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a scorsa domenica, 26 maggio, hanno avuto luogo le elezioni europee. In Italia il primo partito è la Lega (34,33%), seguono il Partito Democratico (22, 69%) e il Movimento 5 Stelle (17,07 %). Il risultato italiano è stato quello più discusso, assieme a quello britannico, dove il neonato Brexit Party di Nigel Farage ha conquistato quasi il 32%. Abbiamo chiesto a tre nostri collaboratori di analizzare il voto in altri tre grandi Paesi europei: Gilles Gressani racconta gli esiti in Francia, Denise Zani in Spagna e Lorenzo Monfregola la situazione in Germania.
La mutazione del macronismo in Francia
di Gilles Gressani
Durante la campagna per l’elezione presidenziale del 2017, il candidato Macron aveva fatto dell’Europa un tema distintivo per definire il suo posizionamento e la sua identità politica. Questa scelta in apparente controtendenza con il discorso politico francese mainstream, aveva suscitato un’ondata esponenziale di adesioni, fornendo al presidente francese un capitale politico inedito. Qualche tempo dopo la sua elezione, in una conversazione privata, un alto funzionario europeo di grande esperienza e influenza mi aveva detto : “Ci sono dei rari momenti in cui una persona ha la possibilità di definire il senso della storia, in Europa, Macron è oggi quella persona”.
Dopo poco più di due anni di gestione del potere, il bilancio europeo di Macron non sembra all’altezza delle aspettative. Restano da spiegare le ragioni che hanno portato il partito presidenziale a condurre una campagna europea definita dalla maggior parte dei commentatori morosa e inconcludente.
Il presidente francese è certo un politico particolarmente plastico e abile nell’approfittare della fortuna, l’impostazione generale della sua politica è però rigidamente franco-centrica. Sembra quasi una considerazione banale, ma a poco più di quarant’anni, Macron è soltanto al suo primo mandato come presidente e resta soprattutto concentrato sull’obiettivo della rielezione nel 2022. Prima di diventare “il prossimo leader europeo”, come titolava efficacemente Il Time Magazine, Macron vuole quindi prima trovare il modo di governare la Francia per i prossimi sette anni. “Vaste programme”, avrebbe detto il generale De Gaulle…
Fortemente indebolito nei sondaggi, come tutti i presidenti della Quinta Repubblica da Chirac in poi, Macron si è trovato coi Gilets jaunes a affrontare da ottobre in poi una forma innovativa di contestazione particolarmente tenace e ricorrente. Passata la sorpresa iniziale, il presidente francese è riuscito a porsi come l’incarnazione dell’ordine repubblicano, spostando la sua linea politica sempre più chiaramente su delle posizioni di centrodestra, accettando la rottura con la parte della socialdemocrazia che lo aveva sostenuto e accompagnato nella sua ascesa.
Le elezioni europee hanno premiato questa scelta tattica. Dopo avere cannibalizzato il Partito socialista, Macron è riuscito a portare un colpo, forse definitivo, al partito dei Républicains. Il centrodestra francese, membro storico del Partito popolare europeo, è arrivato a stento all’8% delle preferenze, anche a causa dei problemi posti dalla campagna proposta da un intellettuale di talento, François Bellamy, un po’ salottiero e a tratti reazionario, che aveva sostenuto in passato posizioni omofobe e contro l’aborto.
Dopo avere cannibalizzato il Partito socialista, Macron è riuscito a portare un colpo, forse definitivo, al partito dei Républicains.
Un’analisi anche molto superficiale delle dinamiche elettorali mostra lo spostamento delle preferenze per Macron. A Parigi, per esempio, il voto è passato dal bobo cosmopolita e globalizzato del Marais, al sedicesimo arrondissement della Francia borghese bon chic bon genre. Questo riposizionamento ha creato uno spazio politico a sinistra equivalente a circa il 30% dei voti espressi. È interessante notare che la disorganizzazione e la tendenza alla differenziazione litigiosa dei partiti di sinistra ha condotto alla frammentazione e alla dispersione di una parte dei voti (il movimento di Benoit Hamon, candidato socialista alla presidenza nel 2017, il Partito comunista e, in modo più prevedibile, Lotta operaia sono finiti sotto la soglia di sbarramento del 5%), permettendo al contempo ai Verdi diretti da Yannick Jadot di emergere come la terza forza politica del paese con circa il 13% dei voti. Un’annotazione importante: come nel resto dell’Europa, la stagione dello stile populista di sinistra sembra al tramonto. Tra sovranismo di destra e tsiprizzazione non sembra per il momento delinearsi una terza via radicale: la France Insoumise di Mélenchon esce così molto ridimensionata dal voto ottenendo lo stesso risultato del Partito socialista diretto per l’occasione, grazie a un’alleanza molto laboriosa, dal saggista Raphaël Glucksmann, fermandosi a poco più del 6% dei voti.
Questa dinamica elettorale è stata resa possibile dalla creazione di un contesto politico particolare. Macron ha cercato di ricomporre il dibattito politico francese attorno al Rassemblement National di Marine Le Pen e all’opposizione tra “nazionalisti senza progetti” e “progressisti” a favore di “un’Europa che protegga”. Non per niente il vincitore dell’elezione con più del 23% dei voti è il Rassemblement National. Si tratta però di una vittoria relativa se si considera il peso reale nelle dinamiche europee. Il Rassemblement National non riesce peraltro ad aumentare i suoi voti o ad allargare il divario con il partito di Macron al di là di un solo punto percentuale — malgrado la tendenza storica francese che vede una sanzione elettorale europea per il partito di governo.
Non deve infine sorprendere se l’analisi del voto francese alle europee ruota attorno al presidente francese perché l’elezione, il suo contesto e il suo risultato sono stati fortemente influenzati dal suo metodo di governo, che può essere riassunto in una semplice formula: “tutto deve passare dall’Eliseo”. La scelta della capolista alle europee del partito presidenziale è in questo senso paradigmatica. Nathalie Loiseau, è tecnicamente dotata di un profilo di alta competenza, ma la sua figura è sembrata a tratti politicamente e retoricamente improbabile. Le sue performance nei dibattiti televisivi o nei meeting sono state abbondantemente criticate e hanno causato una momentanea perdita nei sondaggi.
Non si tratta però come hanno pensato in molti semplicemente di un errore di casting. Una capolista debole garantisce all’Eliseo un accesso diretto alla gestione del complesso processo di ricomposizione politica che vedrà la definizione in poco meno di due mesi dei prossimi gruppi del Parlamento europeo e del prossimo presidente della commissione. Non per niente, sui manifesti elettorali appariva una foto di un Macron sorridente e solo.
La campagna elettorale si dimostrava così meno importante della campagna politica che dovrebbe portare secondo la strategia macronista a un cambiamento degli equilibri politici sulla scala continentale, grazie alla ricomposizione dei gruppi al parlamento di cui l’ALDE macronista dovrebbe essere l’elemento pivotale e che potrebbe riunirsi attorno alla figura di Michel Barnier, come presidente della commissione europea.
I socialdemocratici di Borrell: in Spagna trionfo senza trionfalismi
di Denise Zani
Josep Borrell parla lentamente. Nelle dichiarazioni che seguono il voto, il capolista del Partito socialista spagnolo (PSOE) alle elezioni europee prende la parola e ricorda che la tradizione del suo partito ha fatto molto per l’Europa, molto di più di quanto corrispondesse al proprio paese per ragioni geografiche o economiche. Parla piano, senza trionfalismi, come se il fatto che il PSOE vincesse le elezioni europee con oltre il 32% dei voti, assicurandosi 20 dei 54 eurodeputati destinati alla Spagna – e duplicando quasi il risultato ottenuto alle precedenti elezioni – fosse quasi una notizia minore.
Perché domenica scorsa, in Spagna, si è votato per il rinnovo dei governi di quasi tutte le comunità autonome, e di tutti i comuni, in quella che è stata vissuta come la possibile rivincita a caldo delle forze uscite malmesse dalle elezioni generali celebrate il 28 aprile; ulteriore data cardine in cui si è confermata la presidenza del leader dei socialisti Pedro Sanchez, si è assistito a un’inedita disgregazione della destra e si sono messi a tacere i demoni che davano l’estrema destra di Vox come più forte di quanto si sia dimostrata. Memori dell’incertezza che si è generata dalle elezioni generali (il PSOE è il primo partito, ma non ha la maggioranza assoluta), le locali e regionali sono state elezioni emotive, fatte di soglie psicologiche, di feudi da espugnare; elezioni che hanno visto la clamorosa sconfitta delle fino a poco tempo fa amatissime sindaco di Madrid e Barcellona – l’una caduta sotto il peso delle divisioni interne alla sua formazione affine a Podemos, l’altra sotto il peso del voto indipendentista – e che hanno dimostrato una lieve ripresa della destra conservatrice del Partido Popular.
Un ritmo a mille all’ora che si è ingentilito guardando all’Europa, che ha preso un compás più moderato per un appuntamento che ha avuto una copertura mediatica meno frenetica, verrebbe da dire compassata, verrebbe da dire alla Borrell, che a 72 anni è ministro degli esteri in funzione ed ex presidente del Parlamento europeo. L’uomo europeo per eccellenza, catalano che non esitò, ormai un anno e mezzo fa, a scendere in piazza in difesa del dialogo tra il governo centrale e i catalani brandendo una bandiera europea. E Borrell parla piano ma sa bene, e non solo lui, che in mezzo al gran baccano – o alle mappe che si colorano in un modo o nell’altro – la delegazione socialdemocratica spagnola sarà cruciale, perché tra le più nutrite in Europa e con l’appoggio di un governo nazionale dello stesso colore. E ricorda, nel discorso che non toglie i riflettori a Sánchez, che la Spagna potrebbe tornare ad aver un peso fondativo, o ri-fondativo, del socialismo nel continente.
Una rivendicazione pacata che preannuncia ciò che viene reso pubblico poche ore dopo le dichiarazioni dal quartier generale: un incontro a Parigi tra Sánchez e Macron. Perché in sostanza, quello che difende Borrell, è che l’Europa va cambiata perché possa diventare «più sociale, più ecologica e più digitale» che Bruxelles sarà pure piena di burocrati, ma che l’opzione “no Europa” in pratica non esiste. Una convinzione che sembra essere confermata dall’affluenza alle urne (con la spinta del triplice voto l’affluenza è stata del 65%, quasi la stessa delle prime elezioni europee del 1987) e dall’ultimo eurobarometro che conferma come gli spagnoli siano tra i più europeisti d’Europa. Lo sono così tanto da esserlo anche quando sono indipendentisti.
Borrell sa che la delegazione socialdemocratica spagnola sarà cruciale, che la Spagna potrebbe tornare ad aver un peso fondativo, o ri-fondativo, del socialismo nel continente.
Perché dalle valutazioni frettolose del dopo partita, che assomiglia più a un intero campionato celebratosi in un solo giorno, emerge anche un dato che potrebbe sembrare aneddotico, ma che a ben vedere non lo è. A seguito della consultazione europea sono stati eletti anche Oriol Junqueras – rappresentante di Esquerra Republicana ed ex vicepresidente dell’autonomia catalana – e Carles Puigdemont – ex presidente dell’autonomia catalana ed esponente di Lliures per Europa. Il primo si trova in carcere in attesa di giudizio per l’organizzazione del referendum sull’indipendenza. Il secondo è fuggitivo in Belgio e, in teoria, non potrebbe formalizzare la sua presenza al Parlamento Europeo senza ricevere l’atto a Madrid dove, sempre in teoria, verrebbe arrestato.
E non è questo l’unico fronte aperto di una questione che ha una lunga storia, è esplosa un anno e mezzo fa, e sembra continuerà a catalizzare l’attenzione nazionale e internazionale ancora per un po’. A questo si sommano: un’estrema destra che sarà pure uno spettro lontano ma porta in Europa per la prima volta tre deputati e le mille vite dei conservatori che sanno quanto l’Europa sia importante per quella Spagna agricola e scarsamente popolata che vive dei fondi stanziati a Bruxelles. Sarà per questo che Borrell non cede a trionfalismi (“sono un candidato come gli altri”, dice) sebbene sotto il suo pulpito campeggi la scritta “sempre avanti”. Un messaggio probabilmente approssimativo, forse improprio, forse vuoto ma su cui il partito di Sánchez ha puntato molto.
Una promessa che sarà difficile da mantenere ma che per ora ha funzionato da esorcismo alla paura del ritorno al totalitarismo rancido de la España profunda. In Omaggio alla Catalogna, George Orwell, in un poco lusinghiero ritratto dei soldati andalusi confluiti nelle file dei repubblicani, scrive “sembravano ignorare perfino dell’unica cosa che in Spagna tutti sanno: a quale partito politico appartenessero”. E tra “avanti” e “indietro” a queste europee gli spagnoli hanno scelto con forza “avanti”: sarà semplicistico, ma a ben vedere è più coraggioso di quel che sembra.
In Germania vincono solo i Verdi
di Lorenzo Monfregola
Pochi secondi dopo le 18 di domenica, nella sede berlinese della fondazione verde Heinrich Böll è partito un vero e proprio boato. Neanche i più ottimisti tra i Grünen, infatti, si aspettavano un successo così imponente. Con il 20,5% dei voti (quasi 10 punti in più del 2014), i Grünen sono ora ufficialmente il secondo partito in Germania e conquistano ben 21 seggi al Parlamento europeo. Gli ambientalisti beneficiano delle difficoltà della grande coalizione di governo di Berlino, ma, soprattutto, stanno vivendo un momentum unico grazie alla centralità delle nuove campagne per la difesa del clima.
Non è certo un caso che i Grünen siano riusciti a conquistare 1 voto su 3 tra gli under 30. Queste elezioni europee sono state presentate e vissute in Germania come vitali per fermare il vento dei nuovi nazionalismi, tanto da spingere un’affluenza record del 61,4%, un dato che non si vedeva dagli anni ‘80. Uno scenario in cui i Verdi si sono imposti con una narrazione dove l’europeismo e la società aperta vengono saldati alla rivendicazione di un destino comune e transnazionale di fronte all’emergenza climatica. Ora, però, i Verdi dovranno dimostrare di non essere solo bravi nella comunicazione, ma di saper agire concretamente, tenendo insieme la questione ecologica con quella sociale, così come le esigenze dei grandi centri cosmopoliti con quelle delle tante province e periferie disseminate in Europa (i gilets jaunes francesi restano un monito in questo senso).
Davanti ai Grünen, intanto, ci sono ancora la CDU e la CSU bavarese, che quest’anno si sono presentate per la prima volta con un programma condiviso, raccogliendo il 28,9% dei voti (6,5 punti percentuali in meno rispetto al 2014). Un dato appena sufficiente a restare il partito più forte del Parlamento UE: 29 seggi (a pari merito con il Brexit Party e, dopo l’uscita del Regno Unito, con la Lega di Salvini). Collante della cosiddetta Union doveva essere il sostegno comune a Manfred Weber, Spitzenkandidat alla presidenza della Commissione europea per il Partito Popolare Europeo. Ma se la spinta primaria per Weber doveva arrivare proprio dalla Germania e dalla sua Baviera, le cose non sono andate così. C’è già chi prevede che, all’interno delle dinamiche del Consiglio Europeo, la Kanzlerin Angela Merkel possa ora sacrificare la candidatura di Weber per spingere invece quella di un altro tedesco, Jens Weidmann, alla ben più strategica guida della BCE.
Merkel, che gode ancora di un vasto consenso tra i tedeschi (evidentemente indipendente da quello per il suo partito), si è tenuta tatticamente a distanza da queste europee, facendo solo un paio di comparsate. La colpa per la performance della CDU, di conseguenza, è ora quasi tutta sulle spalle della nuova leader Annegret Kramp-Karrenbauer, che sta reagendo in maniera tutt’altro che brillante (ad esempio attaccando la libertà di espressione pre-elettorale). Per Kramp-Karrenbauer la missione diventa sempre complicata: rilanciare un partito ideologicamente indeciso (anche e soprattutto sull’Europa), votato principalmente dagli over 60 e decisamente incapace di comunicare con le generazioni più giovani.
Queste elezioni europee sono state presentate e vissute in Germania come vitali per fermare il vento dei nuovi nazionalismi, tanto da spingere un’affluenza record.
I socialdemocratici, da parte loro, stanno vivendo uno psicodramma ben peggiore, sempre più in odore di pasokification. Con il 15,8% di domenica, la SPD non è ancora scomparsa, ma è comunque crollata di 11,4 punti rispetto alle ultime europee e ha raggiunto un nuovo record negativo della sua storia. La SPD ha inoltre perso, dopo 73 anni, il primato nelle contemporanee elezioni locali di Brema. La botta è stata tale che non si esclude alcuna conseguenza: la sostituzione della leader Nahles, un rimpasto di governo, un crollo dello stesso governo rosso-nero. I socialdemocratici dovranno fare qualcosa: il loro partito continua a perdere voti in favore dei Verdi, mentre i recenti tentativi di recuperare consensi a sinistra e il marketing politico fatto di europeismo old style non hanno sortito alcun effetto.
A sinistra della SPD continua a resistere la Linke (5,5%, -1,9 punti rispetto al 2014). La sinistra radicale si è presentata con un programma molto più europeista del solito, anche se con l’obiettivo dichiarato di riformare profondamente l’UE. Negli scorsi mesi la Linke si era anche scrollata di dosso alcune correnti interne più identitarie sul tema immigrazione (scegliendo simbolicamente di invitare la capitana di Sea Watch, Pia Klemp, a parlare al congresso di apertura della campagna europea).
L’affermazione come forza quasi regionale nella Germania dell’est, invece, è la vera vittoria di Alternative für Deutschland. La destra identitaria si è relativamente ridimensionata su scala nazionale (11% dei voti a queste europee, +3,9 punti rispetto al 2014, ma meno dell’exploit nazionale del 2017). Le uscite su un’ipotetica Dexit non sono state certamente convincenti. AfD ha però consolidato la propria presa in tutte le regioni della ex DDR, diventando primo partito in Brandeburgo e Sassonia e secondo partito in Turingia, Sassonia Anhalt e Meclemburgo-Pomerania Anteriore. La destra populista, inoltre, è poco votata dai giovanissimi, ma ha raccolto un forte sostegno tra operai e disoccupati, non solo a est, ma in tutta la Germania. Un dato che resta emblematico.
Risultati scarsi per i liberali-liberisti di FDP, che salgono in confronto al 2014, ma raccolgono il 5,4% e portano solo 5 seggi in dote al nuovo gruppo euro-liberale di Macron, con tutte le contraddizioni geopolitiche che ne conseguono (la FDP vede se stessa come il partito più vicino agli interessi industriali tedeschi).
Menzione speciale, infine, per “Die Partei”, partito satirico-surrealista che – grazie all’assenza di sbarramento per le europee in Germania – aveva già conquistato un seggio a Bruxelles-Strasburgo nel 2014 e, ora, ne ha vinti addirittura 2. La notizia più curiosa per il resto d’Europa, in questo caso, è che anche i tedeschi possano avere uno spiccato senso dell’ironia.