P ubblichiamo l’introduzione del curatore Elias Jahshan e la prefazione dell’autorə del Tascabile Sandra Cane ad Arabə e queer, una raccolta di contributi, tradotti da Giorgia Sallustri, che raccontano la costellazione di esperienze delle comunità queer all’interno dinamiche familiari, sociali, politiche e di fede nel mondo arabo contemporaneo.
In Arabə e queer diciotto artistə condividono una storia personale che tengono vicino al cuore, quella storia che non ha mai trovato il giusto spazio per essere raccontata, fino a ora. Questa rivoluzionaria antologia sovverte gli stereotipi e innalza le voci di coloro che si identificano nello spettro Lgbtq+ – lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer e non binarie – e che provengono da undici paesi arabi, sia da Golfo, Levante e Nord Africa sia dalla diaspora (come persone immigrate, di seconda generazione o arrivate più di recente come rifugiate). Questi scritti affermano la nostra esistenza e la nostra capacità di agire come comunità, e celebrano le nostre diverse esperienze. Qui, chi legge troverà storie di amore e orgoglio, cuori infranti ed empatia, coraggio e ironia. Questo è uno spazio in cui il microfono è interamente in mano a chi scrive. E per quanto ne sappia, è la prima raccolta di questo tipo.
Moltə lettorə sapranno che la maggior parte dei paesi arabi criminalizza l’omosessualità, a livelli diversi a seconda del paese. In Egitto, la recente repressione della polizia nei confronti delle persone queer ha portato ad arresti e, a volte, torture. In Libano, le leggi contro l’omosessualità generalmente non sono applicate, permettendo a una visibile comunità queer di prosperare nella capitale. In alcuni paesi come la Giordania e la Palestina (con l’eccezione della Striscia di Gaza) l’omosessualità non è un crimine, anche se le leggi che proteggono la comunità dalle discriminazioni sono praticamente inesistenti. In altri stati, invece, come Arabia Saudita, Yemen e in alcuni casi Emirati Arabi Uniti e Iraq, l’omosessualità è punibile con la morte.
È interessante notare che molte di queste restrizioni derivano da leggi coloniali europee che abbiamo ereditato e che sono emanazione di una moralità di stampo cristiano. Quando l’Occidente parla di omofobia nel mondo arabo o all’interno delle comunità della diaspora mondiale, si concentra su come l’islam o le convenzioni tradizionali arabe siano la radice dell’ostilità verso le persone arabe Lgbtq+, che è un approccio essenzialista e semplicistico. D’altro canto, le norme patriarcali sono profondamente integrate nella cultura araba e costituiscono una ragione importante della discriminazione dilagante, della criminalizzazione e del profondo stigma culturale verso le persone queer.
Come scrittore arabo e giornalista gay, nel mio lavoro da editor di Star Observer, la più longeva pubblicazione queer australiana, ho osservato che le testate occidentali si focalizzano spesso su notizie sensazionalistiche. Esempi noti sono gli uomini gay lanciati dal tetto durante il regno di terrore di Daesh in Siria e in Iraq, o gli attacchi omofobi in Marocco dopo che l’influencer di Instagram Sofia Taloni aveva invitato i suoi follower a usare app di incontri gay per localizzare e fare outing alle persone gay. Il problema non è che queste notizie siano pubblicate, ovviamente, ma che i media sembrano prestare attenzione soltanto alle storie negative, e di rado si confrontano direttamente con le voci arabe.
In stati come Arabia Saudita, Yemen e in alcuni casi Emirati Arabi Uniti e Iraq, l’omosessualità è punibile con la morte. Molte di queste restrizioni derivano da leggi coloniali europee che abbiamo ereditato.
Tuttavia, un numero sempre maggiore di persone arabe Lgbtq+ si sta facendo avanti per raccontare la propria storia di vita queer. Si tratta di storie complesse che vanno oltre la narrazione comune di discriminazione di stato o di omofobia e transfobia della famiglia.
