N el 2015 l’isola di Lesbo, che ha circa 86.000 abitanti, vide arrivare oltre 500.000 profughi. Sbarcavano quasi tutti nel punto settentrionale dell’isola, da dove si vede la Turchia. Aphrodite, proprietaria di un albergo quasi vuoto su quella punta settentrionale, nella località di Eftalou, mi chiese se con il caffè mi andava un biscotto. Nella piscina sotto il portico, tra palme e cespugli di rose in fiore, galleggiava un unico ospite. I turisti non venivano quasi più. Le immagini televisive di migliaia di giubbotti di salvataggio abbandonati a Lesbo erano troppo sconvolgenti. Sulla piccola spiaggia privata dell’albergo di Aphrodite, nel 2015 erano sbarcati più di 5000 profughi, praticamente in mezzo ai tavoli apparecchiati della sua taverna in riva al mare. Nell’aprile 2015 indirizzò tra le rocce la prima famiglia siriana, composta da undici adulti e quattro bambini. Il loro gommone faceva acqua, erano bagnati fradici. Che cosa fai allora, se sei la padrona di casa? Aiuti il nonno a scendere a terra, sedia a rotelle e tutto, passi alla gente degli asciugamani, prendi dagli armadi dei tuoi figli dei vestitini asciutti per i bambini bagnati, dai loro un panino e una bottiglia d’acqua e chiami la polizia del paese per chiedere come procedere. Ma la polizia non poteva venire, perché era già impegnata con duecento profughi che erano sbarcati nello stesso momento un po’ più in là.
I tre gommoni a settimana diventarono presto tre al giorno e alla fine arrivavano ventiquattr’ore al giorno, ogni barca era piena zeppa con a bordo quaranta o cinquanta persone. Divenne una routine, raccontò Aphrodite. “Anche per gli ospiti del mio albergo. Ogni volta si alzavano dalle loro sdraio, aiutavano la gente a raggiungere la riva, li calmavano, davano loro un po’ d’acqua e qualcosa da mangiare e un passaggio fino al paese sulle loro macchine a noleggio.” Da lì, i profughi continuavano il loro lungo viaggio verso l’Europa occidentale. “Adesso so che i bambini possono diventare letteralmente blu per il freddo” disse Aphrodite.
Nessun’altro prestava loro attenzione. Se durante le grandi crisi umanitarie ci sono organizzazioni di soccorso a ogni angolo – non è inusuale che ne vengano un paio di centinaia per una catastrofe – in questa, che riguardava il flusso di profughi più grande nella storia dell’Europa moderna, restarono a casa in massa. Era la popolazione locale che, munita di binocolo, vigilava dalle scogliere sulle barche dei profughi, erano i pescatori locali a salvare la gente dal mare, i turisti caritatevoli a fornire loro un passaggio fino alla fermata dell’autobus in paese. Lo stesso succedeva nel resto d’Europa. A Roma, i profughi che finivano in edifici da demolire e nei parchi pubblici ricevevano aiuto dai negozianti del quartiere e dai passanti. Nella “giungla di Calais”, erano i cittadini comuni a portare tende e maglioni. I volontari cucinavano pasti caldi dentro scuole e chiese e raccoglievano scarpe, ma presto la fiumana di profughi diventò troppo grande. Dai margini delle lunghe file di disperati che si aggiravano per l’Europa, venivano inviati al mondo messaggi di allarme sui gruppi di Facebook. Non c’era più nulla da offrire. Come alleviare le pene di uomini e donne che avevano camminato per giorni nel fango bagnato? Che fare con neonati che sembravano più morti che vivi per il freddo e le privazioni? Come recuperare i malati rimasti indietro su una spiaggia o lungo un binario?
Nel settembre del 2015 mi recai a Lesbo. Su una spiaggia, due medici curavano i piedi di un profugo che era appena saltato da una barca. Entrambi olandesi, non sopportavano più di vedere ogni giorno le immagini dei profughi al telegiornale e avevano deciso di dedicare i loro giorni di vacanza ad aiutarli. “Quando arrivano sono soprattutto stanchi e impauriti” disse il dottor Harm Knol di Dedemsvaart. Le sue cure consistevano più che altro nel calmare la gente. “Vada un attimo a sedersi sotto quell’albero e riprenda fiato” diceva alle persone. “Qui è al sicuro.”
Nel 2015 l’isola di Lesbo, che ha circa 86.000 abitanti, vide arrivare oltre 500.000 profughi.
Sul sentiero sterrato che passa sopra le spiagge tra Eftalou e Skala Si- kaminias, arrivavano a piedi decine di nuovi profughi e a settanta metri di distanza da Harm Knol stava attraccando ancora un altro gommone strapieno proveniente dalla Turchia. Tra grida di gioia e pianti, i passeggeri si strapparono di dosso i giubbotti di salvataggio e li gettarono in mare. Ormai, oltre a una crisi umanitaria, Lesbo si trovava ad affrontare anche un disastro ambientale. Il suo mare e le sue spiagge erano ricoperti da giubbotti di salvataggio buttati via e da gommoni bucati.
“Non si possono piantare in asso e basta. Non affrontano certo la traversata perché qui le lasagne sono più buone” disse un soccorritore. Venti o trenta volontari provenienti da Islanda, Norvegia, Olanda, Israele e Regno Unito accoglievano i gommoni dalle spiagge nella zona di Molyvos, aiutavano la gente a sbarcare sana e salva, e distribuivano acqua e banane. Più in là sulla spiaggia una signora belga distribuiva a madri siriane e afgane abitini asciutti per neonati, spediti a Lesbo da madri solidali dell’Olanda e della Danimarca. Un turista tedesco sollevò una cassetta di mele dal bagagliaio della sua auto a noleggio.
Delle bolle di sapone si libravano con la calda brezza marina. Due pagliacci donna di una ONG che si chiamava Global Clown erano arrivate dall’Olanda su furgoncini carichi di bolle di sapone, palloncini e cappellini da festa. Giocavano insieme ai bambini profughi sulla spiaggia a uno, due, tre, stella e a rubabandiera. I piccoli, che erano appena stati trasportati a riva, ridevano estasiati. I genitori guardavano riconoscenti da sotto l’albero e mangiavano qualche panino.
Si cercava di dare un passaggio a tutti i profughi in stampelle e carrozzella, ai ciechi, agli anziani, alle donne agli ultimi mesi di gravidanza e ai malati, ma ogni giorno c’era comunque una processione di 2000 o 3000 persone che percorrevano i cinque chilometri dalla spiaggia di Eftalou alla minuscola cittadina portuale di Molyvos, con settecento abitanti. “In questa fase assomiglia ancora un po’ a una manifestazione sportiva” disse Thom. Si era trasferito qualche anno prima dall’Olanda a Molyvos e gestiva una pensione. A bordo della sua jeep superammo lentamente i profughi appena arrivati, che ci salutavano con la mano. Portavano i bambini sulle spalle, l’acqua di mare colava dai loro zaini. Un gruppo di adolescenti siriani che camminavano insieme gridarono esultanti: “Dov’è il McDonald’s?”.
Soccorrere le persone sulla strada pubblica non era permesso dalla polizia.
“Dopo la calorosa accoglienza sulla spiaggia, credono di aver raggiunto la terra promessa. Non dico mai cosa li aspetta da adesso in poi. Lascio che si godano il momento” disse Thom.
La temperatura toccava i trentacinque gradi. Ogni posticino nella stretta striscia d’ombra degli ulivi lungo il marciapiede era occupato da profughi. Le madri facevano aria ai loro bambini oppressi dal caldo. Giovani e vecchi, neonati e bambini erano seduti e stesi gli uni in mezzo agli altri sopra coperte termiche in alluminio e pezzi di cartone di scarto, tra sacchetti di Doritos, lattine di sardine e bottiglie di plastica. Vestiti e scarpe erano stesi ad asciugare alla recinzione di un uliveto. Le persone in attesa stavano già raggiungendo il migliaio e dalla strada costiera si vedevano altri dieci nuovi gommoni dirigersi verso la spiaggia. Il proprietario del noleggio di macchine accanto alla fermata dell’autobus quel mattino non ne poteva più: puntò un tubo dell’acqua sui profughi e spruzzandoli li fece uscire dal suo praticello costringendoli a tornare sul selciato bollente.
