Q uando la oramai ex guerrigliera olandese si presenta lo fa usando il suo vero nome, Tanja. Quello di battaglia, Alexandra, per il momento giace in disparte, assieme alla tuta mimetica e agli AK-47 incrociati sulla bandiera colombiana. Tanja Nijmeijer, classe 1978, ci accoglie nello Spazio Territoriale di Formazione e Reincorporazione (ETCR) “Carlos Patiño” di La Elvira, una delle 26 aree create per favorire il reintegro degli ex combattenti delle FARC. Raggiungere una qualsiasi di queste zone significa avventurarsi in lunghi viaggi in minibus fra i monti colombiani, prima di dover affittare una motocicletta – o un fuoristrada – e lanciarsi in tortuose strade sterrate fra paesaggi che tolgono il fiato e posti di blocco dell’esercito. Non di rado ci si trova ad attraversare appezzamenti verdissimi di una pianta autoctona che a questi climi cresce rigogliosa: la coca.
È soltanto mezzogiorno ma il pranzo è già stato servito. Gli orari sono ancora quelli della vita militare, sveglia alle quattro inclusa. Nell’area adibita a refettorio un televisore trasmette il secondo capitolo del Signore degli Anelli. Tanja lo riconosce e sorride. “Quello è Frodo, vero?”, chiede divertita. Si sbaglia, ma dopo dieci anni in clandestinità sulle montagne confondere Frodo con Sam, il compagno di avventure del protagonista, sembra un errore perdonabile. Era il 2002 quando il colossal di Peter Jackson usciva nei cinema di tutto il mondo, lo stesso anno in cui Tanja abbandonava definitivamente la sua vita europea per arruolarsi nella guerriglia colombiana. Da allora non ha fatto più ritorno a casa.
Negli anni Alexandra Nariño è diventata, suo malgrado, una delle guerrigliere più celebri e mediaticamente esposte delle FARC. Il suo essere europea, oltre che di bella presenza, ha attratto l’interesse dei media internazionali, con eccessi di invadenza al limite del gossip. “Tutta questa sovraesposizione mi ha dato molto fastidio”, si sfoga, “i giornali scrivono che sono il volto mediatico delle FARC, ma non è così”. Su di lei pende una richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti per il sequestro di tre soldati statunitensi impiegati all’interno del Plan Colombia.
Attualmente Tanjia è la responsabile della comunicazione dello Spazio Territoriale di La Elvira. Da quando si è recata in Colombia per la prima volta come insegnante di inglese sembra passato un secolo. “Mi sono arruolata per ragioni ideologiche, forse una delle poche persone ad averlo fatto per questo motivo. La maggior parte entra volontariamente ma senza coscienza. Quando arrivai in Colombia mi resi conto delle enormi disuguaglianze che ci sono in questo paese e ne rimasi profondamente colpita”.
Il primo contatto con la guerriglia lo ebbe attraverso una collega, insegnante di matematica. “Eravamo molto amiche. Quando scoprii che faceva parte delle FARC fu un vero shock. Ero arrabbiata perché pensavo ci dicessimo tutto”. Col tempo Tanja ha però compreso le ragioni politico-militari di quel segreto e ha consegnato anima e corpo all’organizzazione e alla causa rivoluzionaria. “Qui in Colombia diciamo che amico è il topo per il formaggio” taglia corto con un sorriso sarcastico. “Amico è una parola che semplicemente non usiamo. Gli amici durano quello che durano, i compagni di lotta sono per tutta la vita”.
Una pace in bilico
Era il 24 novembre 2016 quando a L’Avana, con la firma degli Accordi di Pace, il governo colombiano e l’organizzazione insurrezionale marxista-leninista mettevano la parola fine a un conflitto interno durato più di cinquant’anni. Le stime parlano di duecentomila vittime, per la stragrande maggioranza civili, e quasi cinque milioni di sfollati.