Mentre la produzione di una scrittura araba queer in lingua araba è limitata, soprattutto a causa dei di vieti governativi e della censura, in Occidente non è un fenomeno recente. A partire dagli anni ’90 abbiamo avuto la fortuna di leggere lavori straordinari scritti da e a proposito di persone arabe queer. Per citarne solo alcuni: il pionieristico Koolaids: The Art of War (1998) di Rabih Alameddine, L’esercito della salvezza (2006) di Abdellah Taïa, Ultimo giro al Guapa (2016) di Saleem Haddad, The Clothesline Swing (2017) di Danny Ramadan, The Philistine (2018) di Leila Marshy, Life as a Unicorn (2019) di Amrou Al-Kadhi e The Thirty Names of Night (2020) di Zeyn Joukhadar – o lavori più recenti come quelli di Zeina Arafat (You Exist Too Much, 2021) o Randa Jarrar (Love Is an Ex-Country, 2021), Omar Sakr (Son of Sins, 2022) e Fatima Daas (La più piccola, 2022). Queste voci possono non essere sempre visibili nei periodici mainstream, ma stanno diventando sempre più prolifiche.
Si chiede spesso alle persone arabe Lgbtq+ com’è possibile essere queer nella nostra cultura. Ci si aspetta che siamo noi a spiegare i modi in cui l’omofobia mette a dura prova il nostro percorso di coming out, se decidiamo di intraprenderlo. La domanda insinua che le persone arabe non abbiano la capacità di essere progressiste, oltre a limitare la possibilità di raccontare le nostre storie alle nostre condizioni. In Arabə e queer ci riappropriamo della narrazione e dimostriamo che possiamo tranquillamente essere entrambe le cose, progressistə e queer.
In questo libro emergono alcuni temi che sono al centro di molte esperienze vissute da persone arabe queer, come i coming out, il sentirsi ingabbiati in un’identità, cosa significhi essere invisibile o averne viste troppe. L’importanza dell’amicizia, della famiglia e della comunità si comprende più chiaramente quando è letta insieme agli scritti sull’esilio e la solitudine, come in Questo testo è un documento molto solo di Dima Mikhayel Matta, che articola con così tanta eloquenza la solitudine e il ruolo che essa gioca nel percorso di una persona libanese non binaria; o il testo di Madian Al-Jazerah E poi arrivò la speranza, che esplora quel particolare struggimento dell’uomo gay palestinese che ha tre diaspore alle spalle – dalla Palestina al Kuwait, alla Giordania, agli Stati Uniti. In Ritratto d’artista di un uomo marginalizzato, Danny Ramadan indaga quale ruolo giochino l’identità culturale e la sessualità all’interno della sua scrittura, esplorando il viaggio irto di difficoltà dello scrittore marginalizzato che è costretto a rappresentare nel suo lavoro un’intera comunità, mentre gli è negata la licenza artistica di concentrarsi su personaggi la cui vita non è una copia carbone della sua.
Insieme, questi lavori di pingono un ritratto di cos’è la queerness oggi nel Medio Oriente e nella diaspora. In effetti si può dire che tutti i testi raccolti in Arabə e queer puntano a questo. Mentre alcunə scrittorə pubblicati in questo libro vivono in Medio Oriente, la vita di altrə si dipana altrove. Il risultato è che questa antologia viaggia attraverso lo spazio e il tempo, da Baghdad a Vancouver, Lisbona, Dubai, Belgrado, La Mecca, New York – toccando ospedali, scuole, teatri dell’opera, case dei sobborghi di Sydney, arene da concerto del Cairo, librerie di Cipro, e camere da letto, balconi, festival letterari, vicoli in rovina intorno ai silos del porto di Beirut e scenari lussureggianti del Nilo Azzurro. Alcuni racconti saltano da un luogo all’altro, come Pellegrinaggio d’amore di Ahmed Umar, che rivisita gli anni della sua formazione in Arabia Saudita e in Sudan offrendo al lettore uno sguardo intimo e unico su cosa significa crescere queer nella penisola arabica e in Nord Africa.
Si chiede spesso alle persone arabe Lgbtq+ com’è possibile essere queer nella nostra cultura. La domanda insinua che le persone arabe non abbiano la capacità di essere progressiste, oltre a limitare la possibilità di raccontare le nostre storie alle nostre condizioni.