La fermata dell’autobus sulla strada principale di Molyvos era il punto di ritrovo. I profughi davano per scontato che da lì partisse un autobus per Mytilini, la capitale di Lesbo, dove dovevano farsi registrare dalla polizia per poter proseguire il viaggio verso la terraferma. In effetti, due volte al giorno un autobus di linea passava, ma i profughi non potevano salire a bordo. “Perché siete illegali” sentii Hannelouise Kissow, un medico di Copenaghen, spiegare a un gruppo di rifugiati. “Se l’autista vi trasporta, diventa un trafficante di persone e lo arrestano.” Anche la bionda Hannelouise si era presa dei giorni liberi ed era venuta a Lesbo per dare una mano. Ma soccorrere le persone sulla strada pubblica non era permesso dalla polizia. L’avrebbero arrestata. Così, per rendersi comunque utile, andava avanti e indietro tra i profughi con la borsa di vestiti usati per bambini che si era portata da Copenaghen.
“Taxi?” domandò un profugo. “Non si può prendere neanche quello” rispose Kissow. “Dov’è Mytilini?” “Da quella parte, a settanta chilometri.” “Ho dei bambini piccoli, non possono camminare per settanta chilometri. Dove trovo un albergo?” chiese il profugo. “Non può andare in albergo. Sono ordini del governo greco” lo informò Kissow. “Ma ho i soldi!” “Non importa.” “Dove dormono allora i miei bambini?” “Sotto un ulivo, sul marciapiede, dove trova un posto” fu la risposta del-la donna. Per quel giorno aveva chiuso. Dal suo punto di vista, aveva già dovuto mortificare migliaia di persone con la notizia che non potevano fare nulla a parte stare lì seduti sul marciapiede, con i loro bambini e gli anziani. E non era per niente felice di essere lei quella che doveva spiegare tutto. Non c’era neanche un poliziotto o un funzionario. “L’altro giorno un paio di uomini di Molyvos si sono messi a gridarmi che dovevo portare via quei profughi da qui, via, via dal loro marciapiede, mi facevano segno con le mani. E dove allora? E perché mai devo essere io a farlo? Neanche fossero miei, i profughi.” Lasciò la sua borsa di abiti per bambini tra due famiglie e si allontanò a piedi verso la strada del villaggio. Io rimasi alla fermata, dove quel giorno non si era visto nessun autobus. Per mezz’ora diventai, da sola, l’ingresso per l’Europa.
Profughi e turisti si trovavano nello stesso luogo e nello stesso momento, ma in universi paralleli.
“Atene?” chiese un afgano che era appena arrivato a piedi da Eftalou con la sua famiglia. Non aveva idea di dove si trovassero. Aprii la cartina che mi avevano dato all’ufficio turistico. “Lei si trova qui.” Indicai Molyvos. “Deve andare lì.” Indicai Mytilini sull’altro lato dell’isola. “E poi con la barca fino ad Atene.”
Intorno a me era tutto uno spingersi a vicenda, tra uomini con il sale marino secco sulla barba e alle radici dei capelli. “Hungary?” chiese uno. “Toilet?” “Hospital?” “Registration?” Anche un paio di donne in mountain-bike, con il casco, le divise di lycra rosa shocking e pacchi da sei di bottiglie d’acqua da un litro e mezzo sul manubrio, pensarono che fossi la coordinatrice degli aiuti umanitari europei. Altri possibili candidati non ce n’erano. Deposero ai miei piedi le bottiglie e dissero che potevo dare l’acqua ai profughi che ne avevano più bisogno. Io regalai ai rifugiati la mia cartina, augurai buona fortuna a quelli che mi circondavano e mi liberai dall’ammasso di gente che spingeva. A cento metri dalla fermata dell’autobus, superata la prima curva, c’erano negozi di souvenir, bar che facevano succhi freschi, flaconi di crema solare con il fattore di protezione desiderato, cartoline e salvagenti. L’Europa come si deve.
Un trenino per turisti si infilò tra la folla scampanellando irritato: era composto da tre vagoncini aperti di color celeste neonato, trainati da un trattore mascherato da piccola locomotiva. Da un microfono sopra le teste dei passeggeri risuonava il duo Cindy und Bert con il loro successo del 1973: “Immer wieder sonntags kommt die Erinnerung / Grade so wie in der Sonntagnacht / Als das Glück uns zwei nach Haus gebracht / Dubdidubdi- dubdub… dub”. I turisti a bordo del trenino scattavano foto ai rifugiati, alcuni facevano un cenno di saluto. Profughi e turisti si trovavano nello stesso luogo e nello stesso momento, ma in universi paralleli.
Un estratto da Gente di nessuno. Rifugiati e migranti in Europa dal 1938 a oggi di Linda Polman (Luiss University Press, 2020).