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ontinuano le conversazioni della redazione con intellettuali capaci di aiutarci a leggere la guerra in corso, alla ricerca di uno scambio con punti di vista che possano restituire la complessità e la portata di quanto sta accadendo. L’intervista di oggi è con l’economista Emiliano Brancaccio, Professore di politica economica presso l’Università degli Studi del Sannio, a Benevento, tra i principali esponenti delle scuole di pensiero economico critico. Seguiamo Brancaccio da quando siamo venuti a conoscenza dei suoi lavori più recenti: Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico (Piemme, 2022) e Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione (Meltemi, 2020), due saggi capaci di individuare le tendenze generali della fase storica che stiamo attraversando: su scala globale, una centralizzazione del potere in sempre meno mani che conduce inevitabilmente a una contrazione dello spazio democratico.
Ci interessava in particolare la sua capacità di portare un punto di vista radicale in sedi istituzionali che, da profani, immaginiamo restie alla critica che invece Brancaccio sa esercitare. Siamo partiti allora dalla guerra in Ucraina, come abbiamo già fatto con Marco D’Eramo, Alfonso Desiderio e Maria Chiara Franceschelli, ma siamo arrivati a toccare un’ampia rete di aspetti macroeconomici e politici della contemporaneità, e ne abbiamo approfittato per farci chiarire alcuni punti delle sue analisi. Il risultato è una conversazione ambiziosa, dallo sguardo ampio, ma che speriamo possa servire a orientarci, in modo molto pragmatico, a capire se e come possiamo sperare di avere voce in capitolo sul nostro futuro.
Emiliano Brancaccio: Volete davvero parlare delle cause e delle conseguenze economiche della guerra? Allora sospetto che questa intervista non la leggerà nessuno: l’economia e la sua critica sono essenziali per capire come stanno davvero le cose, ma agiscono sui lettori come un horror: li terrorizzano e li fanno scappare.
Nicolò Porcelluzzi: A meno che non mettiamo nel titolo: “perché i tuoi risparmi sono in pericolo?”. Il terrore finanziario attira sempre e mi sembra un periodo azzeccato…
EB: Vero, ma solo per quelli che riescono ancora ad accumulare qualche soldo. A proposito di horror, viviamo in un’epoca in cui gran parte della classe lavoratrice vive ormai a “risparmio zero”…
Stella Succi: Partiamo allora dalla domanda più urgente, e forse più inquietante. Quali sono le tendenze economiche che alimentano il conflitto e cosa ci dicono del futuro di questa guerra? Insomma, il capitale cosa auspica?
EB: I singoli capitalisti ovviamente “auspicano”: di sopravvivere, di avere successo, di espandersi, di esercitare una volontà di potenza nel senso di Deleuze. Però, se parliamo di “capitale” in generale, cioè della sintesi complessiva delle azioni scoordinate e conflittuali dei singoli capitalisti, allora associarvi il concetto di auspicio genera un controsenso. Perché il capitale in generale è una forza impersonale, diciamo che è come una marea, come un vento di tempesta. In quanto vento, non ha desideri né auspici. Al contrario, spesso il capitale segue una tendenza che devia, si smarca dalle speranze soggettive dei singoli capitalisti. È quella che si definisce eterogenesi dei fini.
SS: E un esempio di eterogenesi dei fini è la tendenza verso la guerra?
EB: Sì. Noi siamo abituati a considerare la guerra come se fosse il banale esito delle intemperanze di qualche pazzo al potere. Ma questa lettura, individualista e soggettivista, è molto superficiale. In realtà, esiste una tendenza oggettiva verso la “guerra capitalista”, non più semplicemente economica ma anche militare, di cui il conflitto in Ucraina è solo una delle nuove forme fenomeniche.
NP: Quali sono le cause di questa tendenza?
EB: Per comprenderle bisogna partire da un fatto inatteso: gli Stati Uniti e buona parte dell’occidente capitalistico sono usciti sorprendentemente sconfitti dalla grande stagione della globalizzazione dei mercati. L’avevano propugnata, eppure sono stati sconfitti.
NP: Perché sconfitti?
EB: In estrema sintesi, possiamo dire che il capitalismo americano, e gran parte del capitalismo occidentale, si sono ritrovati negli anni con un crescente problema di competitività internazionale, con costi di produzione relativamente alti rispetto alla concorrenza estera. Questo ha portato gli Stati Uniti e altri paesi occidentali a comprare molto dall’estero e a vendere poco all’estero. Ma questo significa accumulare debiti verso l’estero. Debiti pesanti: per esempio, gli Stati Uniti hanno ormai una posizione passiva verso l’estero di oltre il 60% del PIL. I creditori mondiali, di contro, sono i vincitori della stagione della globalizzazione, sono quelli che hanno conquistato più mercati, hanno venduto più merci e hanno quindi accumulato più moneta di tutti. Sono i capitalisti cinesi, in primo luogo, ma anche del sud est, del medio oriente, e guarda caso in misura minore pure russi.
Elisa Cuter: Uno squilibrio tra vincitori e vinti della globalizzazione, quindi. Con quali conseguenze?
EB: Il problema dei debitori è che presto o tardi i creditori cercano di comprarli. Negli anni, i grandi creditori hanno venduto un’immane quantità di merci e hanno quindi accumulato denaro, e adesso hanno sempre più voglia di usarlo: non solo per erogare prestiti all’occidente indebitato, ma anche e soprattutto per acquisire capitale occidentale. I capitalisti cinesi, asiatici, arabi e anche russi, coltivano cioè da tempo il desiderio di usare la moneta accumulata per comprare azioni di aziende americane, britanniche, francesi, e così via. Magari persino i pacchetti di controllo di quelle aziende, per assorbirle e dominarle.
SS: Parli della tendenza del capitale a centralizzarsi in sempre meno mani…
EB: Esatto. Come accade nel mito di “mangiare Dio”, direbbe Jan Kott, i capitalisti vincitori della guerra sui mercati uccidono e mangiano i capitalisti sconfitti.
EC: Come hanno reagito gli occidentali di fronte a questa minaccia di esser mangiati?
EB: In una prima fase, i capitalisti americani e occidentali hanno reagito in modo piuttosto scontato e brutale, attraverso l’imperialismo militare. Ossia, hanno attuato quello che io chiamo “l’imperialismo dei debitori”. Questo consiste in una doppia espansione: tanto cresceva il loro debito verso l’estero, tanto cresceva la loro presenza militare all’estero, proprio al fine di gestire quel debito e auspicabilmente di contenerlo. Un esempio tra i più lampanti è stata l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, che doveva servire anche a mitigare il debito energetico americano e occidentale. Il guaio, però, è che questo doppio espansionismo, delle milizie e del debito verso l’estero, a un certo punto raggiunge un suo limite di spesa e di efficienza, oltre il quale non può andare. È un fenomeno che in modi non troppo dissimili si era già verificato ai tempi della crisi dell’impero britannico, ben descritta in un celebre saggio dell’economista Marcello De Cecco. Oggi il problema si ripete con l’emergere dei limiti all’espansione imperialista del grande debitore americano e dei suoi alleati, comprovate anche dal ridimensionamento delle campagne militari occidentali nei vari territori occupati. Di queste difficoltà, ormai, in tanti hanno preso atto. Ecco perché, da qualche tempo, i debitori occidentali hanno iniziato ad accettare i limiti del circuito militar-monetario che avevano creato, hanno quindi dovuto contenere le mire imperialiste, e dunque sono stati costretti a escogitare qualche altro meccanismo di difesa.
SS: Che tipo di meccanismo?
EB: I debitori occidentali hanno iniziato ad accettare il fatto che la globalizzazione costituiva un problema, e che dal suo protrarsi indefinito sarebbero potuti uscire con le ossa rotte. Ecco allora che negli Stati Uniti e un po’ in tutto l’occidente abbiamo assistito a una riabilitazione del vecchio, vituperato protezionismo. Non solo commerciale ma anche finanziario, vale a dire una serie di barriere legali che servono a bloccare l’esportazione di capitale da parte dei grandi creditori. In sostanza, ai capitalisti cinesi, russi, e così via, viene oggi imposto il divieto di “mangiare” le aziende occidentali. Questo nuovo protezionismo, badate bene, è iniziato diversi anni fa, da ben prima della guerra, addirittura da prima di Trump! Nelle alte sfere è stato ridenominato “friend shoring”, un termine gentile ideato da Janet Yellen per avvisare che da ora in poi noi occidentali faremo affari solo con i nostri “amici”. Perché degli altri abbiamo ormai paura e vogliamo tenerli fuori dai nostri recinti.
SS: E qual è stata la risposta orientale?
EB: Io sostengo che proprio il “friend shoring”, cioè proprio le barriere protezionistiche edificate dai debitori occidentali per evitare di esser “mangiati” dai creditori d’oriente, hanno spinto questi ultimi ad attivare una reazione imperialista. I grandi creditori orientali hanno iniziato a capire che la fase è cambiata. Essi hanno una enorme quantità di capitali da esportare, potrebbero acquisire moltissime aziende occidentali, ma sono ormai ostacolati dalle barriere protezionistiche imposte dal “friend shoring”. Di conseguenza, per esportare i loro capitali all’estero, per fare affari nel mondo, e soprattutto per “mangiare” gli avversari, i creditori prendono coscienza che da ora in poi bisognerà aprirsi dei varchi anche con la forza, cioè creando sbocchi per le esportazioni dei loro capitali anche tramite movimenti di truppe e di cannoni. Mentre in passato la guerra imperialista serviva agli Stati Uniti e ai loro sodali occidentali a gestire il loro debito, adesso una guerra imperialista uguale e contraria diventa il mezzo con cui i creditori orientali cercano di creare sbocchi per i loro capitali. È esattamente così che nasce quello che io chiamo il nuovo “imperialismo dei creditori”. L’imperialismo dei creditori come reazione all’imperialismo dei debitori e alla sua crisi. In un certo senso, la mia tesi rielabora in chiave aggiornata il vecchio nesso individuato da Lenin, tra esportazione dei capitali e imperialismo.
SS: Come possiamo interpretare, in quest’ottica, la guerra in Ucraina?
EB: È una guerra che vede la Russia nel ruolo di grande aggressore imperialista, ma a guardar bene stabilisce una linea di demarcazione molto più generale, tra debitori d’occidente e creditori d’oriente. Basti guardare la Cina, che pur con la proverbiale prudenza e con vari distinguo, dal punto di vista delle relazioni internazionali si è chiaramente posizionata dal lato della Russia. Il motivo è che i cinesi interpretano questa guerra come uno dei tanti segni di crisi del grande debitore americano. Ai loro occhi, il capitalismo americano ha esaurito la strategia del doppio espansionismo, del debito e delle milizie all’estero, come dimostra il fatto che in molte circostanze è stato costretto a ritirare le sue truppe. In sostanza, per la Cina, avallare silenziosamente l’attacco russo all’Ucraina significa verificare empiricamente se e in che misura gli americani e i loro alleati reagiranno. Se la reazione militare sarà limitata, vorrà dire che il doppio espansionismo USA ha davvero raggiunto il suo limite. Per i cinesi, se siamo davvero giunti a questo punto di svolta, gli americani non potranno più permettersi di dettare le regole del commercio mondiale, e quindi, tra l’altro, non potranno pretendere di passare dal globalismo al “friend shoring” solo perché adesso a loro conviene cambiare strategia.
EC: La guerra in Ucraina, insomma, sarebbe l’inizio di una grande sfida orientale agli Stati Uniti e ai loro alleati, per decidere chi dovrà dettare le regole future della finanza e del commercio mondiale?
EB: Esatto. I creditori russi e cinesi, e con loro molti altri, ritengono che quelle regole non possano esser più dettate dal vecchio imperialismo dei debitori occidentali, che reputano ormai in declino. È una scommessa epocale, che va ben oltre il conflitto in Ucraina. L’esito non è affatto scontato, beninteso. Il rischio di una escalation su larga scala è altissimo e non possiamo sapere chi alla fine la spunterà. Quel che è certo, è che il grande squilibrio capitalistico tra creditori e debitori è ormai sfociato in un equilibrio di guerra, non più solo economica ma anche militare. Questo equilibrio è destinato a segnare la nuova fase storica, che io chiamo di “centralizzazione imperialista” del capitale.
SS: Nel tuo ultimo libro, colleghi la tendenza alla centralizzazione del capitale in poche mani a un processo di “oligarchizzazione” del capitalismo, che a tuo avviso è generale, minaccia le stesse democrazie occidentali e quindi va ben oltre il caso degli “oligarchi russi”, di cui tanto si parla. Possiamo fare un confronto tra “oligarchia” capitalista russa e occidentale? È una distinzione che ha senso fare?
EB: Una distinzione è necessaria, dal momento che, come abbiamo detto, gli uni e gli altri “oligarchi” esprimono due lati del capitalismo mondiale, quello dei creditori e quello dei debitori. Per questo agiscono in modi diversi, talvolta opposti. Al tempo stesso, però, possiamo chiamarle entrambe “oligarchie” capitaliste, per un motivo ormai documentato. Non solo in Russia, ma ancor più negli Stati Uniti, il controllo del capitale è spaventosamente concentrato in poche mani: oltre l’80% del capitale è controllato da meno dell’1% degli azionisti in Russia e da meno dello 0,3% negli USA. Parliamo tanto di oligarchi vicini al Cremlino ma, tecnicamente parlando, il capitalismo americano è il più oligarchico di tutti.
SS: Che ne sarà della sovranità europea a tuo avviso? Sembra che a “tirare la fune” dell’autonomia sia rimasta solo la Germania.
EB: Per quanto siano storicamente legati a filo doppio, il capitalismo americano e i capitalismi europei sono per molti versi in disaccordo su come gestire la nuova fase post-globalista. Basti notare un fatto. La spinta verso il protezionismo del “friend shoring” metterà più in difficoltà i paesi che io definisco “crocevia” del commercio e della finanza mondiale, cioè quelli che hanno sempre fatto affari un po’ con tutti e non solo con gli “amici”. Molti di questi paesi crocevia sono europei: Germania e Italia, su tutti. Questo spiega la riluttanza tedesca rispetto alle posizioni americane più favorevoli a una escalation militare. E al tempo stesso rivela i caratteri contraddittori della strategia del governo Draghi, che ci vede aderire più convintamente di altri alla linea guerrafondaia americana benché il sistema produttivo nazionale ne pagherà le conseguenze più di altri.
SS: Avere espulso la Russia dallo SWIFT è stata definita l’arma nucleare finanziaria decisiva. Ma è stato davvero così?
EB: No. È solo una delle forme che sta assumendo il protezionismo finanziario occidentale. Molti credono che l’esclusione della Russia dallo swift e le altre famigerate “sanzioni” siano state una conseguenza della guerra. Non è esattamente così. In realtà, se ci pensiamo bene, queste sanzioni sono soltanto una prosecuzione del “friend shoring”, una politica che ha ampiamente preceduto la guerra e che, per le ragioni che indicavo prima, ha contribuito ad alimentarla. Talvolta, le relazioni di causa ed effetto della storia sono l’esatto opposto di come vorrebbero presentarcele.
SS: Già con l’emergere della pandemia i singoli stati hanno cominciato una rincorsa a una maggiore indipendenza strategica dall’estero, in primis sulle materie prime e sulla tecnologia. La Cina ha lanciato l’e-Yuan e la stessa Europa sta lavorando a un’infrastruttura di pagamento indipendente. E tu ora parli del “friend shoring”, che segna un’altra grande divisione tra le economie del mondo. Che fine farà, secondo te, l’economia globalizzata per come l’abbiamo conosciuta?
EB: Come dicevo, il tempo della globalizzazione è finito da un pezzo, da prima della pandemia, addirittura da prima di Trump. Il WTO avvertì i primi segni di una svolta protezionista da parte degli Stati Uniti già dopo la crisi del 2008, sotto la presidenza Obama. La guerra in Ucraina non fa altro che accelerare una tendenza già in atto da diversi anni. Ci vorrà molto tempo prima di vedere un nuovo boom globalista.
SS: Non c’è il rischio di dare gli Stati Uniti per finiti prima del tempo? Tra soft power, influenza e ricatto sull’Europa, controllo degli strumenti sanzionatori e questa guerra che costringe a riconfigurare rotte commerciali e iniziative strategiche asiatiche, non è possibile che il malato statunitense si rianimi?
EB: La domanda che poni è utile per evitare di cadere in un grossolano fraintendimento. È un fatto innegabile che gli Stati Uniti siano usciti sconfitti e indebitati dalla globalizzazione e che siano anche stati superati dalla Cina in termini di PIL calcolato a parità di poteri d’acquisto. Ma è sempre bene aggiungere che il primato generale americano sussiste tuttora, e che la partita dell’egemonia futura resta aperta. Uno dei motivi è che l’occidente capitalistico in generale, e gli Stati Uniti in particolare, godono ancora dei livelli più alti di produttività per singola ora lavorata. Questo significa che, con una forza-lavoro molto più piccola, l’economia americana riesce a produrre quasi quanto produce l’economia cinese, che dispone di una popolazione enormemente maggiore. È un chiaro indice di superiorità tecnologica e di “rete”, che i cinesi ancora faticano a sfidare. C’è poi un’altra ragione per cui l’egemonia USA potrebbe resistere, nonostante i debiti e le attuali difficoltà dell’imperialismo americano. È proprio il “friend shoring”. Se questo diventerà il nuovo status internazionale, gli Stati Uniti potranno riguadagnare terreno mantenendo il controllo economico-politico all’interno del recinto occidentale che avranno creato. Ossia, sorgerà un nuovo assetto delle catene della produzione, del commercio e della finanza internazionale, caratterizzato da confini geopolitici difficili da valicare. Gli americani manterranno così la loro egemonia, ovviamente solo sull’occidente, un’area più circoscritta rispetto al passato ma che resta molto grande e rilevante.
EC: Vorrei chiederti di parlare un po’ di più della questione del debito, anche al di là della guerra. Perché quella del debito è in fin dei conti la logica che sottende tanto agli scenari geopolitici quanto sempre di più alle politiche interne ai singoli stati, tramite l’austerity, che ha degli effetti enormi anche sull’autopercezione del singolo cittadino.
EB: Sull’austerity, esiste certamente un problema di autopercezione, direi anche di memoria storica. Le autorità di politica economica, sorrette dalla grande stampa, iniziano nuovamente a sostenere che il debito è troppo alto, talvolta aggiungono che l’attuale inflazione dipende anche da un eccesso di spesa, e dunque concludono che bisognerà tornare alle politiche di austerity. Queste tesi sono sbagliate e il fatto che tornino alla ribalta mi sembra un chiaro sintomo di perdita della memoria storica. Dovremmo infatti ricordare che tra il 2008 e il 2013 abbiamo avuto l’opportunità di mettere la politica di austerity sul banco di prova dei dati. Abbiamo potuto accumulare una grande quantità di evidenze empiriche per appurare se e in che misura l’austerity potesse realmente dare i benefici annunciati oppure no. