I l 14 ottobre del 2011 Abdulrahman Awlaki, 16 anni, sta cenando con la famiglia a Shebwah, in Yemen. Verrà colpito e ucciso, insieme ad altre otto persone, da un missile sparato da un drone americano poco dopo. Suo padre, Anwar al Awlaki, era un predicatore radicale vicino ad Al Qaeda a sua volta ucciso in Yemen due settimane prima del figlio. Entrambi erano cittadini americani e Abdulrahman era nato a Denver, in Colorado. Come riporta il Washington Post, gli ufficiali statunitensi hanno rifiutato di commentare l’uccisione del sedicenne Awlaki, ma hanno confermato che il reale obiettivo dell’attacco del 14 ottobre 2011 era Ibrahim al-Banna, un cittadino egiziano attivo nelle fila di Al Qaeda in Yemen.
Sempre secondo fonti anonime riportate dalla stampa nei giorni successivi all’attacco, Awlaki era stato dipinto come un ventenne vicino agli estremisti islamici: elementi che rendevano la sua uccisione giustificabile. O era un terrorista, oppure era lì per sbaglio. Abdulrahman Awlaki, scrive Jeremy Scahill su The Intercept, non era in contatto con il padre estremista da anni e viveva con i nonni a Sanaa. L’adolescente Awlaki, statunitense, è stato ucciso senza apparenti ragioni dalle forze armate del suo Paese in un territorio in cui nessuna guerra è formalmente dichiarata e senza alcun tipo di processo o di accountability. Lo scorso 5 gennaio, riporta sempre Scahill, il Dipartimento di Stato ha confermato che al-Banna, l’uomo che doveva essere eliminato al posto di Abdulrahman Awlaki, sarebbe ancora vivo.
La storia di Abdulrahman Awlaki è emblematica per spiegare il ruolo e l’utilizzo dei droni armati per operazioni militari: un mix letale di innovazione tecnologica, presunta precisione, errori fatali, trasparenza inesistente e superamento del concetto stesso di guerra e dei suoi limiti legali. Il drone che più di qualsiasi altro incorpora tutti questi elementi tecnici e simbolici è il Predator della General Atomics, un aereo senza pilota dall’apertura alare di circa 15 metri e circa una tonnellata di peso, operativo dal 1995. Dal 2001, scrive Adam Rothstein nel suo libro Drone, i Predator possono montare missili Hellfire, comandati, come il resto del drone, dalla distanza. “Ancora in servizio oggi, e raggiunto da molte altre configurazioni e modelli”, scrive Rothstein, “il naso a forma di bulbo del Predator è ancora la quintessenza del drone nell’immaginario del pubblico”.
Il drone militare in volo è una presenza silenziosa e fredda, capace di volare senza essere quasi percepito: pilotato dalla distanza, può sorvolare un obiettivo per ore da grandissime altezze, raccogliendo informazioni in forma di dati di varia natura e, se debitamente armato, colpire con un missile e sparire senza lasciare traccia né esporre a pericoli fisici alcun essere umano incaricato delle operazioni. Gli Stati Uniti sono certamente il Paese capofila nell’utilizzo dei droni per questo genere di operazioni, sia dove vi è in corso una guerra a tutti gli effetti, sia in scenari dove invece le attività si inseriscono nel contesto della lotta al terrorismo, come in Pakistan, Somalia o Yemen. Qui gli attacchi sono di fatto operazioni di targeted-killing condotte in modo extragiudiziale e, come nel caso di Awlaki, spesso hanno i contorni di pena di morte inflitta senza alcun processo. Difficile, comunque, giungere a stime complessive sulla frequenza e la portata di questi attacchi, specialmente per quanto riguarda le vittime.
Riguardo ai droni l’amministrazione Obama è stata particolarmente severa e impermeabile.
Solo questa estate, dopo anni di pressioni da parte della società civile, infatti, la Casa Bianca ha reso note alcune informazioni sulle proprie attività con i droni nei paesi non ufficialmente in guerra: secondo i dati ufficiali, la Cia e l’esercito Usa avrebbero condotto 473 attacchi tra il 2009 e il 2015, uccidendo 64 civili. I numeri ufficiali sono comunque fortemente in contrasto con quanto raccolto nel corso degli anni da altre organizzazioni di advocacy o giornalistiche. Il Bureau of Investigative Journalism di Londra, che da diverso tempo porta avanti un progetto sulle guerre segrete con i droni, stima ad esempio che le vittime civili sarebbero state almeno 325. Un dato, però, è certamente utile a comprendere quanto meno la magnitudine del fenomeno droni: l’escalation nel loro utilizzo. Sempre secondo i dati raccolti dal Bureau, negli anni di Obama gli attacchi sarebbero stati 563, contrariamente ai 57 documentati negli anni di Bush. Giovedì scorso, nei suoi ultimi giorni in carica, l’Amministrazione Obama ha rilasciato altri dati sugli attacchi, sostenendo di aver ucciso, nel corso degli ultimi otto anni, 117 civili.
Su un piano simbolico è come se la sostanziale invisibilità dei droni armati si fosse ripresentata anche attorno alle policy e ai dati che ne gestiscono e testimoniano l’esistenza. Una generale assenza di trasparenza ha infatti avvolto i droni militari negli ultimi otto anni e la verifica delle responsabilità per i pesantissimi costi umanitari. Proprio sui droni, così come sull’approccio ai whistleblower quali Edward Snowden e Chelsea Manning – la cui sentenza è stata commutata dopo quasi 7 anni di carcere – l’amministrazione Obama è stata particolarmente severa e impermeabile e i numeri rilasciati la scorsa estate sui droni, aggregati e poco chiari, fanno parte delle ragioni per le quali il lascito obamiano in fatto di trasparenza porti con sé più ombre che luci. Ma la trasparenza è solo una delle questioni più superficiali nell’economia degli attacchi drone. Un aspetto particolarmente preoccupante, nonché uno dei più inquietanti dal punto di vista etico, è lo schema organizzativo e tecnico di come gli attacchi vengono condotti.
Michael Haas è un ex membro senior dell’aviazione Usa che tra il 2005 e il 2011 ha lavorato nei programmi con i droni. Il suo luogo di lavoro era la base aerea di Creech, Nevada, a 45 minuti di auto da Las Vegas. Il suo lavoro era pilotare droni armati sopra i cieli dell’Afghanistan, a 12mila chilometri di distanza dalla sua postazione di lavoro. Haas è uno dei quattro ex militari che, a fine 2015, hanno raccontato al Guardian le loro esperienze di lavoro nei programmi militari con i droni. Haas lavorava come sensor operator e, come scrive il quotidiano di Londra, i suoi compiti includevano “controllare le videocamere, i laser e gli altri strumenti di raccolta di informazioni montati sui droni Predator e Reaper, oltre a essere responsabile della guida dei missili Hellfire verso i loro obiettivi una volta che il pilota seduto al suo fianco aveva premuto il grilletto”. Seduto in un altro continente, al sicuro rispetto a qualsiasi possibile risposta da parte dei suoi obiettivi, Haas poteva vedere sugli schermi davanti a lui lo svolgersi delle operazioni e osservare da remoto i risultati degli attacchi.
La sorveglianza digitale svolge un ruolo cruciale nell’individuazione, inseguimento e tracciamento delle vittime designate degli attacchi drone.