Alcuni testi, come quello di Amina (pseudonimo), Agosto, settembre e mia madre, trattano di eventi le cui conseguenze sono state avvertite in tutto il mondo. In questo caso Amina ci presenta una rara testimonianza dei fatti reali legati alla tragica morte di Sarah Hegazi, e dell’impatto che hanno avuto su di lei in quanto parte della comunità queer egiziana. Intrecciando la storia personale con un contesto sociale più ampio, Amina offre ai lettori un senso di solidarietà e speranza, e nel farlo rende omaggio a Sarah. Altrə scrittorə si concentrano sulle esperienze a porte chiuse, sulle vicende private della famiglia. In Conversazioni mai avvenute Anbara Salam esamina il silenzio che avvolge i tabù nelle famiglie arabe, e come la nostra sessualità può diventare l’elefante nella stanza durante le riunioni di famiglia. In Ballando come Sherihan Hasan Namir scrive dei suoi numerosi coming out come gay iracheno, e dell’amore e della lealtà delle sue sorelle e della nuova cognata, che si offre come madre surrogata per il bambino di Hasan e del marito.
Molti di questi scritti esprimono le complesse e va riegate relazioni con i genitori, e come l’importanza della famiglia venga inculcata fin dall’infanzia. Amoru al-Kadhi, in Hai fatto di me il tuo mostro, racconta come i bambini arabi siano considerati un’estensione dei propri genitori – non individui con una propria volontà – e rivela quali complicate dinamiche familiari ne scaturiscano.
Allo stesso tempo, i testi sono permeati dall’importanza della famiglia, dal desiderio istintivo di ricercarne l’approvazione e l’accettazione. Ciò è forse più che mai evidente nel racconto di Raja Farah Il figlio cattivo, incentrato su un figlio devoto che è il primo a farsi carico del lavoro di cura, anche se con risentimento, verso un padre aggressivo e ipermascolino. Non stupisce che i sacrifici del figlio per la famiglia abbiano un profondo impatto sulla sua vita sentimentale. La ribellione contro un genitore, perfino contro un’intera cultura, è portata avanti sia nel privato sia in pubblico. Molti di questi contributi arrivano infatti da persone non estranee a esporsi pubblicamente. In «My Kali» – digitalizzare un futuro arabo queer, Khalid Abdel-Hadi narra nei dettagli le difficoltà che ha dovuto affrontare come fondatore e caporedattore di My Kali, la più longeva testata queer araba, e come lui stesso e la sua sessualità siano stati resi pubblici dai media giordani e dal governo.
Parlare apertamente va a braccetto con l’essere visti e ascoltati: di questo scrive Hamed Sinno nella sua riflessione sul potere della voce in Trio. Sinno evidenzia il ruolo che gioca la propria voce nel trasgredire le norme sociali e le convenzioni in pubblico. Dalla musica contemporanea alla classica: in Catturare la luce. Rivendicare l’opera come arabə trans, Zeyn Joukhadar spiega come il suo percorso di persona trans lo abbia fatto nuovamente innamorare dell’opera. Zeyn approfondisce anche come nella sua esperienza i confini di classe si intersecano con l’identità trans attraverso la disamina dei più importanti (e orientalisti) lavori e spazi del mondo operistico. Molti di questi lavori mettono in luce la consapevole esistenza trasgressiva delle persone arabe queer, orgogliose di una comunità che non ha paura di spingersi oltre i limiti, mostrando che tali trasgressioni sono necessarie per farci evolvere e progredire.
Tutte queste opere intrecciano il personale e il politico – e come potrebbe essere altrimenti? Alcunə autorə affrontano gli spazi dove politica e sessualità s’incontrano in maniera diretta. In Il decennio in cui ho detto tutto quello che non potevo dire Mona Eltahawy ritorna alla rivoluzione egiziana del 2011, che ha deposto Hosni Mubarak. Eltahawy ci mostra come un evento traumatico accaduto in quel periodo sia servito in qualche modo a risvegliarla sia come femminista sia come donna queer e poliamorosa che ha fatto coming out dopo i quarant’anni. Amna Ali, in Bullizzata dalla mia intersezionalità, analizza coraggiosamente le sfide di crescere queer, araba e nera in una società che nega il proprio razzismo ed è apertamente e comodamente omofoba. Nel suo testo di cruciale importanza, Amna scende nei dettagli degli anni della sua crescita nel Golfo, mentre dall’altra parte del mondo Tania Safi analizza, in Appuntamenti con le bianche, il modo in cui lei stessa ha interiorizzato il razzismo della comunità lesbica australiana, al punto che suo fratello si chiede se lei stessa non sia per caso una suprematista bianca.
Molti di questi lavori mettono in luce la consapevole esistenza trasgressiva delle persone arabe queer, mostrando che tali trasgressioni sono necessarie per farci evolvere.
Naturalmente non può esistere una raccolta incentrata sulla sessualità che non parli anche di sesso, compresi gli stigmi, la vergogna e la gloria. In Pellegrinaggio d’amore Ahmed Umar ricorda la paura provata dopo che un insegnante di religione aveva esposto la sua interpretazione della rabbia di Dio contro gli omosessuali e quali punizioni andassero inflitte a chi pratica relazioni tra persone dello stesso sesso; mentre Madian Al-Jaze rah, in E poi arrivò la speranza, racconta con tristezza e ironia le rassicurazioni cieche ed esplicite della madre per la quale solo i bottom sono gay in una coppia dello stesso sesso. A volte il sesso è inestricabilmente legato allo humor, pizzico di razzismo a parte: è il caso di Cacciatori di trofei, white saviour e Grindr, in cui l’autorə, che ha scelto di restare anonimə, descrive i momenti più imbarazzanti degli appuntamenti avuti quando viveva negli Stati Uniti.
I tabù sul sesso prematrimoniale intensificano il desiderio di farne esperienza per chi è costretto a rimandare, pianificare e nascondere i rapporti sessuali. Abbiamo estremamente bisogno di sex positivity nelle nostre comunità arabe, e possiamo trovarla qui, dove la gioia, l’importanza del sesso e la scoperta di sé coincidono.
Omar Sakr conclude la raccolta con Tweet a un poeta arabo queer, una silloge poetica di tweet in conversazione con Adonis, che serve a ispirare e incoraggiare noi arabə queer a celebrare chi siamo e a esplorare i nostri desideri.
Talvolta la celebrazione e il cordoglio diventano una cosa sola: Saleem Haddad in Ritorno a Beirut lamenta la perdita della sua terra natia e quello che essa rappresenta dopo l’esplosione al porto di Beirut, mentre compiange una storia d’amore che si è brevemente riaccesa. Ma, allo stesso tempo, Haddad mostra l’agency che abbiamo quando mettiamo radici in un luogo e in un momento di nostra scelta.
Nessuno di questi lavori parla direttamente a un’identità araba queer: ma laddove lo fanno, vengono sollevate tante domande e suggerite altrettante risposte. Questo perché la pluralità delle esperienze mostra senza dubbio che non può esserci un’unica misura per tuttə – non esiste una formula di vita come persona araba queer. Eppure questa raccolta vuole essere d’ispirazione a immaginare un futuro luminoso per la comunità araba queer e per la possibilità di amare nonostante lo stigma che subiamo.
La pluralità delle esperienze mostra senza dubbio che non può esserci un’unica misura per tuttə – non esiste una formula di vita come persona araba queer.
La mia speranza è che Arabə e queer sia un passo verso uno spazio sicuro per la conversazione e la legittimazio ne, e verso un clima diverso tra le comunità Lgbtq+. Se questo libro diventerà il primo di tanti altri a mettere al centro le esperienze arabe queer, e incoraggerà un dialogo più ampio con la scrittura araba queer, allora avrà compiuto la sua missione. Mi auguro di scoprire la miriade di storie uniche che aspettano solo di essere raccontate.
Elias Jahshan
Come leggere le storie personali raccolte in Arabə e queer senza cadere nelle trappole della diversità culturale, dell’orientalismo e dell’omonazionalismo? Per un* let tor* italian* il rischio è di appiattire le soggettività queer arabofone su un immaginario esotizzante e idealizzato basato su stereotipi falsi e negativi e su banali binarismi – come Occidente e Oriente, progresso e tradizione – senza tenere conto di come il colonialismo e la globalizzazione di economie e culture abbiano avuto e continuino ad avere un impatto sullo sviluppo di desideri, comunità e individui. Per questo c’è la tendenza a sostenere che nei paesi non occidentali categorie come gay, lesbiche e trans siano straniere e imposte, o a ricercare pratiche sessuali e di genere non normative, apparentemente autentiche, che si dice siano state rese invisibili dal colonialismo.