Soltanto due mesi prima della firma, l’intero processo di pace era stato messo a repentaglio da una votazione popolare inaspettata agli occhi dei media internazionali, paragonabile all’elezione di Donald Trump e alla Brexit. Con uno scarto di soli 63.000 voti i colombiani rifiutavano gli Accordi e rimandavano al mittente quattro anni di faticosi negoziati. La vittoria fu soprattutto dell’ex presidente Álvaro Uribe e dell’estrema destra colombiana, che riuscirono ad avvantaggiarsi della bassissima affluenza alle urne – ferma al 37,43% – e catalizzare il voto dei centri urbani storicamente meno colpiti dal conflitto.
Per Tanja, che aveva fatto parte della commissione FARC nei negoziati di L’Avana, fu un colpo molto duro. Quando le chiediamo come si spiega l’esito della votazione la sua risposta è sorprendente: “In molti votarono contro l’amnistia e l’incorporazione politica delle FARC, ma a decidere il voto fu l’approccio di genere. La destra avviò una massiccia campagna di disinformazione sostenendo che negli Accordi era contenuta una ‘ideologia gender’ che avrebbe messo a repentaglio la famiglia tradizionale. Così facendo riuscirono a mobilitare la parte più conservatrice della società colombiana. Ma erano tutte menzogne”.
La votazione affossò la candidatura, ventilata da più parti, a un doppio Nobel per la Pace a Santos e Timochenko, Presidente della Colombia e leader delle FARC, sul modello Mandela-De Klerk e Peres-Arafat. I negoziati di pace però non si arrestarono e a novembre si giunse alla loro approvazione definitiva a L’Avana, acclamata dalla comunità internazionale e accompagnata dal sorriso soddisfatto di Raúl Castro. Alla fine il Nobel se lo porterà a casa il solo Santos.
“Non avevo fiducia nella pace con lo Stato. L’esperienza qui in Colombia ci ha sempre dimostrato che il Governo non rispetta gli accordi con la guerriglia”, confessa Jhonier Montaños, ex guerrigliero e oggi presidente della Giunta Direttiva dello Spazio Territoriale “Antonio Nariño” di Icononzo, cinque ore a sud di Bogotà. Sono in molti a pensarla come lui negli Spazi Territoriali di La Elvira, Icononzo e Mesetas.
Il ricordo delle trattative passate fallite è ancora vivo nella memoria dei combattenti. Ad alimentare la sfiducia è soprattutto l’esperienza di fine anni Ottanta dell’Union Patriótica, quando il processo di pace intavolato col presidente Belisario Betancur convinse parte della guerriglia ad abbandonare le armi e partecipare al processo elettorale. Fu un massacro. Le forze paramilitari legate ad apparati statali ostili ai negoziati assassinarono, torturarono e fecero sparire almeno cinquemila militanti del neonato partito. Il timore è che questa situazione possa ripetersi.
“Da quando sono stati firmati gli Accordi, quindici compagni e trentatré famigliari sono stati assassinati. L’ultimo proprio ieri, nel Putumayo” [Intervista rilasciata nel novembre 2017, nda]. A parlare è José Manuel Serra, più conosciuto come “El Zarco Aldinever”, che non esclude un ritorno alle armi. “Se le violenze contro di noi non cesseranno la guerra continuerà. Se il governo crede che solo perché le FARC hanno consegnato le armi il problema sia risolto si sbaglia di grosso. Le armi al mondo sono l’unica cosa che non manca”.
Aldinever è un membro dell’ex Stato Maggiore delle FARC, oggi Direzione Nazionale del Partito, e responsabile dello Spazio Territoriale di Mesetas nel dipartimento del Meta. Quando lo incontriamo indossa un cappellino con la scritta New York e un improbabile foulard multicolore. Non esattamente l’immagine che ti aspetteresti dall’ex comandante del Fronte 53, erede del famigerato Mono Jojoy. Una scorta di dieci uomini, gli unici a cui è consentito portare armi, lo accompagna in ogni suo spostamento al di fuori della zona. “Questa settimana tre persone sono state uccise all’interno dello Spazio Territoriale, tra cui il famigliare di un componente della Giunta. A me sono arrivate numerose minacce di morte. Quando le FARC avevano il controllo, queste cose non succedevano”.
