I n Pornotopia, Beatriz (che poi diventerà Paul B.) Preciado racconta la parabola di Hugh Hefner, fondatore di “Playboy”. La rivista nasce negli anni Cinquanta, prima della diffusione della controcultura. E non vende solo erotismo soft, vende soprattutto un lifestyle: è una rivista di interni. Dispensa consigli per l’arredamento dell’ufficio moderno, con i servizi e le inserzioni pubblicitarie, ma soprattutto, con i suoi set fotografici, erotizza un mondo preciso: lega indissolubilmente nel nostro immaginario collettivo la sessualità a questo arredamento, al design, alla casa (di nuovo). Il primo modello di casa-impresa ci viene da lí, da un uomo che fonda un impero indossando costantemente la sua leggendaria vestaglia bordeaux. Pensate alla Playboy Mansion: “Volevo una casa da sogno”, dichiarò Hefner. Parole che fino ad allora ci saremmo immaginati in bocca a una casalinga più o meno isterica o disperata, sicuramente non a un uomo d’affari.
La Mansion è una “casa perfetta”, dunque, che però non è un microcosmo isolato, né alternativo. Non si vuole privare del mondo. È iperconnessa. Tutta trasparente, costantemente registrata da telecamere disposte ovunque, dotata di schermi, telefoni e interfoni, sempre aperta a chi vi si reca per concludere affari sul letto girevole di Hefner o per partecipare ai party con le conigliette. Il mondo viene portato dentro casa, come dicevamo rintracciando nei cinema e nei centri commerciali la preistoria della televisione. Una preistoria, come abbiamo visto, legata indissolubilmente al femminile. Ed è a partire da “Playboy” che possiamo dare finalmente un nome al processo di cui stiamo parlando: quello di una “femminilizzazione” del maschile.
La vediamo nel passaggio dal logo iniziale, un cervo, a quello del coniglietto. A indossare le orecchie e il codino a pon pon sono, ovviamente, le conigliette, non certo Hugh Hefner. Eppure il logo diventa questo coniglio in papillon. Da stag a bunny: dal maschio alpha che si batte con gli altri maschi per la conquista della femmina a un tenero animaletto che ha fama di copulare comodamente (e copiosamente) nella propria tana. Un logo playful che ha già in sé, prima dell’avvento di Internet, anche un altro aspetto fondamentale oltre alla domesticità nella ridefinizione del maschio contemporaneo: l’infantilizzazione, su cui si basa proprio il processo di gamification dell’esperienza di cui parliamo quando pensiamo alla rivoluzione digitale.
Chius* in casa
“Prima le donne e i bambini!” è un’invocazione che basta a riassumere l’associazione tra queste due figure che ha permeato la separazione borghese del lavoro nel capitalismo tradizionale. Una separazione che si basava sulla pretesa vulnerabilità di donne e minori, cui accennavo anche in relazione alle riforme per limitarne l’impiego in fabbrica in età vittoriana. Quando però emerge il consumismo di massa, e si comincia a parlare di forza consumo oltre che di forza lavoro, non sono solo le donne a diventare centrali nell’espansione del capitale, ma anche una nuova categoria di consumatori: è allora, come spiega bene Jon Savage ne L’invenzione dei giovani, che nascono i teen-agers. È questo l’altro soggetto che, insieme alle donne, imponendosi per necessità di mercato sulla sfera pubblica, va a influire sulla nostra immagine condivisa del maschile.
Volendo estremizzare la postura Uomo-Tastiera-Schermo di cui parla Baricco arriviamo agli hikikomori, gli adolescenti giapponesi che vivono in condizioni di isolamento estremo, chiusi nelle proprie camerette, a giocare ai videogame o a chattare sui forum. Sono giovani, sono maschi, e fanno “volontariamente ” quello che le donne sono state costrette a fare storicamente: stare chiusi in casa. Non lavorano (producono solo nella misura in cui tutti, utilizzando la tecnologia digitale, contribuiamo a produrre profitto che difficilmente ci viene redistribuito), consumano, e guardano il mondo attraverso uno schermo, come una casalinga guardava le soap rimpinzandosi di junk food mentre gli elettrodomestici la liberavano via via dalle incombenze domestiche.
Risentiti e fragili
Quello estremo degli hikikomori è un atteggiamento difensivo che si comprende se si guarda al tasso crescente di disoccupazione che dopo la crisi sta investendo l’Occidente, ma che soprattutto ci allontana molto dall’idea impavida e combattiva che tradizionalmente associamo alla mascolinità tossica.
Della mascolinità tossica sembra permanere oggi solo l’aggressività, soprattutto se prendiamo un’altra figura chiave dell’ambiente nerd: quella dell’“incel”, una figura che si è imposta nelle cronache nel 2014 con il massacro di Isla Vista a opera di Elliot Rodger, il ventiduenne che dopo aver lasciato un videomessaggio diventato subito virale su YouTube in cui se la prendeva con i presunti responsabili della sua verginità (donne e uomini attraenti) apriva il fuoco dalla sua auto nei pressi di un campus in California, uccidendo sei persone e ferendone quattordici, prima di suicidarsi. Con il termine “incel” (contrazione di involuntary celibate) si intende proprio il fenomeno di maschi risentiti che sfogano su Internet la propria frustrazione sessuale arrivando a picchi di misoginia inaudita.
Eppure anche questa misoginia è molto diversa da quella classica, che si basava sulla semplice constatazione della (pretesa) inferiorità delle donne: è una misoginia risentita, spaventata, una reazione al senso di competizione che la maschilità si trova ad affrontare oggi che il mondo del lavoro, la sfera pubblica, ha portato a considerare soggetto chi prima non lo era. Cosí, se andiamo a osservare gli incel piú da vicino ritroviamo i segni di una maschilità tradizionale in crisi, e anche qui tratti della sua progressiva femminilizzazione.
Eccoci arrivati nel cuore del Game: piú che un mondo libero in cui tutti trovano spazio, Angela Nagle in Contro la vostra realtà lo racconta una guerra, che si consuma tra Tumblr, roccaforte liberal e politically correct, e 4chan, piattaforma che ha dato i natali all’alt-right. Tumblr, su cui si possono condividere immagini e testi, è un social network a uso principalmente femminile, con al suo interno anche una grande comunità LGBTQI+ e un vasto discorso sulle sessualità alternative, mentre 4chan, chat volatile e anonima, è anche il luogo di nascita della community incel. Questo anonimato sembrerebbe garantire un maggiore distacco dalle pratiche di costruzione di una precisa identità virtuale, come invece accade sui social piú “individualisti” come Facebook, in cui chi li usa pratica una forma di costante curatela della propria immagine online.
Eppure la prima caratteristica che salta agli occhi in questa comunità è un’ossessione per il proprio aspetto fisico che non ha precedenti nella storia dell’eterosessualità maschile. Maschi, soprattutto giovani, che si domandano a vicenda di dare un punteggio alla propria mascella, preoccupati dalla circonferenza dei propri polsi, che si scambiano consigli sull’abbigliamento e sull’alimentazione come se consultassero una qualsiasi rivista femminile prima dell’esplosione della body positivity. E soprattutto che lo fanno senza alcun intento autocelebrativo, ma anzi decisamente autocommiseratorio, quasi che all’interno della comunità fosse piú importante confermare la propria condizione di insuccesso che superarla. È una garanzia di lealtà al gruppo, ma anche l’adozione di un disprezzo di sé e del proprio corpo che somiglia a quello che, per incrementare la vendita di prodotti di bellezza, diete, chirurgia plastica e altre soluzioni sempre a pagamento, era stato inculcato storicamente alle donne. A questo si aggiunge un’autonarrazione profondamente introspettiva, che porta a un’indagine inedita (e deleteria in molti casi) dei propri sentimenti e della propria vulnerabilità. Un processo che ci conduce lontani anni luce dall’idea del maschio tradizionale “che non deve chiedere mai”.
Cittadine modello
Quello che ci svelano gli incel, proprio come i social network personali, è la logica che sottende a tutta l’ultima fase del capitalismo: che tu stesso sei un prodotto, e che ti devi vendere su un mercato. Il tratto fondamentale del neoliberismo sta proprio nell’introiezione della self-entrepreneurship, il management di sé stessi. La mediazione è scomparsa al punto che non abbiamo piú neanche bisogno di un padrone a cui vendere la nostra forza lavoro, o di un capo che sorvegli la durata della nostra pausa sigaretta. Stiamo sempre lavorando. La nostra stessa esistenza è lavoro. È il trionfo dell’erosione della separazione tra vita e lavoro, con una novità. Il lavoro sessuale non implica una vendita del “proprio corpo”, ma quella di prestazioni sessuali, eppure quando pensiamo alla vendita di sé stessi, pensiamo inevitabilmente alla prostituzione. Il mestiere piú antico del mondo. Un mestiere eminentemente femminile.
Quello del sesso è stato un mercato in cui tradizionalmente erano gli uomini ad andare a fare shopping. Le conseguenze del ribaltamento di prospettiva, in cui tutti, indipendentemente dal loro genere, sono una merce, sono profonde. Proprio perché questa messa in vendita di sé e del proprio tempo non è piú relegata, per gli uomini, alle ore in cui si andava in fabbrica, ma avviene in un contesto in cui vita privata e lavoro coincidono. Un contesto in cui le donne sono piú adatte, proprio perché la Storia le ha sempre abituate a vendersi.
E non è un caso se nel terziario avanzato le facoltà piú valorizzate riguardano quello che l’operaismo chiamava “lavoro immateriale”: quelle soft skills che provengono da un’attitudine alla gestione del sé, della casa e delle relazioni. Pensiamo a Peggy Olson in Mad Men. Se Don Draper è il protagonista, la parabola ascendente a cui assistiamo è quella di Peggy, da segretaria impacciata a volitiva donna in carriera, con un fiuto e una creatività che non hanno nulla da invidiare a quelli di Don. Anzi, le sue prestazioni non sono mai compromesse dai suoi, pur presenti, turbamenti emotivi o personali. Peggy è determinata e obbediente, precisa e meticolosa. Virtú necessarie a tutta la storia della rivoluzione digitale, se si pensa che inizialmente il lavoro di programmazione era affidato soprattutto alle donne: era ripetitivo e richiedeva un’attenzione e una dedizione che si ritenevano doti prettamente femminili, come rivela Marie Hicks in Programmed Inequality, in cui dimostra che fu l’esclusione delle donne da quella professione a indebolire il primato che l’Inghilterra stava raggiungendo nell’informatica.
Sono solo due esempi che ci parlano di come capacità che tradizionalmente associamo al femminile siano diventate fondamentali nel mondo del lavoro. Pensate, oltre al già citato self-management, al networking, al multitasking, al marketing, alla cura del brand. Non è curioso che quasi tutti gli addetti agli uffici stampa in circolazione siano donne?
Estratto da THE GAME UNPLUGGED, AA. VV., a cura di Valentina Rivetti e Sebastiano Iannizzotto, © 2019 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino