L a disintegrazione controllata dell’economia mondiale è un obiettivo legittimo per gli anni Ottanta”, affermò Paul Volcker, presidente della FED. Ed è proprio sulla soglia degli anni Ottanta che si svolge Armageddon Time (James Gray, 2022). In uno dei momenti più intensi del film, il “buon” padre di famiglia Irving (Jeremy Strong) confessa al piccolo protagonista Paul (Banks Repeta) di non essere stato un genitore ideale, di odiare le ingiustizie e le diseguaglianze e, allo stesso tempo, di non sapere cosa fare per affrontarle. Il suo monologo continua sottolineando che la vita ha dato a Paul una seconda chance: ha scampato per un soffio il carcere minorile per l’ennesima “monellata” pre-adolescenziale compiuta con l’amico Johnny (Jaylin Webb), il quale, in quanto nero e povero non avrà scampo e si addosserà tutte le colpe del piccolo crimine (il furto di un computer della scuola privata di Paul), accettando un destino segnato da marginalità ed esclusione.
Paul deve, come un contemporaneo Pinocchio, fare tesoro di questa possibilità, smetterla con il sogno di diventare pittore e dedicarsi a studiare qualcosa di serio con la prospettiva di avere un futuro migliore di quello dei suoi; aspirare alla mobilità sociale, al non doversi inchinare di fronte a qualcuno per elemosinare le speranze di una vita “buona”, stabile e sicura (ciò che dovrebbe essere garantito per diritto). Questo monologo/dialogo fra padre e figlio potrebbe essere facilmente associato e comparato a tanti scambi presenti nella storia del cinema (e non solo) con a tema la perdita dell’innocenza, l’inizio dell’età adulta e l’entrata nel mondo reale (e delle responsabilità). Tanti, come già evidenziato, sono i richiami a i 400 Colpi di Truffaut (1959) e a un romantico desiderio di ribellione e fantasia da cui derivano anche gli ambiziosi sogni lucidi del protagonista, pronto a immaginarsi artista milionario esposto al Guggenheim. Ciò che rende questo momento (oltre al fatto di essere girato come una sorta di sequenza horror) e il film particolarmente interessante, tuttavia, è lo spazio temporale e politico in cui avviene.
Siamo nel Queens, New York, nel 1980, a ridosso della prima elezione di Reagan: l’inizio della nota “fine della storia”, in cui il neoliberismo è pronto a trionfare con la sua morale pervasiva fatta di neofamilismo, di miti di compimento, realizzazione, impegno, imprenditorialità, e merito individuali. Il duro lavoro è l’unica cosa che conta e che può permettere a una “ragazza” di diventare pubblico ministero, conferma Maryanne Trump, sorella maggiore dell’arcinoto Donald (interpretata in un efficacissimo cameo da Jessica Chastain), con parole non diverse da quelle di ogni tediosa empowered woman che affollano il cinema e la televisione contemporanee. Il suo aspro monologo è austero e brutale, richiama la ferrea disciplina della Thatcher (la sua fierezza come pratica figlia di droghiere) e, perché no, le pose da valchiria romanesca di Giorgia Meloni legandosi, contemporaneamente, al tono del film. Al posto di un ennesimo viaggio nostalgico nel passato recente, e nell’oggettistica pop dei primi anni ottanta, Armageddon Time ci presenta questo spazio temporale come pervaso da una grigia malinconia; i colori autunnali, evidenziati della bellissima fotografia di Darius Khondji, e le fioche luci artificiali della notte urbana dominano l’esperienza rinunciando così al gusto postmoderno e omaggiante di titoli come Stranger Things (Duffer Bros. 2016- in corso).
Nel fare della malinconia uno dei suoi appoggi emotivi, il film evidenzia qualcosa di particolarmente centrale per quanto riguarda la percezione del lungo arco politico neoliberale. Nell’immaginario collettivo (soprattutto europeo e statunitense), gli anni di Reagan corrispondono con il trionfo di Wall Street, con l’edonismo yuppie, con i consumi sfrenati e spensierati permessi da accessibili carte di credito, con mutui e case per tuttɜ (sappiamo com’è andata quella storia). Certo, c’era la Guerra Fredda e gli (ancora presentissimi) incubi atomici, ma, ad ogni modo, quello sarebbe stato il decennio della vittoria sul Socialismo Reale, sulla burocrazia centralizzata, sulla politica dei vecchi partiti di massa, sui sindacati e sul conflitto; gli anni dopo i quali l’aggettivo “collettivo” sembrerà stonare in ogni tribuna pubblica. Eppure, eccoli di fronte a noi nella loro tristezza e amarezza: gli anni Ottanta come anni austeri, duri, atutoritari. È anche vero che spesso si fa riferimento all’insediamento della crudele dittatura di Pinochet (1973), con il suo seguito di Chicago Boys, come al vero inizio della svolta neoliberale; tuttavia, raramente siamo portati a identificare questo cambiamento epocale come qualcosa da associare all’imposizione di una lunga tirannia.
Raramente le rappresentazioni mediatiche ci portano a identificare gli anni Ottanta come qualcosa da associare all’imposizione di una lunga tirannia.
Dopotutto, sappiamo che il neoliberismo, come macchina governamentale, è stato in grado di catturare pezzi di controcultura, di assorbire e rilanciare slogan su fantasia, creatività, emancipazione, e persino di “favorire”, in nome della celebrazione dell’individualità indiscussa, l’inclusione delle differenze. Da qui anche la ragione di alcuni atteggiamenti di sinistra scettici verso il ’68 (almeno verso la sua parte pop), verso il desiderio di una politica scardinata da forme organizzative del passato, dall’istituzionalizzazione schematica della vita collettiva (ovviamente questo punto meriterebbe una lunga riflessione a parte).
Così come le scelte estetiche di Armageddon Time ci permettono, invece, di esperire la svolta neoliberale in modo singolare dal punto di vista affettivo, un testo recente di Clara E. Mattei, Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo ci presenta la sfida di rivedere in toto la relazione fra pensiero liberale (politico ed economico) e autoritarismo. I cosiddetti dogmi dell’austerità finanziaria (il dover bilanciare i conti, controllare l’inflazione, gestire la comunità e lo Stato come una famiglia, con brave figure genitoriali in grado stringere la cinghia e di ispirare la prole al sacrificio e alla moderazione), sottolinea Mattei, non sono indicatori di follie ideologiche, ma vere strategie politiche. Ovviamente, l’autrice non è la prima a segnalare la natura squisitamente politica del neoliberismo (basti pensare al lavoro di Wendy Brown, Étienne Balibar, Quinn Slobodian, o al recente Dominio di Marco D’Eramo come grandi esempi in tal senso); ciò su cui pone l’attenzione Mattei, è sul ciclico ripetersi di determinate strategie discorsive e politiche in momenti di profonda trasformazione politica.
Troppo spesso, in una prospettiva critica, facciamo l’errore di attribuire a scelte come pareggio di bilancio, aumento del tasso di interesse (con conseguente deflazione monetaria), abbandono della scala mobile, così come a molte altre misure, cosiddette di austerity, connesse all’affidabilità finanziaria di una comunità politica, la categorie di assurde e irrazionali scelte economiche. Tante volte in discussioni e dibattiti sentiamo “smontare” (con fatti e logica oggi si direbbe) opinioni contrarie all’aumento del debito pubblico in favore di investimenti e salari con argomenti come: “diminuire la spesa in momento di crisi aumenterà strutturalmente il debito pubblico perché comprimerà i consumi e ridurrà domanda e offerta, lo Stato non è una famiglia!”.
Contemporaneamente, assistere a manifestazioni estreme di applicazioni di superate teorie (ad essere generosi) neoliberali, come la trickle down economy (basata sul principio di sgocciolo automatico di benessere dall’alto della società verso il basso) adoperata in modo “talebano” dal fantomatico governo Truss nel Regno Unito, ci lascia giustamente scioccatɜ. In queso caso, con il lancio di un’ormai rivista mini-manovra finanziaria, si è ricorsi all’aumento del debito con lo scopo esplicito di garantire un ulteriore taglio alle imposte sui redditi più alti e sui profitti delle corporation. Con questa misura non si è solo andati a toccare la componente fiscale dedicata al contributo per i ceti in più deboli, nel contesto di un’epocale crisi sociale legata alla pandemia e ai suoi effetti, ma si è persino ricorsi all’espansione della spesa pubblica allo scopo di porla in atto, venendo nei fatti meno ad ogni principio di austera responsabilità.
I cosiddetti dogmi dell’austerità finanziaria non sono indicatori di follie ideologiche, ma vere strategie politiche.
Ovviamente il caso Truss-Kwarteng a cui si faceva riferimento può sembrare semplicemente grottesco, figlio di una completa inettitudine politica che, del resto, si è risolta nella conclusione del mandato di governo più rapida della storia britannica. Eppure, anche gli esempi estremi e ridicoli tornano utili a continuare la nostra riflessione. Ricondurre le infinite ricette (una parola emblematica) economiche adoperate dall crisi del 2007/2008 ad oggi a “follia economica” impedisce di percepire il modo in cui esse si manifestino a lungo termine sul corpo sociale, quale ordine servano, che tipo di implicazioni possano avere sulle istituzioni e sul loro funzionamento. Secondo Mattei, guardando allo scenario politico all’indomani della Grande Guerra fra Italia (e alle sue tendenze esplicitamente dispotiche) e Regno Unito (presunto crogiolo della “vera” democrazia), si ha la sensazione che l’austerity abbia, in entrambi i casi, fatto da sedativo sociale attraverso una chiara verticalizzazione dei processi politici.
L’aumento inaspettato di flessibilità fiscale da parte delle istituzioni statali dovuta all’impegno bellico non fece altro che rivelare la natura politica di nozioni come debito, circolazione monetaria, spesa pubblica. Più che apparire come stelle fisse nell’oscuro ed esoterico cosmo dell’arte del governo, le tradizionali opinioni sulla responsabilità fiscale si rivelarono come precise scelte politiche segnate alla conservazione dello status quo, da cui un conseguente rischio di loro delegittimazione e messa in discussione. Infatti, intervenire con scelte strutturali a favore della quota salari, abbracciare un approccio dinamico e trasformativo rispetto alla natura stessa della moneta, sostenere e immaginare l’espansione continua di istituti di welfare significa, ci dimostra Mattei, rimuovere ogni pretesa aura di pura ragionevolezza e matematica autorità allɜ fautorɜ della responsabilità economica. In altre parole, immaginare una diversa economia (irresponsabile verrebbe da dire ironicamente) significa fare dell’arte del governo un fenomeno propriamente politico, conflittuale, aperto, in discussione, e, fondamentalmente irrisolto, dunque vivo.
La scelta di tagliare, di imporre regimi di austerità, d’altro canto, all’indomani della fine della Grande Guerra così come dell’inizio della nostra Grande Crisi, diventa l’occasione per rimuovere questa problematicità e dialogicità dal corpo sociale. Non è un caso che fra lɜ grandɜ sostenitorɜ dell’austerity troviamo personaggi che evitano ad ogni modo di caratterizzarsi come figure politiche. Tecnicɜ, economistɜ (figurano nomi come quelli di Luigi Einaudi nelle liste del nostro tormentato passato) sono coloro che costantemente vediamo intervenire, in diversi scenari storici, allo scopo di scongiurare ogni radicale transformazione in termini di scelte economiche e sociali. Tale strategia intrinseca alla gestione della crisi sembra porsi il chiaro scopo non solo di evitare il rischio dell’adempimento di radicali riforme o processi rivoluzionari, quanto anche quello di avviare una strutturale spoliticizzazione del corpo sociale.
Dopotutto, se le istituzioni non possono che essere gestite secondo determinati immutabili principi con limitato indice di variazione, allora che senso può mai avere l’occuparsi di politica, lo sforzo per dare forma all’organizzazione collettiva o per l’immaginazione di nuove istituzioni? Anzi, implicita alla politica austera del capital order (o l’ordine del capitale) vi è la convinzione che il modo più appropriato di essere cittadinɜ, nel senso politico del termine, corrisponda col compiere i propri doveri produttivi: abbracciare la competizione come elemento strutturale delle relazioni sociali, darsi da fare nelle cicliche fasi recessive e lasciarsi andare ad un po’ di “meritato” bengodi in momenti di vacche grasse.
Se le istituzioni non possono che essere gestite secondo principi immutabili, allora che senso può avere lo sforzo per dare forma all’organizzazione collettiva o per l’immaginazione di nuove istituzioni?
Adattare il proprio comportamento flessibilimente in virtù di contestuali dinamiche economiche e abbracciare l’individualismo imprenditoriale, dunque, significa anche dimostrare una forte presa di coscienza rispetto al ruolo morale e sociale che si svolge in un determinato contesto sociale. Allo Stato, o alla politica in senso lato, rimane l’unico vero compito di garantire che questo ordine capitale continui e persista, in nome di una sua presunta astoricità ed essenziale corrispondenza con la natura umana. In effetti, guardando non solo all’esempio di intellettuali neoliberali come Friedrich Hayek o Milton Friedman, ma anche indietro nel tempo fino a John Locke, possiamo notare come la presunta connessione fra funzioni economiche (produzione e proprietà) ed essenze naturali rimanga uno dei principali e condivisi punti di partenza del pensiero liberale nelle sue diverse declinazioni.
Perfino un Premio Nobel come Muhammad Yunus, acclamato spesso in ambienti progressisti (o presunti tali) per l’invenzione del microcredito, quando ha recentemente attaccato l’assistenzialismo implicito nel progetto di un reddito universale incondizionato (UBI) lo ha fatto in nome della difesa della naturale propensione umana all’imprenditorialità. Il reddito ci renderebbe cittadinɜ passivɜ mentre l’indebidamento, invece, diventa una risorsa per smuovere lo spirito, per incentivare all’azione e alla realizzazione individuale, concetti che, a quanto pare, non possono essere pensati al di fuori di prospettive strettamente legate alla produzione per il capitale.
Ed è su questi ultimi punti che vediamo le somiglianze fra tradizione liberale e autoritaria insinuarsi in maniera più evidente. Oltre a stabilire delle essenze che definiscono l’immutibilità politica del genere umano, tecnocrazia e quello che oggi viene definito populismo o neo-autoritarismo condividono una visione verticale della politica, in cui “il popolo” esiste come una massa astratta da guidare, priva di conformazioni di classe, conflitti, divisioni, e contraddizioni, la cui partecipazione si limita ad esternazioni plebiscitarie. Inoltre, storicamente, laddove l’idea di cittadinanza viene privata di ogni carica conflittuale e la politica rimane competenza di alte sfere che la vedono irregimentata in un ordine ben preciso di opzioni, figure autoritarie divengono necessarie, soprattutto in momenti di crisi sistemica, per la tenuta sociale.
L’esame storico presentata da Clara Mattei trova riscontri e paralleli in molte analisi, come i recenti Fascismo mainstream (Fandango, 2021) di Valerio Renzi e Il vento conservatore (Laterza, 2022) di Giorgia Serughetti. In questi testi vediamo sottolineare come, nelle sue espressioni recenti, il pensiero mainstream (neo)liberale faccia proprie non solo molte simpatie antidemocratiche, ma un vero e proprio odio dell’uguaglianza, e dell’idea di politica come espressione della capacità dellɜ cittadinɜ di ripensare l’esistenza collettiva. In questo strano abbraccio troviamo legarsi in modo nefasto un supporto radicale per l’individualismo competitivo e il revanscismo identitario di comunità chiuse, da proteggere e tutelare da nemici esterni.
Laddove l’idea di cittadinanza viene privata di ogni carica conflittuale e la politica rimane competenza di alte sfere, figure autoritarie divengono necessarie, soprattutto in momenti di crisi sistemica, per la tenuta sociale.
Guardando indietro, possiamo valutare con diversi occhi la stima e supporto di cui il Fascismo ha goduto proprio fra illustri figure tecniche ed espertɜ di finanza, non solo nel contesto italiano. Lo Stato e la politica vengono ridotti a espressioni familistiche e genitoriali, con la funzione (esattamente come in Armageddon Time) di elargire mance e premi a chi si rimbocca le maniche e punizioni per lɜ fannulloni che “danneggiando” sè stessɜ con un atteggiamento improduttivo compromettono il benessere della comunità. Mussolini stesso, Mattei riporta, menzionò l’austerità fiscale (contro ogni progetto di interferenza politica nel funzionamento del mercato) come un (perseguito) obiettivo fondamentale del proprio governo nel suo primo discorso in parlamento, ponendo il proprio regime come nume tutelare delle classi dirigenti e imprenditoriali.
Non ci si deve stupire, quindi, quando il governo Meloni, i cui esponenti sembrano continuamente rimarcare la propria connessione con il popolo (uno, corrispondente alla Nazione), esultano per la sostanziale abolizione del pur limitato reddito di cittadinanza sostenendo, invece, misure come la flat tax o nuovi condoni. Diventa così volontà del popolo-prole ed espressione di serietà politica darsi alla caccia al povero, un atteggiamento ed una prassi, purtroppo, che trovano ampio supporto (almeno nel contesto italiano) nell’arco parlamentare.
Le deviazioni dall’austerità attribuite al periodo Mussoliniano, come nel caso di Truss-Kwarteng (e altri recenti), infatti, non sono da valutare come radicali cambiamenti di prospettiva, ma rappresentano interventi diretti alla continuazione e alla garanzia dell’accumulazione privata verso l’alto, trasformando il profitto in pura rendita. In effetti, slogan popolari degli ormai passati 2010’: “hanno salvato le banche e il conto lo fanno pagare a noi” o “Socialismo per i ricchi e Capitalismo per i poveri” si legavano esattamente a questo, ovvero alla percezione di come determinati dogmi potessero essere eccezionalmente messi da parte laddove i fattori essenziali garantenti il profitto privato e la sua riproduzione rischiassero di venire a mancare.
Ovviamente, la discussione sull’autoritarismo liberale meriterebbe ulteriori sviluppi, magari sottolineando antiche intersezioni sulle linee della razza e del genere che possiamo notare all’interno di questo paradigma politico. Allo stesso tempo, definire le tendenze autoritarie che vediamo affermarsi nel governo di varie nazioni come “fascioliberismo” non dovrebbe portarci ad una semplificante cancellazione di differenze e variazioni; sarebbe ingiusto dimenticare come tanta tradizione liberale o liberal-progressista abbia svolto sicuramente una diversa funzione rispetto a quella qui indicata criticamente. L’oscura alleanza fra liberalismo tecnocratico e neofascismo sembra l’ennesima variazione di una storia tragica che si ripete sotto forma di farsa, eppure non bisogna mai sottovalutare le diversità e specificità di ogni ritorno dell’identico.
Diventa così volontà del popolo-prole ed espressione di serietà politica darsi alla caccia al povero.
Viene da pensare, piuttosto, tornando alla malinconia di Armageddon Time, che ciò a cui ci troviamo di fronte, quando vediamo imporsi figure come Bolsonaro, Trump, Meloni, Modi, Orbán, Erdoğan (ma anche alla persistenza dell’estremo “centro” incarnato in Italia da Calenda e Renzi e altro) è un profondo senso di impotenza politica. Pensiamo all’insulsa brutalità che queste figure rappresentano, guardando con amarezza ai futuri perduti nel passato e, come insegnava Mark Fisher, identifichiamo gli spettri di queste mancate liberazioni in una “fine della storia” che non finisce mai, che si protrae indefinitamente per decadenza. Siamo indottɜ ad accettare i consigli del padre e a prendere il mondo per quello che è, raccontandoci di essere diventatɜ adultɜ grazie ad una sana dose di realismo (capitalista).
Ma ripensare criticamente il passato, come si è qui tentato, non è un mero esercizio accademico. Significa, appunto, liberare gli spettri dei tempi andati dalla maledizione della loro incompiutezza senza auspicare nostalgicamente di tornare ad una presunta età dell’oro della lotta (alla crescita Keynesiana, ai mitici anni ‘60-’70, all’eroico esempio di Luxemburg e Lenin, ecc.) coscienti che non ci sono fini della storia che tengano. Seguendo l’esempio di Fisher, allora, possiamo farla finita con la malinconia e il lutto per la nostra impotenza, e darci irresponsabilmente all’immaginazione di un mondo nuovo. L’autore britannico chiamava questo processo “comunismo acido”: fare interagire la presa di coscienza transfemminista e il pensiero queer, l’ecologia politica, una nuova psichedelia e cibernetica, pratiche decoloniali e postcoloniali, attraversare le evoluzioni della tradizione marxista, sono solo alcuni modi per sentire come un mondo nuovo e una “vita buona” non rimangano sogni e utopie, ma vivano fra noi, pronti a svegliarsi.