Il problema di garantire la sicurezza agli ex-combattenti e alle loro famiglie esplode ad aprile quando nel municipio di Tumaco viene assassinato Luis Alberto Ortiz. Aveva da poco ricevuto l’amnistia per il reato di ribellione. Le cause dell’omicidio non sono note, ma da più parti si accusano i paracas, come vengono chiamati quei gruppi armati irregolari che a seconda del contesto sono al soldo di narcotrafficanti, grandi proprietari terrieri o settori dell’estrema destra – anche istituzionale. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite l’80% delle vittime civili del conflitto armato interno sarebbero riconducibili alle attività dei paramilitari, il 12% alle FARC e all’Eln e l’8% alle forze governative.
Le “riserve” della FARC
Dopo aver attraversato estese praterie disseminate di zebù raggiungiamo finalmente lo Spazio Territoriale “Mariana Páez” di Mesetas, una delle più grandi zone di concentrazione degli ex guerriglieri. Oltre all’accampamento principale è previsto uno spazio speciale dedicato agli ex detenuti e alle ex detenute FARC che hanno goduto dell’amnistia prevista dagli Accordi.
La prima persona che incontriamo è una ex guerrigliera dal sorriso facile e la parlata sicura, si chiama Jhesenia, ha quarant’anni e gli ultimi quattordici li ha trascorsi in carcere. In dicembre ha goduto dell’amnistia accordata dal governo, ma a causa di una sentenza per omicidio è arrivata a Mesetas solo in agosto. “Omicidio è se uccidi una persona disarmata. Ma se l’esercito ti attacca e tu hai in mano un’arma cosa dovresti fare?”. Dalle sue parole, insieme alla rabbia per gli anni persi, traspare l’entusiasmo per una nuova vita.
Gli anni di prigione, scontati senza dare informazioni che avrebbero potuto tradire la fiducia dei suoi compagni, le hanno garantito il rispetto del comandante Aldinever e una posizione di rilievo all’interno dello Spazio Territoriale. Oggi ha due figli di 12 e 16 anni. “Non sono mai stata una madre, non so come si fa, lo sto imparando giorno dopo giorno ma è difficile”. Nessuno dei due figli sta andando a scuola. “Ho paura a farli uscire, da queste parti è pieno di paramilitari”.
Passeggiando per l’accampamento Jhesenia ci mostra le abitazioni di lamiera e Superboard – un materiale simile al cartongesso – dove vivono gli ex guerriglieri. Ci racconta dei ritardi del governo nella costruzione delle abitazioni e ci indica le case improvvisate con teloni neri che per mesi hanno supplito agli inadempimenti dello Stato. Gli Accordi di Pace hanno infatti previsto la creazione di ventisei Zone di Transizione e Normalizzazione (ZVTN) col proposito di favorire l’uscita dalla clandestinità dei guerriglieri e delle guerrigliere FARC, garantire la loro incolumità e assicurare la consegna alle autorità internazionali della totalità degli armamenti dell’organizzazione guerrigliera. Il controllo delle zone è stato suddiviso fra FARC, governo colombiano e missione delle Nazioni Unite.
Il comandante Aldinever ci conferma i ritardi e le inadempienze del governo e sottolinea come non siano ancora stati avviati i progetti produttivi previsti dagli Accordi: “Qui abbiamo fatto tutto noi”. Il giorno prima Mauricio Solano, responsabile per la Presidenza della Repubblica degli Spazi Territoriali della regione del Meta, ci aveva accolto nel suo ufficio di Bogotà e raccontato una storia un po’ diversa.
