U na democrazia può funzionare con il diritto di veto?”, domandava retoricamente David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, nel novembre 2019. “Neanche un condominio funziona con un sistema che richiede l’unanimità”. Eppure, dal voto all’unanimità sono regolate le decisioni chiave dell’Unione Europea. L’assenso di tutti i 27 Stati membri è necessario in un’ampia gamma di settori, tra cui spiccano due ambiti cruciali: la politica estera e quella finanziaria.
La ratio del sistema è chiara: sulle cose che contano, nessuno dei Paesi può subire una decisione che non approva. “L’UE è concepita espressamente come priva di un potere superiore agli Stati. Si fonda invece su forme di governance, cioè sull’esercizio in comune di sovranità statali”, come spiega al Tascabile Giulia Rossolillo, ordinaria di Diritto dell’Unione Europea all’Università di Pavia.
In pratica, però, questo sistema comporta un diritto di veto che consente a ogni partecipante al club di tenere in scacco tutti gli altri. Non è un’ipotesi teorica, ma la realtà della politica europea, anche molto recente. L’approvazione del Next Generation EU, il piano da 750 miliardi di euro per contrastare gli effetti della pandemia da COVID-19, è arrivata dopo lunghe trattative in cui il banco ha rischiato più volte di saltare. L’ultimo braccio di ferro ha riguardato, nel dicembre 2020, una clausola che vincola l’attribuzione dei fondi comunitari al rispetto dello Stato di diritto. Polonia e Ungheria non erano d’accordo e minacciavano di non approvare il bilancio settennale europeo, a cui il piano di ripresa è interconnesso. Si è discusso per giorni prima di trovare una soluzione: il meccanismo è rimasto, ma diventando così complesso e farraginoso nella sua attivazione che rischia di non produrre gli effetti sperati.
Su compromessi al ribasso come questo sono costruite le dichiarazioni congiunte dei Consigli europei, maratone mensili di negoziati tra i Capi di Stato e di governo dell’UE, il cui testo finale può vedere la luce solo con il benestare di tutti i partecipanti. I leader nazionali si incontrano solo una volta al mese e trattano solo le questioni portanti. Il resto del processo decisionale è delegato ai ministri che si riuniscono, a turno, nel Consiglio dell’Unione europea, o ai rappresentanti permanenti degli Stati a Bruxelles, membri di un comitato chiamato Coreper.
L’Unione Europea è concepita espressamente come priva di un potere superiore agli Stati.
Cambiano i protagonisti, non il metodo. Basta uno Stato, anche molto piccolo, per bloccare l’intero processo. Di recente l’Ungheria ha fermato, da sola, l’emissione di sanzioni europee contro la Cina. Cipro ha tenuto sospese per mesi quelle nei confronti del regime bielorusso, soltanto perché esigeva una simile presa di posizione comunitaria anche contro la Turchia. Difficile, con queste premesse, impostare una politica internazionale efficace. L’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri ha, di fatto, le mani legate: può prendere una posizione solo con l’appoggio unanime di tutti i ministri degli Esteri. Un po’ come se la diplomazia di un Paese dipendesse dai presidenti delle sue regioni. “Sul piano internazionale l’Unione non c’è. Gli Stati operano sui vari scenari ognuno per conto proprio”, evidenzia la professoressa Rossolillo.
La regola del consenso assoluto può portare a risultati grotteschi, come il calvario dei macedoni, candidati a entrare nell’UE dal 2005, e ancora oggi tenuti alla porta. L’inizio dei negoziati per l’adesione all’UE deve essere approvato dal Consiglio europeo: a ogni nuovo Stato serve quindi ottenere la benedizione di tutti i membri attuali. Al Paese toccò prima cambiare denominazione in Macedonia del Nord (nel 2018), per evitare il veto della Grecia, che considera una delle sue regioni la vera Macedonia. L’anno successivo tre Paesi, tra cui la Francia, si opposero al volere degli altri 25, bloccando l’avvio delle trattative. Quando tutto sembrava risolto, nel 2020 fu la Bulgaria a mettersi di traverso, per una disputa dai contorni non ben definiti sulla lingua e l’identità macedone.
Schiava di un’unanimità impossibile è anche la questione della doppia sede del Parlamento europeo. Prima che la pandemia sconvolgesse la routine comunitaria, ogni mese deputati, assistenti e funzionari europei si trasferivano per una settimana dall’emiciclo di Bruxelles, dove lavorano le commissioni parlamentari, a quello di Strasburgo, dove si riunisce la sessione plenaria. Non c’è nessuna differenza sostanziale fra le due camere, ma la spola costa circa 114 milioni di euro all’anno, secondo un rapporto della Corte dei Conti europea: viaggi evitabili di oltre 3mila persone che sono tra l’altro una pessima pubblicità per un’istituzione in prima linea contro le emissioni di CO2.
La regola sulla sede del Parlamento è però sancita dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e per modificarla servirebbe l’assenso di tutti gli Stati, più la ratifica dei loro parlamenti nazionali. Francia e Lussemburgo non hanno intenzione di rinunciare all’indotto che questi viaggi comportano e così il Parlamento europeo continua a disporre di due edifici che assolvono le stesse funzioni: quando uno è operativo, l’altro resta pressoché vuoto.
Il 9 maggio si è aperta la Conferenza sul Futuro dell’Europa, un progetto di democrazia partecipativa lungo un anno, al termine del quale gli spunti forniti dai cittadini europei dovranno essere tradotti in azioni concrete dalle istituzioni.
Proprio all’Eurocamera di Strasburgo, una magnifica struttura di metallo, vetro e legno adagiata a cavallo del fiume Ill, si è tenuta la cerimonia solenne di apertura della Conferenza sul Futuro dell’Europa, domenica 9 maggio. Si tratta di un progetto di democrazia partecipativa lungo un anno, al termine del quale gli spunti forniti dai cittadini europei dovranno essere tradotti in azioni concrete dalle istituzioni. La Conferenza ha una sua Plenaria, composta da 433 membri tra politici comunitari, parlamentari nazionali e regionali, figure della società civile e persone comuni. Quest’organo redigerà il rapporto finale insieme al board della Conferenza, formato da rappresentanti di Commissione, Parlamento e Consiglio dell’UE. C’è anche una piattaforma digitale multilingue, già ribattezzata dagli addetti ai lavori “il Facebook dell’Europa”, che serve a raccogliere le proposte dei cittadini.
“Il superamento del voto all’unanimità è uno dei punti centrali del dibattito – dice al Tascabile Nicoletta Pirozzi, responsabile del programma ‘Ue, politica e istituzioni’ dell’Istituto Affari Internazionali -. Da più parti arriva la spinta a superare l’immobilismo a cui l’UE è condannata dalla possibilità di veti incrociati”.
L’ampliamento degli ambiti in cui viene utilizzato il voto a maggioranza, del resto, era stato già proposto dalla Commissione europea precedente, e adombrato a più riprese anche da quella attuale. Ma richiede, sempre e comunque, la modifica dei trattati europei, che a sua volta è regolata dal voto all’unanimità. Una sorta di cortocircuito incastonato nell’articolo 48 da cui si può uscire soltanto tagliando di netto il nodo gordiano: autorizzare cambiamenti strutturali aggirando la procedura prevista.
Pur con un’architettura barocca e con il fianco esposto ai classici conflitti tra le istituzioni, la Conferenza sul Futuro dell’Europa può rappresentare proprio quell’elemento di svolta nella consuetudine politica dell’UE: il terreno di gioco ideale per prendere in considerazione ipotesi innovative, perché legittimate dalla volontà popolare. Secondo Pirozzi, “per i capi di Stato e di governo sarà molto difficile ignorare forti appelli a modifiche strutturali”. Una delle possibilità al termine della Conferenza è un processo politico del tutto nuovo, che lanci proposte di riforma incisive. L’iniziativa potrebbe arrivare dal presidente francese Emmanuel Macron, uno dei più ferventi sostenitori dell’evento e detentore della presidenza di turno del Consiglio dell’UE nel primo semestre del 2022, quando la Conferenza adotterà il suo rapporto finale.
Un cambiamento decisivo avverrebbe solo sottraendo le prerogative più importanti, cioè quelle in materia finanziaria e di politica internazionale, dal potere esclusivo degli Stati.
“La modifica dei trattati non è l’obiettivo in sé. Ma non possiamo escluderne la possibilità a prescindere: se i cittadini ce lo chiederanno, non potremo respingere le loro richieste”, puntualizza a Il Tascabile Daniel Freund, eurodeputato dei Verdi tedeschi e membro del board della Conferenza.
Un esito del genere non è per nulla scontato e richiederà un forte impegno politico per vincere la resistenza dei governi nazionali, avverte il parlamentare. Un anticipo di questa riluttanza si è visto nei lavori preliminari: laddove il Parlamento europeo spingeva per allargare il margine d’azione della Conferenza, il Consiglio europeo, che rappresenta gli Stati, lavorava per restringerlo. Il punto d’equilibrio si è raggiunto soltanto a pochi giorni dall’evento inaugurale, con un regolamento così vago da risultare accettabile per tutti. Nei mesi scorsi i governi dei Paesi membri hanno nicchiato sulla realizzazione del progetto: senza arrivare a un sabotaggio aperto, le capitali europee speravano probabilmente che la crisi innescata dalla pandemia oscurasse l’iniziativa. Ora che il dibattito è aperto, però, ogni proposta sospinta dal supporto popolare può trasformarsi in una valanga sullo status quo.
Scardinare il diritto di veto sarebbe un passo importante, ma probabilmente non risolutivo. Il nocciolo della questione affonda nella concezione più profonda dell’Unione europea, un’entità acefala dalla nascita. “Prendere determinate decisioni a maggioranza qualificata, invece che all’unanimità, non è abbastanza”, afferma Giulia Rossolillo. “Chi le prende sono sempre il Consiglio europeo e il Consiglio dell’Unione europea: due organi che non rappresentano l’interesse complessivo dell’Unione, ma quello dei singoli Stati, ognuno dei quali cerca sempre di tirare la coperta dalla sua parte”. Secondo questa analisi, un cambiamento decisivo avverrebbe solo sottraendo le prerogative più importanti, cioè quelle in materia finanziaria e di politica internazionale, dal potere esclusivo degli Stati. Le decisioni su tali temi dovrebbero avvenire tramite procedure di co-legislazione, aumentando così il peso specifico del Parlamento europeo, che, diviso in gruppi politici transnazionali, rappresenta i cittadini dell’Unione e non i loro governi. Questo shift di competenze agevolerebbe inoltre lo spostamento del dibattito a livello europeo: “Finché l’Eurocamera discute di additivi alimentari, non c’è un vero confronto politico. Se invece inizia a decidere su imposte e politica estera, sarà al centro dell’attenzione”.
A spingere verso una simile configurazione, soprattutto in materia fiscale, potrebbe essere la situazione economica provocata dalla pandemia, che già ha aperto scenari impensabili in precedenza: la sospensione del Patto di stabilità e crescita e l’emissione di debito comune da parte dei Paesi Ue. E se alcuni Stati come Austria, Ungheria o Polonia si mostrano renitenti a una maggiore integrazione politica ed economica, altri sembrano aver realizzato l’irrilevanza a livello globale a cui li condannerebbe un’Unione dis-unita. “L’Europa si forgerà nelle crisi e sarà la somma delle risposte a queste crisi”, ha scritto nelle sue memorie uno dei padri fondatori europei, Jean Monnet. All’orizzonte c’è un’ottima occasione per verificare la validità della sua massima.