In Soglie (1989), Gérard Genette ha preso in esame, tra le altre cose, le differenti funzioni che può avere una dedica, senza trascurarne le ambiguità né ignorando il carattere talora spurio delle possibili interpretazioni. Da quell’analisi, che riguarda le dediche librarie ma che contiene spunti interessanti anche per la questione che discutiamo qui, possiamo trarre due riflessioni.
Prima considerazione: in una logica archivistica, secondo la quale nell’evoluzione di un fenomeno c’è molta più sopravvivenza di quanto non sembri, le dediche, anche quelle moderne redatte in autonomia (e parlo qui dell’autonomia specifica del campo letterario), recano con sé traccia degli atti di cortigianeria dell’antichità, quando cioè l’autore dedicava l’opera, per farla breve, al proprio mecenate, a chi l’aveva finanziata. È bene tener presente che, anche laddove la dedica sia votata a un principio morale o estetico, essa proietta in ogni caso la propria potestà anche nel campo economico, che nella modernità afferma un principio molto differente rispetto al passato e molto chiaro: il mercato. Semplificando molto, potremmo dire che la dedica innesca un processo comunicativo dal carattere anche commerciale. Ciò appare indiscutibile, a maggior ragione, se consideriamo il contesto di una fiera letteraria, che si propone di presentare l’attività commerciale delle imprese editoriali. In secondo luogo va osservato che la dedica a Giulia Cecchettin non dà adito ad alcuna possibilità di replica, per l’evidente ragione che si tratta di una dedica in memoria. È uno di quei casi in cui il dedicatario non può replicare, poiché è unicamente il suo stato di defunta a dare ragione della sua menzione.
Ci sono però altri problemi, meno legati a intrinseche ambiguità funzionali e connessi invece al contesto, inerenti cioè ai rapporti produttivi e al campo letterario contemporanei. La prima notazione, forse banale, è di ordine cinico-realista. Il campo editoriale e letterario, così come tutti gli altri ambiti dell’attività relazionale umana, è composto da uomini e donne della più varia schiera: alti e bassi, belli e brutti, buoni e cattivi, con tutta una serie di gradazioni e variabili indipendenti. Dedicare una fiera dell’editoria a una vittima di femminicidio impone una selezione degli invitati che prescinde dalla qualità dei libri. Non ci potranno essere violenti contro le donne, in particolare. Sacrosanto. Se non che un numero discreto di scrittori del passato e del presente rientra, per ragioni che qui riassumeremo senza approfondire con l’aggettivo “nevrotiche”, nel gruppo (definito su base interrelazionale e sintetica) degli antipatici.
Gli autori che abbiamo citato in apertura fanno parte, probabilmente, di questa pseudocategoria. Certo, non ogni persona antipatica è violenta, ma siamo appunto in presenza di categorie intuitive e superficiali, la cui comprensione e il cui uso pubblico mainstream faticano a contestualizzare criticamente. Un uomo che tira uno schiaffo è violento, e va bene. E chi risponde male, magari con toni sarcastici, minacciosi o apertamente aggressivi? Come valutare il libro scritto da questa stessa persona? È violento a sua volta, immediatamente e come per contagio? E che dire, ancora, delle rappresentazioni finzionali della violenza, dei punti di vista prospettici frastornanti in cui spesso il romanzo immette il lettore? Ogni spazio di ambiguità è anche uno spazio di collusione? Lascio in sospeso queste domande, non per viltà, spero, ma perché credo che vadano sempre modulate rispetto ai contesti: cosa che, di contro, la dedica suddetta non invita a fare.
Le fiere servono anzitutto chi fa profitto con il commercio libresco. E per quanto misero il profitto va preso per quello che è: l’esito di una struttura di relazioni che permette l’appropriazione privata del frutto di un lavoro collettivo.
Infine vi è un’ultima questione, che in qualche modo riassume tutte le altre. Nell’editoria, e specialmente nella piccola editoria in quanto attività economicamente marginale, il ruolo del lavoro gratuito, povero o precarizzato è centrale per la tenuta dell’intera baracca: tirocini, volontariato, precarietà, cottimo sono strumenti – utilizzati in maniera talora strutturale – che consentono di comprimere i costi e di realizzare il profitto necessario alla sopravvivenza dell’attività, in una dinamica perversa, che moltiplica lo sfruttamento quanto più alla linea di classe si sommino le altre fratture che aumentano la possibilità di manovra nell’estrazione del plusvalore dal lavoro: tra le altre, quella di genere, naturalmente. La questione femminile nell’editoria c’è, allora, e si somma a una situazione di per sé già grave: riguarda i lavori non pagati, lo sfruttamento (non importa se autoimposto, ciò che conta è il dato strutturale), la difficoltà di conciliazione tra vita e lavoro e tutta quella serie di problemi segnalati molto tempo fa dal femminismo materialista e ormai, direi, di dominio pubblico.
La dedica a Cecchettin elude tutte queste questioni, e sposta – ingenuamente? Chissà – la questione femminile da una serie di problemi interpretabili solo alla luce della questione di classe (e cioè politicizzabili in prospettiva intersezionale, secondo la prospettiva di Angela Davis) alla questione generica della violenza maschile sulle donne, che, se pure è un problema reale certo non rinviabile, ha il vantaggio comunicativo della semplicità e dell’immediatezza, pagato però sul piano politico della banalizzazione idealizzante e della spendibilità commerciale. Dal conflitto all’idea, dalla politica all’etica.
Assume così tutto un altro senso il luogo comune citato da Valerio. Ammesso e non concesso che una fiera dell’editoria serva ad avere più parole, non è affatto detto che queste contribuiscano alla riduzione della violenza. Dipende infatti da quali parole, e dipende anche da quale violenza, la quale può essere espressione di molte, differenti e variamente valutabili, forme di conflitto.