“Il governo colombiano ha costruito le case. Alcune non sono ancora terminate ma non le hanno finite di costruire loro, le FARC. Perché voi lo sappiate, quelle nostre sono già pronte. Se vedete una struttura incompleta è perché è mancato il tema dell’autocostruzione, ok?”. Solano aggiunge poi alcune informazioni fondamentali, rivelatrici delle contraddizioni e delle incomprensioni presenti in ognuno dei tre Spazi Territoriali che abbiamo visitato. Le condizioni in cui avrebbero dovuto sorgere gli accampamenti sono state delineate durante la decima Conferenza delle FARC, l’ultima in qualità di gruppo armato. Le interpretazioni date dalle parti, però, divergevano.
“Per noi gli accampamenti dovevano essere qualcosa di transitorio. Se vi chiedessi di descrivermi qualcosa di transitorio voi mi direste dei container, delle tende, qualcosa che si può smontare in dieci minuti. Le FARC invece pensavano agli accampamenti come agglomerati di case. Ci siamo quindi accordati e siamo arrivati a un compromesso: non sarebbero state case, ma neppure tende. Queste sono le costruzioni che vedrete a Mesetas, costruzioni che per noi sono comunque transitorie, pensate per durare due anni. La disputa che abbiamo avuto con le FARC è che loro fin dal principio hanno voluto qualcosa di più robusto e di più permanente”. I progetti produttivi che avrebbero dovuto favorire il rientro in società degli ex combattenti, previsti per agosto, non sono però ancora partiti. Solano ci assicura che è solo questione di tempo e che per la seconda metà di novembre saranno attivi.
Il passaggio da Zone di Transizione e Normalizzazione (ZVTN) a Spazi Territoriali (ETCR), avvenuto il 15 agosto 2017, avrebbe dovuto mettere al centro dell’agenda il complicato processo di reincorporazione in società degli ex combattenti, garantendo l’avvio di progetti produttivi volti a creare reddito, autosussistenza e autonomia. Fino a oggi la trasformazione è stata solo nominale e il governo sembra essersi limitato a disarmare e concentrare, prima di disperdere, gli ex guerriglieri e le ex guerrigliere. A questo proposito abbiamo chiesto ad Aldinever se crede si tratti di mera inefficienza oppure di una strategia del governo, e se la concentrazione delle FARC in questi spazi non abbia contribuito a indebolire il movimento. “È facile pensare che si tratti di una politica del governo per stancarci moralmente e per far sì che la gente se ne vada. E la gente se n’è già andata. Qui eravamo 570, ora siamo 250”.
Sono molti gli ex guerriglieri che hanno già abbandonato gli Spazi Territoriali. Alcuni hanno raggiunto le proprie famiglie dopo anni di clandestinità, altri hanno lasciato queste zone per necessità, per trovare lavoro e per iniziare a immaginarsi un futuro diverso da quello delle montagne. Il mancato avvio dei progetti produttivi ha sicuramente accentuato la diaspora dei militanti FARC e contribuito a indebolire il movimento politico.
In perenne disaccordo con Mauricio Solano, Aldinever immagina il futuro delle zone come cellule sul territorio del neonato partito, roccaforti FARC in grado di rafforzare i legami con le comunità locali. “L’obiettivo del governo colombiano è quello di dividerci. La gente se n’è andata, si è divisa. Ma la dirigenza delle FARC no, siamo tutti qua. Nella lotta, tanto politica quanto militare, i quadri sono la componente strategica più importante”.
Johnier Montaños, presidente della Giunta Direttiva dello Spazio Territoriale di Icononzo, sotto una pioggia tagliente, rafforza l’idea di Aldinever, dando forma e azione alle parole. “È necessario agevolare l’acquisto dei terreni da parte dello Stato. Qui c’è la volontà di creare una comunità, di andare avanti. Abbiamo già in mente di smontare tutto quello che è Superboard e costruire case vere”.
La sua organizzazione sta attraversando un momento complicato e Jhonier ne è consapevole. A differenza di altri suoi compagni però rifugge ogni vittimismo e si assume la responsabilità di dare risposte ai militanti per non perderne il sostegno. “È anche compito nostro, in quanto direzione, riuscire a tenere la gente negli Spazi Territoriali, offrire opportunità di lavoro e alternative di sopravvivenza. Sono strumenti che dobbiamo e possiamo dare alle nostre comunità, se non conserviamo questo principio il governo riuscirà a dividerci”.
La guerra per la coca continua
Incontriamo Uldarico in un caffè di Bogotà a pochi passi dal suo studio. “Qui il caffè è eccellente, ma le empanadas ancora di più”, ci spiega entusiasta mentre attira l’attenzione della cameriera con gesti della mano. Uomo dall’aspetto eccentrico e dallo sguardo gentile, Uldarico Flórez Peña, è avvocato e presidente della Brigada Juridica “Eduardo Umaña Mendoza”, in prima fila nella difesa dei diritti dei detenuti FARC.
La battaglia più importante della Brigada è quella per il rientro in Colombia di Simón Trinidad, guerrigliero catturato nel 2004 ed estradato negli Stati Uniti dove pende su di lui una condanna per narcotraffico. Gli avvocati d’ufficio dimostrarono la sua innocenza, ma non bastò a evitargli una sentenza a sessant’anni di carcere di massima sicurezza per il sequestro di tre soldati statunitensi. Gli stessi per cui Washington tutt’oggi chiede l’estradizione di Alexandra Nariño, la Tanja che ci ha accolto a La Elvira.
Simón oggi ha 64 anni e sconta la sua pena nel carcere ADX Florence in Colorado. Le sue condizioni, tanto fisiche quanto psicologiche, sono precarie. “Si tratta di una battaglia che stiamo portando avanti su scala internazionale e che è rappresentativa di tutti i casi di prigionieri politici detenuti ingiustamente negli Stati Uniti” precisa Uldarico.
Proprio il ruolo degli Stati Uniti rispetto alla pace in Colombia continua a essere sotto diversi punti di vista ambiguo. Ufficialmente il governo statunitense si è schierato a favore del processo di pace, ma il diniego a rimuovere le richieste di estradizione verso gli ex guerriglieri e il sostegno – tanto politico, quanto economico – allo sradicamento indiscriminato delle coltivazioni di coca minano alle basi alcuni punti cardine degli Accordi.
La coltivazione di coca e l’elaborazione della pasta base continuano a rappresentare una delle cause principali della violenza in Colombia. Nel luglio 2017 un rapporto delle Nazioni Unite denunciava un aumento del 56% nella produzione di coca nel solo anno solare 2016.
Con 146.000 ettari di campi dedicati alla coltivazione si è quasi arrivati ai livelli di produzione del 2001, anno in cui il governo conservatore di Andrés Pastrana introdusse l’uso indiscriminato di erbicidi come misura per contrastare le sostanze illecite.
Misure, queste, promosse dal Plan Colombia: un programma congiunto Stati Uniti-Colombia che, oltre a finanziare la guerra senza quartiere ai gruppi armati della sinistra radicale, promuoveva la distruzione delle piantagioni di coca mediante l’uso indiscriminato di glifosato, uno dei prodotti di punta della multinazionale di biotecnologie agrarie Monsanto. Questa pratica controversa, per i danni causati all’ambiente e alle altre coltivazioni, è stata interrotta ufficialmente nel 2015. Al suo posto il governo Santos ha annunciato un programma di sostituzione di coltivazioni illecite che tramite sovvenzioni monetarie e in natura – sotto forma di sementi e mezzi di produzione agricola – avrebbe dovuto favorire la transizione da parte dei coltivatori di coca verso altri tipi di produzione. Al momento, questa strategia non sembra aver dato grandi risultati.
“Una borsa di quaranta libbre di banane [circa 18 chili, ndr] viene venduta a 5.000 pesos. Per poterci guadagnare un contadino ne deve vendere almeno una decina, con conseguenti alti costi di trasporto. Con appena un chilo di foglie di coca può farci due milioni”. Aldinever è scettico riguardo al successo delle politiche del governo. “Le FARC chiedevano una tassa ai produttori di coca, ma non sono mai state narcotrafficanti. Prova ne è che ora che abbiamo abbandonato quei territori la produzione di coca non solo continua, ma è aumentata”.
Nella sua ultima relazione la Fondazione Pace e Riconciliazione denuncia che le aree abbandonate dalla guerriglia sarebbero al centro di una sostanziale anarchia criminale in cui narcotrafficanti, paramilitari e gruppi dissidenti della guerriglia si spartiscono aree d’influenza e coltivazioni. L’aumento della produzione ha coinvolto in particolar modo la regione del Nariño, al confine con l’Ecuador e con il secondo porto più importante del paese. Assieme alla coca è cresciuta di pari passo anche la violenza che è culminata in ottobre con l’assassinio di sette cocaleros e del leader comunitario José Jair Cortés. Sarebbero almeno undici i gruppi armati a contendersi quest’area privilegiata per l’abbondanza di coltivazioni, laboratori di produzione e accesso a vie di distribuzione. In prima fila ci sarebbero i messicani del Cartello di Sinaloa.
Da Forze Armate a Forza Alternativa
Le FARC nell’agosto del 2017 hanno sancito il passaggio da organizzazione guerrigliera a partito politico. Riunitosi a Bogotà, il Congresso dell’ormai ex gruppo combattente più longevo dell’America Latina ha ufficializzato che avrebbe corso per le elezioni politiche mantenendo lo stesso acronimo, seppur modificando il suo significato. “Da Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia” si è infatti passati a “Forza Alternativa Rivoluzionaria del Comune”, scalzando l’opzione “Nueva Colombia”. La dicitura Esercito del Popolo, introdotta a inizio anni Ottanta, invece è stata definitivamente abbandonata.
Questa scelta ha lasciato perplessi i molti che, come Lucas Carvajal, auspicavano un rinnovamento e l’apertura a nuovi settori della società. “Personalmente ero dell’idea che cambiare il nome avrebbe favorito una visione politicamente più ampia, più inclusiva. Ma è stata una decisione presa democraticamente e FARC è un nome che significa molto per la nostra gente”. Lucas è uno dei “volti nuovi” delle FARC. Ragazzone appassionato di metal ma dallo sguardo bonario, sembra più a suo agio con i libri che con i fucili. Poco dopo la laurea in storia all’Università del Valle di Cali è stato tra i più giovani componenti della commissione che ha partecipato ai negoziati di L’Avana.
Quando lo incontriamo in un bar di Cali indossa una maglietta dei Bukaneros, la tifoseria del Rayo Vallecano. “Durante una partita fra ex combattenti ed ex calciatori organizzata nel nostro Spazio Territoriale è venuto un giornalista di Marca, il quotidiano sportivo spagnolo. Quando ha scoperto che mi piaceva il Rayo lo ha inserito nel suo articolo e i tifosi mi hanno spedito questa maglietta”, ci spiega divertito.
Quando però il discorso vira sulla politica Lucas si fa serio: “L’unione delle sinistre colombiane e dei movimenti sociali è la sfida più grande che abbiamo davanti. C’è un gran movimento di giovani non politicizzati che negli ultimi anni si sono mobilitati in favore della pace, e credo che da queste convergenze possa sorgere una nuova alleanza”. Gli chiediamo se nel suo futuro si vede come possibile candidato al Congresso. “Per carità, no” taglia corto prima di prendere un sorso di spremuta di lulo, un frutto tropicale aspro quanto dissetante.
Con cinque seggi del parlamento già assicurati durante le prossime due legislature, l’obiettivo delle elezioni presidenziali di maggio 2018 per le FARC era duplice: confermare di avere dalla propria parte il supporto di una fetta rilevante di popolazione colombiana ed evitare l’ascesa al potere dell’estrema destra. Questa destra ha un nome e un cognome: Germán Vargas Llera.
“L’elezione di Vargas Llera alla Presidenza della Colombia potrebbe far precipitare la situazione”. Il timore di Lucas, condiviso da molti ex combattenti, è che una vittoria dell’estrema destra, vicina a gruppi paramilitari ostili ai movimenti sociali, possa far sprofondare la Colombia in scenari ancor più aspri di violenza e conflitto. Per evitare che questo accada il neonato partito FARC dovrà trovare punti di convergenza con settori della sinistra più o meno radicale, in cui potrebbero confluire anche le istanze dell’altro principale gruppo rivoluzionario colombiano, l’Esercito di Liberazione Nazionale. Ma le enormi divisioni interne alla sinistra colombiana e le complicate trattative di pace fra governo ed Eln hanno allontanato questo scenario.
Durante il nostro viaggio in Colombia è stata resa pubblica la candidatura alla Presidenza di Timochenko, mentre già da qualche mese erano noti i nomi dei rappresentanti a livello locale. Tra questi c’è Omar de Jesus Restrepo, alias Olmedo Ruiz, ex comandante del Fronte 57, oggi tra i cinque deputati che rappresentano alla Camera la Forza Alternativa Rivoluzionaria del Comune.
È il 1981 quando in Colombia nasce il MAS, il gruppo paramilitare del cartello di Medellin. A quell’epoca Omar è un ragazzo che si dedica alle vendita ambulante sui treni, ma quando il MAS minaccia due zii, Omar decide di arruolarsi nelle FARC. Quando impugna per la prima volta un fucile ha solo 16 anni. “All’inizio ero spaventato. Passare dalla vita civile a quella militare, in cui devi chiedere permesso per qualsiasi cosa e non sei più padrone del tuo tempo, è un cambiamento molto brusco” ci racconta nella sua sede di partito, a Medellín.
Col tempo il giovane Omar scala i ranghi, guadagnandosi la fiducia dei suoi superiori e arrivando a guidare un fronte di combattimento. Tra i suoi rimpianti principali c’è la morte di due ragazzi. “Li ho mandati ad assaltare una cabecera municipal, ma la squadra che avevo formato era mal assortita. Sono morti come risultato di una mia decisione errata ed è qualcosa con cui, in guerra, bisogna fare i conti”. Oggi Olmedo non deve più prendere decisioni che comportano la vita o la morte dei suoi sottoposti. Il suo nuovo compito è dialogare con settori della società per stringere nuove alleanze: “Trovare una convergenza che garantisca il rispetto degli Accordi, questa è la nostra prima battaglia”.
Alle sue spalle, in bella mostra nella libreria, campeggia il logo della Forza Alternativa Rivoluzionaria del Comune. Una rosa rossa con al centro una piccola stella a cinque punte. Guardandolo è impossibile non pensare con una certa ironia ai simboli delle forze socialdemocratiche europee e alle parole pronunciate da Alexandra Nariño soltanto qualche giorno prima. “Ora si tratta di creare una grande convergenza attorno alla pace. Qui nella zona abbiamo incontrato imprenditori molto ricchi, che però vogliono la pace. La pace è l’obiettivo, così come gli investimenti nel sociale. Con una estrema destra così forte in Colombia non possiamo certo venire a pretendere la collettivizzazione delle terre. Non è questo il momento di essere super-radicali”.
