C ome molti suoi coetanei sudcoreani, anche Young Jin Chun a un certo punto della sua vita è stato costretto a scegliere tra prestare servizio di leva obbligatoria o finire in carcere. La differenza tra l’autore di The Accidental Citizen-Soldier e i suoi coetanei è che lui ha passaporto statunitense, ha vissuto quasi tutta la vita negli Usa e parla a malapena il coreano, benché le origini della sua famiglia siano nella penisola divisa tra il Nord della dinastia rossa dei Kim e il Sud capitalista e filo-occidentale. Quando nel 2002 Young Jin Chun ricevette la lettera per la chiamata alla leva, si trovava in Corea del Sud da poco tempo, arrivato nel Paese con l’intento di insegnare l’inglese per un breve periodo. Per il governo sudcoreano era nato a Seul, città in cui in verità era stato soltanto da bambino per assistere ai Giochi olimpici. A nulla è servito cercare di dimostrare di essere nato nell’Illinois, né aver provato a entrare nell’esercito statunitense: si è dovuto arruolare, finendo addirittura in servizio in Afghanistan. Il caso limite che racconta nel suo libro fa emergere le storture del sistema della leva obbligatoria in Corea del Sud.
Tutti gli uomini dai 18 ai 35 anni devono prestare servizio militare per un massimo di 24 mesi. Una volta terminata la leva, per i successivi otto anni i giovani sudcoreani devono passare sotto le armi altre 160 ore come riservisti. Anche per questo, chiunque abbia incontrato all’estero studenti sudcoreani ha notato la propensione a cercare di stare lontani dalla Corea il più a lungo possibile. La legge sul servizio militare si inserisce in uno scenario di conflitto latente con il Nord. Le due Coree sono ancora tecnicamente in guerra, non essendoci mai stato un trattato di pace dopo il conflitto del 1950-1953, ma soltanto un armistizio.
Attualmente, denuncia Amnesty International, sono almeno 600 gli obiettori di coscienza in carcere. La renitenza alla leva può costare fino a tre anni di pena. Di solito le condanne sono intorno ai diciotto mesi; per chi invece cerca di sfuggire al servizio di riservista, la legge prevede multe che possono arrivare all’equivalente di diverse decine di migliaia di euro. Un ricorso presentato da un testimone di Geova al comitato Onu per i diritti umani denunciava come gli obiettori che non riescono a pagare le multe siano costretti a svolgere lavori socialmente utili all’interno delle carceri.
Attualmente, denuncia Amnesty International, sono almeno 600 gli obiettori di coscienza in carcere. La renitenza alla leva può costare fino a tre anni di pena.
A complicare il tutto, nel Paese mancano alternative valide per chi si dichiara obiettore: alcune di queste ricordano la naja stessa. Si può scegliere di prestare servizio nella polizia oppure tra i vigili del fuoco. Altre eccezioni favoriscono i laureati in ingegneria, che possono puntare su istituti di ricerca. All’interno del Ministero della Difesa sta però prendendo piede una corrente decisa a imporre una stretta anche a queste soluzioni. Ogni anno sono infatti esentati circa ventottomila ragazzi e tra le file dei militari sudcoreani inizia a covare il timore che, considerati i trend demografici del paese, già nel 2023 le Forze armate potrebbero avere carenza di personale attorno alle ventimila unità.
Gli episodi di tensione con il Nord d’altra parte non sono mancati. Dall’affondamento della corvetta Cheonan nel marzo 2010, costato la vita a 46 marinai sudcoreani, al bombardamento dell’isola di Yeonpyeong nel novembre dello stesso anno, passando per i due test nucleari condotti dal giovane dittatore Kim Jong-un, fino all’incidente dell’agosto 2015, quando una mina anti-uomo esplose sul lato sudcoreano della zona demilitarizzata, al confine tra le due Coree, innescando una delle più gravi crisi tra i due paesi.
Anche la stampa si è dedicata alle scappatoie cui i giovani sudcoreani ricorrono per evitare il militare, come farsi tatuaggi vistosi che, essendo associati alla criminalità, diventano un modo per essere considerati non idonei a servire il paese. Le tensioni tra le Coree scatenate dal quarto test nucleare, condotto dal regime a gennaio del 2016 in spregio alle risoluzioni delle Nazioni Unite, hanno riacceso il dibattito sulla renitenza alla leva. Le critiche si sono concentrate sui sudcoreani all’estero che cercano di prolungare la permanenza fuori dai confini. Almeno dal 2011 è stato inoltre registrato un aumento dei casi di persone che scelgono di rinunciare alla nazionalità sudcoreana.
“Il governo deve imporre regole rigide e svantaggi economici contro chi decide di rinunciare alla propria nazionalità o decide di trattenersi a lungo all’estero per evitare la coscrizione”, scriveva il 15 settembre 2015 il Korea Times, un mese e mezzo dopo l’incidente della mina anti-uomo. “L’esecutivo dovrebbe rendere impossibile riottenere la cittadinanza e restringere le attività concesse in alcune aree”. Il quotidiano andava anche oltre, facendone quasi una questione di classe: i giovani che possono vivere all’estero per scongiurare la chiamata sotto le armi lo possono fare perché ricchi.
I giovani sudcoreani, per evitare il militare, ricorrono a soluzioni drastiche, come farsi tatuaggi vistosi che, essendo associati alla criminalità, diventano un modo per essere considerati non idonei a servire il paese.
Anche senza l’inasprimento delle pene, la condanna per gli obiettori è comunque a vita, scriveva Amnesty in un rapporto del 2015 intitolato, non a caso, “A life sentence from birth”. Il documento raccoglie le testimonianze di diversi ragazzi trattati alla stregua di criminali per essersi rifiutati di prestare servizio militare, per motivi religiosi o di coscienza. Tra i vari intervistati spicca il nome di Lee Yeda, il primo sudcoreano richiedente asilo in Francia e il primo a vedersi riconosciuto lo status di rifugiato perché obiettore. Convertitosi da adolescente alla causa del pacifismo dopo aver letto Buddha, il manga di Osamu Tezuka, nonché autodidatta riguardo gli abusi e le violenze tra le file dell’esercito, divenne renitente alla leva nel 2012.
Due anni dopo tale scelta, lo scandalo provocato dalla morte di un soldato vittima di nonnismo, alcuni casi di suicidio e scontri a fuoco tra commilitoni hanno riacceso la discussione sul machismo, sulla cultura dell’abuso e sul clima di intimidazione diffuso nelle forze armate. Rifiutarsi di andare sotto le armi può però ancora diventare una sorta di stigma sociale, sebbene a livello giudiziario qualcosa si stia muovendo.
“In diversi casi, alcuni tribunali di grado inferiore hanno emesso sentenze che riconoscevano l’obiezione di coscienza, tre dei quali nel 2015”, ricorda l’associazione per la tutela dei diritti umani nel suo ultimo rapporto. Una modifica della legge sul servizio militare e il suo decreto applicativo permettono tuttavia di rendere pubbliche in rete le informazioni su coloro che rifiutano di prestare il servizio militare senza motivazioni giustificabili, “con il rischio di causare possibili violazioni dei diritti alla libertà di pensiero, di coscienza e religione, alla riservatezza e alla libertà dalla discriminazione”.