È stata un’estate calda, quella del 2017, un po’ per tutti; e anche per il femminismo e i movimenti LGBTQIA, comunità che si intersecano e che a volte entrano in conflitto. Il casus belli: l’8 agosto sulla sua pagina Facebook, Arcilesbica Nazionale posta un articolo comparso nella community di Medium. Il testo si intitola: I’m a woman. You are a transwoman. And that distinction matters: io sono una donna, tu sei una donna trans e questa differenza conta. L’articolo, piuttosto lungo, è uno sfogo della sua autrice che si dichiara “arrabbiata” per l’impossibilità di esprimersi liberamente sulle differenze imprescindibili tra una donna cisgender, che identifica il suo genere sessuale con il sesso biologico di nascita, e una donna trans. PolelifeandPussy, nickname dell’utente di Medium, scrive, infatti, che permettersi una dichiarazione di questo tipo comporta inevitabilmente accuse di transfobia, nonché insulti e minacce molto pesanti a sfondo sessuale.
Quali sono, però, queste differenze che contano? In primo luogo, avere o no il pene. L’autrice racconta di essere stata vittima di stupro e non esita a esprimere fin dalle prime righe il fastidio insopportabile di trovarsi in spazi pubblici, come gli spogliatoi di una palestra, costretta a vedere dei membri maschili, anche se appartenenti a donne trans. PolelifeandPussy insiste, infatti, sulle differenze anatomiche: avere un utero e tutto ciò che compone, in linea di massima, un apparato riproduttivo femminile fin dalla nascita, con le relative conseguenze che spaziano dalla sindrome premestruale, alle angosce connesse alla forma o difformità della propria vagina, nonché la sofferenza di essere nate donne ed essere sterili. Inoltre, secondo PolelifeandPussy, nascere donna sarebbe un’esperienza di vita, ma anche di pericolo, che le donne MTF non potranno mai capire, o meglio: non possono “sentirlo”. Il post non nega le difficoltà delle esperienze trans e in più punti l’autrice ribadisce di avere condiviso la lotta per i loro diritti, però, proprio a partire da questa dichiarazione di alleanza, rivendica la necessità che esistano degli spazi riservati alle sole donne cisgender.
La pubblicazione del post ha inevitabilmente scatenato una bufera di commenti, che oscillano dall’apprezzamento per le posizioni di PolelifeandPussy a utenti Facebook che invece accusano Arcilesbica di transfobia. Il MIT, Movimento Italiano Transessuale, il giorno successivo alla pubblicazione del post chiede ad Arcilesbica di rendere esplicito il proprio posizionamento rispetto alla scelta di pubblicare un articolo che antepone motivi di scontro tra donne cis e donne trans, invece di scegliere un contributo che fosse rappresentativo di una comune lotta alla misoginia patriarcale.
Perché le istanze condivise per cui dovrebbero lottare movimenti accomunati dalla messa in discussione del regime dell’etero-normatività si stanno rivelando meno efficaci dei dissidi su singoli temi?
Certo, la gravità della situazione attuale – che poi è attuale da millenni – di violenza che ogni giorno viene perpetuata su donne cis e trans rende ancora più pressante la necessità di mettere da parte le ragioni di scontro, per trovare un terreno comune di lotta contro una società di stampo ancora profondamente patriarcale. Allora cosa succede all’interno dei femminismi etero come LGBTQI, e perché le istanze condivise per cui dovrebbero lottare uniti movimenti accomunati dalla messa in discussione del regime dell’etero-normatività si stanno rivelando meno efficaci dei dissidi su singoli temi?
Al di là della ormai riconosciuta capacità di Facebook di esacerbare le modalità di confronto e di scontro, le ragioni di questo conflitto sono profonde e complesse: da una parte il post di PolelifeandPussy, lungi dall’essere solo uno sfogo isolato, rinvia a questioni che da sempre interessano il femminismo: per esempio il separatismo, in primo luogo dagli uomini. Il movimento femminista cosiddetto della seconda ondata (la prima, è bene ricordare, fu quella che condusse le donne di tutto il mondo a ottenere il suffragio universale), nasce, come risaputo, negli anni ’70, quando molte donne scelsero di spostare il baricentro della loro rivoluzione rispetto a quello del Partito Comunista, che non riconosceva il loro contributo alla battaglia politica in corso. Proverbiale è l’immagine dei ciclostili a cui le donne erano spesso relegate nei collettivi studenteschi o dai compagni di partito, che invece si occupavano di decidere la linea politica. A questo proposito è particolarmente significativa la scena del film di Giuseppe Bertolucci, uscito nelle sale proprio nel 1977, Berlinguer ti voglio bene, quando, in una Casa del Popolo in Toscana, dopo la tombola, inizia il dibattito sulla questione femminile. La domanda a cui la platea è invitata a rispondere è: “pole la donna permettisi di pareggiarsi con l’omo?”. Il “moderatore”, interpretato da Sergio Forconi, risponde con un “no” perentorio, a cui fa da controcanto la voce di una delle due ragazze sul palco, che invece dice: “sì”. Seguono prese di parola da parte dei compagni presenti che rendono evidente l’impossibilità del dibattito per l’arretratezza delle loro posizioni, che vanno dalla dichiarazione di assoluta superiorità degli uomini a commenti sconci. Si tratta di una rappresentazione comica, è vero, ma molto significativa, e che ben rappresenta la ragione per cui molte donne considerarono il separatismo dagli uomini come presupposto necessario della pratica femminista. In passato questa scelta venne paragonata a quella compiuta dai collettivi afroamericani, che praticavano un separatismo inderogabile dai bianchi, storicamente i loro sfruttatori.
Dopo una prima fase esaltante di unità e identificazione, l’idea che le donne fossero tutte uguali cominciò a frantumarsi: emersero le differenze di classe e di razza, per esempio, riconosciute solo in seguito da quello che noi conosciamo come femminismo intersezionale. Si tratta di un’idea della troppo poco citata avvocata femminista afroamericana Kimberlé Crenshaw, che sancì la necessità di considerare ogni forma di oppressione, compreso il sessismo, alla luce di tutte le variabili sociali. Essere una donna nera invece che bianca, o povera invece che ricca, sono differenze che hanno un peso. La Donna, come blocco unico e principio ontologico monolitico, non esiste: questa consapevolezza rappresenta un punto di non ritorno per il proseguimento della storia del movimento femminista. La società patriarcale, invece, resta immutata e quindi l’istanza separatista. Il separatismo ha caratterizzato anche la relazione tra donne lesbiche ed eterosessuali, che si sono trovate, dopo un primo momento di identificazione come Donne, di fronte alle loro diversità. Come scrive Liana Borghi nel saggio Tramanti non per caso. Divergenze e affinità tra lesbo-queer e terzo femminismo (apparso nella raccolta Altri femminismi. Corpi. Culture. Lavoro, pubblicata da Altri Femminismi nel 2006): “La diffidenza verso gli uomini e il desiderio delle lesbiche allontana[va] le etero; il loro desiderio per i maschi e la diffidenza verso di noi ci teneva distanti.”
Dopo una prima fase esaltante di unità e identificazione, l’idea che le donne fossero tutte uguali cominciò a frantumarsi: emersero le differenze di classe e di razza, riconosciute solo in seguito nel femminismo intersezionale.
Il separatismo è un aspetto fondativo del femminismo, quindi, e lo dimostra il fatto che continua a essere al centro del dibattito. Le ragioni della posizione separatista sono particolarmente attuali in questo momento, quando la violenza sulle donne sta suscitando l’interesse dell’opinione pubblica e i femminismi continuano a manifestare per segnalare all’attenzione politica e mediatica che a dover essere messa in dubbio non è la possibilità di una donna di fare tardi, di bere troppo, di lasciare un uomo o di cercare un lavoro, ma i valori di una società in cui scelte di questo tipo espongono a rischiare la vita, a essere stuprate. Alcune femministe che scendono in strada per manifestare si domandano quanto sia utile che a prendere la parola, a volte a parlare più del dovuto, in una manifestazione contro la violenza sulle donne, siano gli uomini.
Anche il post su Medium si basa su una richiesta di separatismo: al cuore del testo di PolelifeandPussy c’è infatti il desiderio di non condividere tutti gli spazi associativi con le trans MTF, perché portatrici di pene. Il fallo, infatti, simbolo del potere patriarcale, in questa prospettiva è considerato come uno strumento di sottomissione e di stupro, simbolo supremo del maschile. Alla base, quindi, di questo desiderio separatista dell’autrice del post c’è, evidentemente, la concezione che le donne trans MTF non siano donne, almeno non a tutti gli effetti. Questa idea contraddice, però, un altro caposaldo del femminismo della seconda ondata, piuttosto rinomato per giunta per avere le sue origini in un aforisma conosciutissimo di Simone De Beauvoir: “donna non si nasce, si diventa”. Le parole dell’autrice del post su Medium, da parte di chi accusa Arcilesbica di aver condiviso un articolo transfobico, sono state lette come la negazione di questo assunto fondamentale, vera rivoluzione copernicana all’interno della storia del femminismo. Per questo, il post di PolelifeandPussy è stato accusato di determinismo biologico, ipotesi che fa derivare le connotazioni di genere da dati meramente anatomici e fisiologici. Considerare che l’essere donna non deriva automaticamente dal nascere tale, ma da un processo di consapevolezza e di assunzione della propria vera identità sessuale, significa guardare la realtà da un altro luogo, vedere un altro universo. Secondo questa concezione, le persone trans MTF, che sono maschi alla nascita, diventano donne seguendo il proprio desiderio e attraversando, per questo, un percorso di vita e di salute complessi e pericolosi.
Il conflitto tra Arcilesbica e il MIT è radicato in questioni da sempre al cuore del dibattito femminista: la richiesta di avere spazi separati da chiunque detenga il pene/fallo e la convinzione che chi ci nasce sarà sempre più donna di chi lo diventa. Si tratta evidentemente di un dissidio profondo, all’interno di un contesto politico già gravemente in conflitto rispetto alla questione della GPA (acronimo di Gestazione Per Altre). È questo il tema che per mesi ha imperversato nel dibattito pubblico, dove è arrivato con l’etichetta inadeguata di “utero in affitto”. Arcilesbica Nazionale ha espresso una posizione decisamente contraria all’ipotesi che la GPA diventi legale nel nostro paese. Immediatamente, questo schierarsi ha suscitato reazioni da parte di organizzazioni e gruppi LGBTQIA ed etero, che identificano nella GPA una possibile via di accesso all’esperienza della genitorialità. In realtà, vari gruppi locali della stessa associazione Arcilesbica hanno preso immediatamente le distanze, dichiarando invece la loro adesione alla battaglia civile perché il parlamento legiferi in materia di gestazione per altre.
Quella femminista è stata una rivoluzione a tutti gli effetti: anche per questo, i conflitti al suo interno sono inevitabili.
Il fatto è che anche in seno a ogni singolo gruppo di Arcilesbica, nelle differenti città, così come in molti altri collettivi o associazioni le posizioni delle persone coinvolte possono essere diverse, a volte opposte; e questa differenza di visione così capillare conduce a una vera e propria guerra civile all’interno del femminismo italiano di qualsiasi orientamento. Del resto, anche la cosiddetta maternità surrogata mette in campo questioni macroscopiche che da sempre sono al cuore della pratica e della filosofia femministe. Da una parte l’autodeterminazione, il diritto inalienabile per una donna di decidere come e quando utilizzare il proprio potere riproduttivo e con quale fine; dall’altra il neo-liberalismo, la cui pervasività è tale da avere invaso ormai da tempo la sfera della vita intima, perché nella questione della gestazione per altre possono entrare in gioco dinamiche di commercializzazione della gravidanza ed essere coinvolte delle donne in quanto soggetti sociali fragili dal punto di vista economico, esattamente come avviene nel mercato mondiale della cura.
Il fatto è che quella femminista è stata una rivoluzione a tutti gli effetti: anche per questo, i conflitti al suo interno sono inevitabili. Proprio per dare ragione di questa ambivalenza, nel 2015 la Società Italiana delle Letterate ha deciso di intitolare il convegno internazionale, in onore dei vent’anni dalla sua fondazione, Conflitti e Rivoluzioni. Questa scelta è stata dettata dalla consapevolezza che organizzare un incontro che fosse celebrativo e allo stesso tempo rappresentativo della realtà significava raccontare, certamente, delle rivoluzioni cruciali generate dal movimento delle donne. D’altra parte, un evento che rendesse conto di vent’anni di femminismo non poteva, volendo essere attinente alla realtà, eliminare la parola “conflitti”, rimuovere la complessità di una pratica politica che da sempre si caratterizza per le lotte acerrime e le scissioni tra i femminismi. La durezza e l’estendersi di scontri che si distinguono per la loro virulenza, la diffusione di una pratica che molto spesso sfocia negli insulti si sta profilando come un fenomeno che anche all’interno dei femminismi suscita preoccupazione, salta agli occhi. Rispetto a questa possibile deriva, è bene considerare almeno due diverse cause: la prima è che tutto il dibattito politico da tempo si caratterizza per una brutalità che non lascia spazio al confronto, ma mira alla calunnia dell’esponente di un’idea o di una fazione contrarie. La pratica politica femminista è stata contagiata dall’imbarbarimento del dibattito politico? O meglio, come sarebbe potuto essere il contrario?
La seconda considerazione è di carattere più generale. È inevitabile notare che anche in altri luoghi della politica si perdono di vista obiettivi comuni, si dimentica la necessità di porli al centro di una pratica che accentui la complessità del reale e la rispetti, perché spesso le cose difficili sono per natura vulnerabili. Vince, invece, la tendenza alla semplificazione brutale e prendono il sopravvento istanze identitarie, che caratterizzano e la fanno da padrone non solo nell’ambito del femminismo. Le questioni al centro del dibattito, invece che essere considerate a partire dalla loro rilevanza e poliedricità, hanno nomi e bandiere a loro difesa. Di conseguenza, spesso i confronti che trovano visibilità sono quelli che diventano un ring, per vincere e piacere alle varie tifoserie. Non è ovunque così, però: nascosti nelle pieghe delle realtà, quella dei luoghi e delle strade e non degli spazi virtuali, resistono spazi femministi di confronto, ascolto e di dibattito acceso, di desiderio indefesso di incontrarsi e imparare ancora qualcosa. Questo è sufficiente per continuare la rivoluzione? Forse no, ma serve a non fare solo la guerra.