Brandon Bryant, 30 anni, ha lavorato nei medesimi programmi negli stessi anni a sua volta come sensor operator. Come Haas, ha abbandonato il suo lavoro nel 2011 per diventare un whistleblower. Contrariamente al suo collega, che ha preferito non saperlo, Bryant è consapevole di essere stato direttamente coinvolto nell’uccisione di 13 persone in cinque diversi attacchi, quattro dei quali in Afghanistan e uno in Iraq. In una lettera indirizzata a Obama, i quattro ex operatori hanno chiaramente parlato di depressione e sindrome da stress post-traumatico tra i loro commilitoni: anche uno studio voluto dal Dipartimento della difesa nel 2013 dimostrava come le decine di migliaia di chilometri che separano i piloti di droni dai loro obiettivi erano, in termini psicologici, azzerati. Il senso di uccidere, anche se mediato da uno schermo e da un joystick, è il medesimo e la sensazione di “sicurezza” non fa altro che accentuare la ricaduta umana.
Un altro whistleblower, questa volta rimasto anonimo, ha contribuito a raccontare dettagli su come sono organizzati e gestiti gli attacchi drone Usa. L’inchiesta, The Drone Papers, è stata pubblicata da The Intercept, la testata fondata da Glenn Greenwald sulla scia dello scandalo Snowden. La fonte, interna all’intelligence Usa, ha fornito ai giornalisti documenti riservati che, tra le altre cose, delineano uno scenario di de-umanizzazione della guerra ancora più estremo: la sorveglianza digitale svolge un ruolo cruciale nell’individuazione, inseguimento e tracciamento delle vittime designate degli attacchi drone. La “dittatura della distanza”, questa l’espressione usata nei documenti riservati, fa sì che gli obiettivi siano individuati con poca o insufficiente intelligence a disposizione. Specialmente nei territori dove non c’è una guerra dichiarata, gli attacchi sono quindi organizzati anche sulla base di telecomunicazioni intercettate, a volte acquisite da paesi terzi, e sui relativi metadati. Di fatto, i droni inseguono telefoni cellulari, tracciandone la localizzazioni, un elemento emerso già un anno prima dei Drone Papers. Nel 2014, il Generale Michael Hayden, parlando a una tavola rotonda alla John Hopkins University, disse, “uccidiamo le persone sulla base dei metadati”.
I droni militari stravolgono gli elementi costitutivi dei conflitti armati anche da un punto di vista terminologico e la definizione stessa di “vittima” è infatti poco chiara in questo contesto. I dati della Casa Bianca resi noti in estate, ad esempio, citano anche un numero oscillante tra i 2372 e i 2581 “combattenti” uccisi. Come è noto, però, la prassi implicherebbe che qualsiasi persona di sesso maschile in età adulta morta a causa degli attacchi sia considerata “nemico ucciso in azione”, a meno che non vi siano prove che le vittime non avessero un effettivo legame con Al Qaeda o gli altri gruppi terroristici contro cui gli attacchi sono rivolti. Donald Trump è Presidente dal 20 gennaio e non è ancora chiaro come il nuovo Commander-in-Chief affronterà la questione droni dato che i riferimenti al tema in campagna elettorale da parte di Trump sono stati molto generici, per quanto espliciti. Dall’insediamento del tycoon, le forze armate Usa hanno già condotto due attacchi con un drone in Yemen, nella provincia di Bayda. A riportarlo è Reuters, citando fonti che hanno chiesto di mantenere l’anonimato dato che i dettagli degli attacchi sono riservati. Stando a quanto raccolto dall’agenzia, le vittime presunte sarebbero tre militanti di Al Qaeda. Domenica 29 gennaio invece, un elicottero MV-22 Osprey americano è atterrato vicino a Bayda, Yemen. Si è trattata di un’operazione “boots on the ground”, approvata dall’Amministrazione Trump per colpire un campo di Al Qaeda e raccogliere materiali di intelligence. Il numero di vittime non è ancora chiarito, ma due di loro sono invece state identificate: il militare Usa del Joint Special Operations Command William “Ryan” Owens, coinvolto nell’operazione, e Nawar al-Awlaki, di 8 anni. Nawar era la sorella di Abdulrahman Awlaki e la figlia di Anwar al Awlaki. Droni Reaper armati e pilotati dalla distanza hanno fornito copertura alle operazioni.