L’eterno presente della Rete
Divisa tra chi crede alle fake news e chi si indigna, la discussione sui social è chiusa in un circolo vizioso.
Divisa tra chi crede alle fake news e chi si indigna, la discussione sui social è chiusa in un circolo vizioso.
I l rito si ripete identico ogni giorno: affacciandosi in rete, un italiano scopre che qualcuno nella sua cerchia più o meno estesa di contatti non capisce quello che legge, crede a informazioni improbabili e si lascia guidare da istinti ed emozioni primitive, senza nessun rapporto con la realtà. Si indigna, si dibatte, si lamenta con i parenti, gli amici e i colleghi; se è abituato a farlo, si lascia andare a una dolente invettiva sui social media, spesso anche contemporaneamente contro i social media stessi (causa ed effetto di ogni male).
Il giorno dopo, tutto ricomincia daccapo, come in quel vecchio film – Il giorno della marmotta – in cui il protagonista era condannato a rivivere sempre lo stesso giorno, senza poter andare avanti. La spiegazione semplice che ci possiamo dare è che queste due figure non siano sempre la stessa persona. Ogni giorno un italiano diverso prende consapevolezza dell’incredibile ritardo dell’altra metà della popolazione. Ma non è così: sia nella nostra rete privata sia nei nostri riferimenti pubblici ogni giorno sembriamo riscoprire che no, non siamo tutti fini intellettuali capaci di astrarsi dai propri fallaci sensi. Che l’Italia è un paese maschilista. Che non tutti intorno a noi si comportano bene. Che le persone – gli altri! – non capiscono quello che leggono, prendono alla lettera l’ironia, credono a bufale spaventose, rispondono o commentano senza aver colto il punto, non distinguono tra informazione e comunicazione, pagano cifre spropositate oggetti o servizi inutili o grotteschi, passano il tempo a spettegolare, fotografarsi, fotografare (male) quello che mangiano, vedono, fanno. Tutto vero, ma tutto già noto. Non siamo improvvisamente peggiorati ieri e neanche l’anno scorso e neanche cinque anni fa e tantomeno da quando c’è Internet, Facebook o l’iPhone.
Un esempio per tutti: conosciamo, studiamo e misuriamo l’analfabetismo funzionale da decenni, ma sembriamo riscoprirlo ogni giorno senza capire la relazione tra l’enorme percentuale di italiani coinvolta e i comportamenti assurdi che ci circondano. In più sembriamo voler ignorare che la definizione completa non si limita a descrivere una persona incapace di capire quello che legge, ma che per “literacy” si intende “l’interesse, l’attitudine e l’abilità degli individui ad utilizzare in modo appropriato gli strumenti socio-culturali, tra cui la tecnologia digitale e gli strumenti di comunicazione per accedere a, gestire, integrare e valutare informazioni, costruire nuove conoscenze e comunicare con gli altri, al fine di partecipare più efficacemente alla vita sociale.” Forse l’analfabeta funzionale siamo noi. Lo siamo sicuramente quando ci riteniamo al di sopra di ogni influenza, perfettamente padroni dei nostri pensieri: come spiega bene il docente di marketing Jonah Berger in “Influenza invisibile” (Egea) è impossibile non essere influenzati dal contesto, ma nessuno riesce a vederlo per sé, solo per gli altri:
Sottovalutiamo quanto l’influenza sociale condizioni il nostro comportamento perché non ce ne rendiamo conto. Quando cerchiamo delle prove del fatto che l’influenza sociale abbia condizionato il nostro comportamento, spesso non ne vediamo alcuna. Non siamo consapevoli di essere stati influenzati in un modo o nell’altro, così presupponiamo che non sia successo. Ma la mancata consapevolezza dell’influenza non significa che non ci sia stata.
Ecco così, per esempio, che viviamo in un perenne stato d’allarme per il ricorso a terapie non convenzionali e pseudoscientifiche in un mondo che vede la diffusione delle medicine alternative in costante calo da almeno quindici anni. Che pensiamo di vivere nel peggior momento della storia possibile, negando ogni statistica a nostra disposizione. Che passiamo la giornata a bacchettare uscite infelici e stupidari vari come giganteschi criceti su una ruota che non ci porterà mai da nessuna parte. Siamo influenzati non solo dal contesto, ma anche dalla convinzione della nostra superiorità intellettuale. Questo vale per tutti e chiaramente non può essere vero per tutti. Il timore è che il problema sia più chi scopre le mancanze altrui ogni giorno, non ritenendo di poter o dovere fare un passo in più che non sia indignarsi, lamentarsi, biasimare. Il mio incubo personale è che non so se è meglio essere ignorante o saputella, analfabeta o sentenziosa.
Quello che colpisce e spaventa è che se davvero vogliamo dividere il mondo in due, una metà vittima di mille raggiri, l’altra metà che scuote la testa, è la metà che scuote la testa che dovrebbe, a un certo punto, prendere atto della situazione e agire per cambiarla. Non per far cambiare idea, uno a uno, a chiunque altro (è ampiamente dimostrato che questo è inutile se non controproducente). Quello che dovremmo fare è cambiare direttamente la realtà in cui viviamo, producendo per esempio quelli che il giornalista e regista di documentari Alberto Puliafito definisce contenuti-anticorpo: “se si diffonde una narrazione tossica non ha senso contrastarla direttamente e sul breve periodo. La velocità è nemica del pensiero critico e ti fa perdere un sacco di energie, in maniera scomposta. Bisogna, invece, prendersi del tempo e produrre contenuti che durino e che siano utili anche dieci anni dopo, che ci rendano immuni sul lungo periodo, agire sul piano culturale, far sedimentare e consolidare la conoscenza.”
Siamo influenzati non solo dal contesto, ma anche dalla convinzione della nostra superiorità intellettuale.
Contenuti e comportamenti, ovviamente. Invece di lamentarci del crollo delle vendite dei libri, possiamo parlare di libri belli che abbiamo letto. Invece di deridere le mamme pancine o le persone che si rendono involontariamente ridicole possiamo andare a caccia di chi, ogni giorno, fa e racconta qualcosa di interessante, di utile, di commovente. Oppure scoprire con quanta forza e in che modo le nuove generazioni stanno dicendo agli adulti che un altro mondo è possibile. Invece di perdere tempo in infinite schermaglie, possiamo spiegare il nostro punto di vista in un lungo articolo o almeno in un nuovo post; parlare di chi fa bene, concentrarci sui migliori, sulle soluzioni, sui prezzi che scendono, sulle malattie che scompaiono, sugli attentati sventati, su quello che potremmo fare con la tecnologia usata bene.
Il bellissimo saggio di Claudio Paolucci “Umberto Eco. Tra ordine e avventura” può aiutarci a dare forma a questo impegno: è arrivato il momento di dare seguito, decenni dopo, alla chiamata alle armi di Umberto Eco, magari iniziando con il chiarire l’equivoco della distinzione tra apocalittici e integrati. Spiega Paolucci: “Gli integrati sono i produttori di prodotti culturali destinati alle masse a fini di controllo e di conservazione. Gli apocalittici ne sono i censori, senza che essi facciano però nulla per migliorare la situazione. (…)Per questo “apocalittici” e “integrati” sono innanzitutto due etichette che definiscono un differente atteggiamento degli intellettuali nei confronti del loro stesso lavoro, che Eco giudicava in entrambi i casi del tutto insoddisfacente. Per questo occorreva uscire dalla contrapposizione stessa. Come prendere allora la linea di fuga?”
Oggi più che mai gli intellettuali – o, estendendo il ragionamento, gli autodichiarati “alfabeti” – sono equamente distribuiti tra profeti dell’Apocalisse e ingranaggi del sistema. Oggi più che mai l’impegno di Eco per la “guerriglia semiologica”, è attuale e necessario, basta rileggere questo passaggio da “Il costume di casa. Evidenze e misteri dell’ideologia italiana negli anni Sessanta” (Bompiani 1973, tradotto, pare un’incredibile coincidenza, con il titolo Faith in Fakes):
Bisogna occupare, in ogni luogo del mondo, la prima sedia davanti ad ogni apparecchio televisivo (e naturalmente: la sedia del leader di gruppo davanti ad ogni schermo cinematografico, ad ogni transistor, ad ogni pagina di quotidiano). Se volete una formulazione meno paradossale, dirò: la battaglia per la sopravvivenza dell’uomo come essere responsabile nell’Era della Comunicazione non la si vince là dove la comunicazione parte, ma là dove arriva.
Siamo ancora in tempo a riprendere in mano la comprensione della Comunicazione in arrivo? Possiamo impegnarci per smontare i codici, invece che per additare chi li subisce? Per svelare i meccanismi alla base delle fake news invece di chiederne conto alle piattaforme su cui noi stessi le diffondiamo? Per l’ultimo Eco, come ampiamente noto, no, per Paolucci nemmeno: “sebbene la struttura peer to peer dei social media dia oggi maggiori chance a una guerriglia semiologica, la mancanza di consapevolezza semiotica nel combatterla la fa di fatto perdere in partenza.” Ed è qui che dobbiamo farci la domanda definitiva e cioè se vogliamo davvero vivere nella rete dell’eterno presente, senza memoria, o se è arrivato il momento di scendere dalla ruota e cominciare ad andare nella direzione in cui vorremmo andassero gli altri.