È necessario ovviamente evidenziare il ruolo fondamentale che la modernità coloniale ha svolto nell’imporre una visione bianca e binaria del genere e un’eterosessualizzazione del desiderio in quello che oggi chiamiamo Sud del mondo. Tuttavia, è importante notare come nazioni, culture e società non siano concetti delimitati e stabili o ermeticamente isolati da influssi esterni, e interrogarsi su come la globalizzazione e il capitalismo neoliberista abbiano plasmato e rimodellato soggettività e comunità. La queerness è oggi un’idea transnazionale, che riguarda sempre culture e storie locali ma anche la loro posizione nel contesto globale, superando l’assunto di un’alterità culturale tra soggettività occidentali e non occidentali.
Proprio questo presupposto riduce le identità alla mera diversità e a una differenza idealizzata e immaginaria, con il pericolo di riprodurre visioni razziste e feticizzazione, mentre i corpi, le tecnologie, le storie e le genealogie viaggiano, si traducono e si risignificano in un assemblaggio frammentato e complesso in cui specificità geopolitiche, economiche e sociali si mescolano a imperialismo culturale, flussi migratori globali, ineguaglianze e oppressioni neocoloniali, a guerra e devastazione. È utile allora pensare alla queerness come a una decostruzione di un modello di identità globale fisso e determinato, verso una riorganizzazione e un’immaginazione del desiderio più fluide, transnazionali e geograficamente localizzate. In questo modo diventa possibile contrapporsi sia all’assimilazione capitalizzata di specifiche soggettività sotto la sigla Lgbt sia alle narrazioni razziste, orientaliste e islamofobe che vedono nell’Occidente e nella bianchezza il centro del progresso e della modernità da esportare e imporre. Significa inoltre mettere in discussione il binarismo tra un centro e un margine del mondo e le dinamiche di potere che questo si porta inevitabilmente dietro.
La queerness è oggi un’idea transnazionale, che riguarda sempre culture e storie locali ma anche la loro posizione nel contesto globale, superando l’assunto di un’alterità culturale tra soggettività occidentali e non occidentali.
Penso che sia importante allora avvicinarsi all’antologia Arabə e queer con questo approccio per cogliere la complessità dell’esistenza queer araba e dei suoi contesti – dall’Asia Sudoccidentale al Nord Africa e alla diaspora – e cercare di comprenderne la varietà di esperienze. Ma come fornire una definizione di queerness araba che non ricada nelle usuali narrazioni mediatiche di discriminazione, omofobia e transfobia e allo stesso tempo non ne renda un ritratto idealizzato? Esiste una rilevante letteratura teorica araba che può aiutarci a riflettere criticamente sull’intersezione di queste due categorie identitarie. In particolare Mejdulene Bernard Shomali, poeta queer palestinese e docente di gender, women’s, and sexuality studies presso la University of Maryland Baltimore County, in Between Banat: Queer Arab Critique and Transnational Arab Archives, definisce l’arabo come un’identità transnazionale che più che descrivere specifiche pratiche culturali o popolazioni indica una relazione tra persone e culture condivise attraverso molteplici contesti diversificati. Per la studiosa, le soggettività arabe sono state influenzate dall’orientalismo, dal colonialismo, dal nazionalismo patriarcale e dall’eteronormatività e sono specificamente costruite attraverso il genere e la sessualità. In diverse nazioni arabe, così come nella diaspora, molti discorsi normativi e patriarcali sul genere e la sessualità si basano su una cultura “tradizionale” e su presunti valori precoloniali nel tentativo di ristabilire un autentico soggetto arabo.
In questo modo pratiche sessuali e di genere non normative vengono invisibilizzate, stigmatizzate o intrappolate all’interno di binarismi, come quello tra Occidente e Oriente, da una parte limitando le possibilità di autodeterminazione di persone queer arabe nella società, ma dall’altra offrendo uno spazio alternativo di traduzione e costruzione delle proprie identità. Così in alcuni casi vengono rivendicate categorie identitarie come gay, lesbiche, mentre in altri i desideri e le pratiche sessuali vengono organizzati in modalità che non sono facilmente leggibili secondo queste etichette e nemmeno nelle articolazioni eteronazionaliste della sessualità araba. La queerness araba appare prodotta dall’esplorazione e dalla contestazione delle intersezioni transnazionali e delle interazioni tra forme di genere e sessualità locali e globali, arabe e non arabe. Per Shomali questo permette una riformulazione della definizione stessa di queerness come resistenza critica e politica non solo alle culture arabe eteronormative, ma anche alle categorie Lgbt basate su una lettura occidentale e bianca delle stesse.
Centrale nel discorso occidentale e omonazionalista sulle soggettività queer arabe è la loro “liberazione” da una società retrograda e intrinsecamente queerfobica; questa avverrebbe attraverso l’imposizione o l’adozione pedissequa di diritti, pratiche e concetti, come quelli di pride e coming out, senza comprendere le specificità regionali dei diversi contesti e delle soggettività, creando effetti dannosi non solo a livello personale, ma anche socio-politico. Per la studiosa Dina Georgis, infatti, le persone queer arabe, come molte soggettività postcoloniali, vivono la condizione di dover negoziare tra mondi, attraverso articolati e
instabili strati di identificazione e appartenenza. Proprio per questo, la dimensione domestica e familiare, che occupa una posizione centrale nello sviluppo della socialità in diversi contesti arabofoni, assume un ruolo materiale e simbolico nella definizione delle soggettività queer arabe. In questa antologia molt* autor* si interrogano su come poter vivere un’esistenza queer allo scoperto in società patriarcali ed eteronazionaliste e allo stesso tempo mantenere i legami affettivi con la famiglia, e su quali modalità di negoziazione siano in grado di adottare tra bisogno di visibilità e riconoscimento e senso di appartenenza familiare e comunitaria.
Analizzando la comunità queer in Libano Georgis spiega come, a differenza delle strategie politiche dell’orgoglio e della visibilità, nelle loro esistenze le soggettività queer arabe si inventano e costruiscono anche attraverso la vergogna e l’anonimato, non in spregio ai legami familiari, ma come risposta riparativa a questi. Non significa che nelle comunità non ci siano discorsi legati al pride e ai diritti, ma per Georgis è possibile resistere alla scelta tra la famiglia e la “tradizione” e la “modernità” della vita queer, eludendo questo apparente binarismo. La queerness araba non è un’identità, ma un divenire attraverso modi differenti di vivere, vedere e conoscere esplorando collettività variegate e complesse, che percorrono molteplici spazi e tempi, nei paesi arabi e nella diaspora. È un rifiuto di appartenere sia alle definizioni queer occidentali sia alle modalità di esistenza eteronazionaliste e patriarcali arabe; è un invito a disfare e ripensare queste categorie e orientamenti e, come scrive Sophie Chamas, lecturer in gender studies alla Soas University di Londra, “è un richiamo all’importanza politica di creare mezzi discorsivi attraverso i quali le persone arabe queer possano non solo esprimere sé stesse, ma anche vedere sé stesse negli altri”.
La queerness araba non è un’identità. È un rifiuto di appartenere sia alle definizioni queer occidentali sia alle modalità di esistenza eteronazionaliste e patriarcali arabe.
Questa dimensione politica è essenziale per dare ulteriore tridimensionalità alle soggettività queer arabe. L’esistenza di movimenti queer in diverse regioni arabofone e in diaspora, come AlQaws in Palestina o Meem in Libano, da una parte permette di confutare la narrazione occidentale che vuole le persone queer arabe sempre e solo vittime di una società omofoba e patriarcale, e dall’altra mette in luce spazi di trasformazione, di appartenenza a una lotta politica collettiva e di ripensamento del sé in comunità di fronte a forme diverse di violenza e oppressione. La lotta politica queer è una lotta intersezionale, e la queerness araba dimostra l’importanza del genere e della sessualità per opporsi a un sistema neoliberale, patriarcale, coloniale globale e per costruire legami transnazionali di solidarietà dirompenti e nuovi. Per questo Arabə e queer è uno strumento importante per l* lettor* italian* per comprendere, imparare e ripensare il concetto di queerness attraverso la voce diretta di scrittor* arabofon* e le loro esperienze individuali e collettive.
Sandra Cane