Alle elezioni del maggio 2018 il neonato partito delle FARC, isolato dagli altri gruppi politici e incapace di stringere alleanze con i movimenti sociali di sinistra, non ha tenuto fede alle proprie aspettative. Con soltanto 85.000 voti suddivisi fra le due camere non è infatti riuscito a legittimare alle urne i dieci rappresentanti garantiti in Parlamento dagli Accordi di Pace. L’unica opposizione elettorale ai partiti conservatori e reazionari è stata rappresentata da Colombia Humana, la coalizione guidata dall’ex sindaco di Bogotà ed ex militante dell’M-19 Gustavo Petro. Pur essendo riusciti a scongiurare l’elezione di Germán Vargas Llera, a uscire vincitore dal ballottaggio è stato però il Centro Democratico, forza politica dell’ex presidente Álvaro Uribe che – a dispetto del nome – si colloca su posizioni di estrema destra e si dichiara apertamente ostile agli Accordi di Pace.
Una nuova vita
Manuel è seduto sotto il tendone principale dell’accampamento di Mesetas. Le sue dita si muovono veloci sullo schermo del cellulare, scrive su WhatsApp alla sua compagna e ascolta a tutto volume Thriller di Michael Jackson. Le creature della notte chiamano. E i morti iniziano a camminare nelle loro maschere. Ha trentatré anni e ventuno li ha passati nelle montagne con le FARC. Ci racconta che è dura convivere con il ricordo dei propri morti, quei “compagni e fratelli di lotta che ti stavano accanto e ora chissà dove sono andati”. Sull’avambraccio ha tatuato il nome tremolante di una ragazza, una guerrigliera caduta in battaglia.
Quando gli domandiamo che piani ha per il futuro risponde di volersi integrare ai progetti del nuovo Partito delle FARC e continuare nella lotta politica. Immagina che fra qualche mese vivrà altrove, ma per il momento si sente più sicuro nello Spazio Territoriale. Teme le rappresaglie dei paramilitari. Dopo ventuno anni di clandestinità pensare un futuro diverso da quello della guerriglia è difficile, ricostruirsi una rete di contatti e solidarietà al di fuori dell’organizzazione un percorso decisamente complicato. Per questa ragione, oltre che per motivi ideologici, sono molti gli ex guerriglieri che decidono di rimanere negli Spazi Territoriali con l’idea di costituire vere e proprie comunità e basi di appoggio politico al nuovo Partito.
Nello Spazio Territoriale di Icononzo questa prospettiva è promossa con entusiasmo dal presidente della Giunta Direttiva. Jhonier Montaños guarda al futuro con gli occhi di chi sta approdando a un nuovo mondo. Un mondo in cui la tecnologia entra con forza nella quotidianità degli ex combattenti, perennemente impegnati a registrare messaggi vocali su WhatsApp o a scorrere la bacheca del loro profilo Facebook appena creato. “Ne eravamo completamente fuori. In guerra non hai niente, non ci sono le condizioni per permettersi questi privilegi. La tecnologia e la società ti offrono tantissime opportunità”. Riconosce che il cambiamento all’inizio non è stato facile, che la quotidianità si è trasformata, ma che poi la voglia di scoprire le possibilità che offre una vita al di fuori della clandestinità ha prevalso. “Inizi a vedere una comunità, a entrare in contatto con la popolazione, a conoscere altre realtà. È un’esperienza molto bella – la scoperta di moltissime cose”.
La sfida delle FARC e del neonato partito politico oggi è proprio questa, riuscire a creare gli spazi per immaginare un futuro diverso in una società che, in quanto a disuguaglianza e ingiustizia sociale, non è cambiata molto rispetto a 53 anni fa. Jhonier alza una mano e scompare dietro alle case di quella che per lui è già la sua comunità. Come Tanja, Jhesenia, Aldinever e Olmedo si è tuffato dentro l’ennesima contraddizione della sua vita. Senza armi, ma col sorriso di chi, comunque vada, sa che se la caverà.
Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul blog lamericalatina.