L e parole d’ordine della politica contemporanea – “cambiamento”, “riforme”, “onestà”, ad esempio – sono diventate le nuove categorie usate per cercare di uscire, quando non semplicemente per mascherare, una situazione terribilmente statica. Questa stasi è il risultato di un lungo processo di deterioramento sia del tessuto sociale cui l’organizzazione tradizionale era chiamata a rispondere, sia delle istanze e dei messaggi politici. Da un lato, il trionfo dello storytelling come metodo di ricerca e organizzazione del consenso (sganciando quindi la narratività dalla fattualità); dall’altro, la sconfitta della missione storica di un socialismo che – incapace di riorganizzarsi e ricostruirsi attorno alle rinnovate strutture della società – ha generato nella Terza Via degli anni Novanta un ibrido sulle prime vincente, ma che ha di fatto inceppato il meccanismo dell’alternanza e della dialettica politica.
Un “tradimento” – che ha aperto al mercato, alla finanziarizzazione e alla globalizzazione selvaggia adottando i meccanismi di deregulation e ha precarizzato il mercato del lavoro senza adattarlo alle nuove esigenze sociali – che ha ribaltato il terreno dello scontro: non più destra vs sinistra, ma alto vs basso. Una dinamica che in molti riducono alle istanze del populismo, ma che mette in discussione tutto lo spazio politico per come lo abbiamo pensato, la sua geografia, la sua ontologia, e anche il suo vocabolario. Senza affrontare la situazione internazionale (dalla vittoria di Donald Trump al modello Emmanuel Macron, fino alla recente affermazione – pur non vincente – di Jeremy Corbyn), basterebbe concentrarsi sull’attuale e caotico guazzabuglio italiano per capire che stiamo vivendo tempi di grande confusione da cui sembra non esserci via d’uscita, intrappolati come siamo in un presente permanente che ha annullato ogni prospettiva e annulla ogni differenza ideologica proprio perché la gestione del qui-e-ora si basa sul consenso istantaneo, da cercare con ogni mezzo, sganciando anche le parole dal suo significato originario. La politica del significante vuoto.
Ed è attorno a questo vuoto che parte l’analisi di Processo al Nuovo, ultimo libro di Marco Damilano edito da Laterza nella sua ritrovata collana Tempi Nuovi. Il “Nuovo” (appunto) come categoria interpretativa della politica italiana, parola d’ordine che ha accompagnato tutta la storia recente del paese almeno dal crollo della Prima Repubblica, e il cui dogma ha attraversato tutta la Seconda Repubblica. “Gli uomini nuovi”, “la politica nuova”, “la sinistra nuova”.
“Il Nuovo ha consumato se stesso perché senza progetto. Con il passato, ha buttato via anche il futuro. I suoi paladini si sono rivelati clamorosamente inadeguati alle sfide, hanno deluso chi voleva cambiare e tradito chi ci aveva creduto.” Una politica appiattita sui risultati elettorali, sui numeri, sui bilancini e i contrappesi interni, sulla drammatica autoreferenzialità dei suoi esponenti, nell’incapacità di innescare qualsiasi progetto di cambiamento. Per dirla parafrasando la brillante pagina satirica di Facebook Logo Comune, “non conta il cambiamento reale, ma il cambiamento percepito”.
La ricostruzione storica di Damilano fa emergere la ricorrenza per cui la politica italiana ha prodotto a tavolino il Nuovo come soluzione valida per tutte le stagioni e risposta alla crisi delle istituzioni.
La ricostruzione storica di Damilano fa emergere la drammatica ricorrenza per cui, a ogni giro di giostra, la politica italiana ha prodotto a tavolino il Nuovo come soluzione valida per tutte le stagioni e risposta alla crisi delle istituzioni. “Crisi”, altra parola fondamentale dell’attuale lessico politico. Una crisi ormai permanente, che si è trasformata in un nuovo stato dell’arte a cui non è più possibile rispondere se non con elementi di pura gestione della contingenza. Dal “nuovo” craxiano visto come sexy e affascinante contro il “vecchio” cupo e opprimente, l’ottimismo della volontà contro il pessimismo della ragione (là dove il vecchio era rappresentato dalla Democrazia Cristiana, un ritornello che poi conosceremo perfettamente con Berlusconi, vitale e futurista, contro la sinistra triste “che rende la gente triste”); alla questione morale di Berlinguer, che attestava la crisi sistemica e la trasformazione dei partiti in macchine di potere e corruttela.
Una storia che arriva da lontano, uno stato di emergenza totale che non permette più soluzioni di lungo periodo, ma valide per un orizzonte che si rinnova ogni giorno. Ecco, quindi, le grandi intese nate nell’emergenza del governo tecnico di Mario Monti (anche qui, un “uomo nuovo” con un progetto politico “nuovo”); il cambiamento inevitabile apportato da Matteo Renzi per segnare uno scarto rispetto al governo di Enrico Letta (e cosa c’è di più nuovo di un nuovo anche generazionale, che programmaticamente vuole mandare via il vecchio?); il programma in perenne costruzione del Movimento 5 Stelle che, dietro il paravento al tempo stesso utopico e distopico della democrazia diretta e partecipativa, fa e disfa le sue posizioni su qualsiasi tema secondo la necessità del momento, come in una eterna ed estenuante tela di Penelope.
“È il Nuovo come viene fissato agli inizi degli anni Novanta, e che resterà invariato per quasi un quarto di secolo. Fino a diventare vecchio”, si scrive a proposito delle metamorfosi della sinistra dopo la dissoluzione del Partito Comunista Italiano. Una dinamica, però, valida per qualsiasi altro corpo politico. Basta cambiare il nome, un nuovo contenitore, una scorciatoia che sembra rispondere a delle supposte domande della società. Un nuovismo che tiene in sé tutte le contraddizioni, fino a toccare quella massima dell’anti-politica di palazzo: da Berlusconi, a Renzi, passando per Mario Monti – appunto – e chissà cos’altro succederà al prossimo giro elettorale.
Un nuovismo che tiene in sé tutte le contraddizioni, fino a toccare quella massima dell’anti-politica di palazzo.
Il “Nuovo” perde tutta la sua carica eruttiva nel momento in cui tradisce le aspettative, in cui si conferma solo un vestito diverso per portare avanti le stesse dinamiche. “Il Nuovo si consuma perché è incapace di offrire una via alternativa a se stesso. E di mutamento in mutamento la politica del nuovo si è smarrita. Ha un grande avvenire dietro le spalle. Che costringe i leader a una corsa continua, verso il nulla. Dietro l’eterno presente della nuova politica c’è il nichilismo”. E questa corsa produce un nulla, un vuoto. Un riformismo vacuo, inutile, che sembra fare solo danni perché non inserito in un disegno collettivo, in un orizzonte, in un flusso storico proiettato per davvero nel futuro. Resta “una repubblica senza riforme e senza partiti, senza destra e senza sinistra. E, naturalmente, senza vecchio e senza nuovo. Una Repubblica senza.”
In Palombella Rossa, Michele Apicella è un dirigente del PCI che ha perso la memoria in seguito a un incidente. Durante la partita di pallanuoto, tutti sembrano fare riferimento a una grande svolta, un grande annuncio che il protagonista ha fatto in televisione qualche giorno prima. Apicella non ricorda, ma vorrebbe farlo per sapere cosa fare e, soprattutto, dove andare. Questa memoria dissolta, sparita, che lascia spazio ad idee che non si sanno esporre (“Cosa c’è che non va, il programma?”) e incertezze sul futuro da affrontare con delle idee, appunto, nuove (“Noi siamo uguali agli altri, noi siamo come tutti gli altri, noi siamo diversi, noi siamo diversi, noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi, ma siamo uguali agli altri, ma siamo diversi”). Durante uno dei numeri flashback in cui si inscena la tribuna politica della svolta, Apicella pronuncia il manifesto del Nuovo: “Dobbiamo aprire le porte del partito a tutti: ai giovani, alle donne, ai lavoratori, ai movimenti. Noi dobbiamo dire: Venite nel partito. Prendetelo. Vediamo insieme cosa possiamo fare. Questo sentimento popolare nasce da meccaniche divine” (…e ti vengo a cercare, con la scusa di doverti parlare). Era il 1989. Il mondo nuovo si stava presentando all’orizzonte. Qualche anno dopo, Nanni Moretti, svestiti i panni di Michele Apicella, sale sul palco di piazza Navona per constatare che tutto questo nuovismo ha prodotto una classe dirigente con cui la sinistra non avrebbe mai vinto.
Il nuovo è evaporato, e con lui sembra non esistere più nemmeno la prospettiva di un futuro. Si procede così, sempre uguali a se stessi. Uguali, ma diversi. Come tutti gli altri. In continuo movimento, ma statici.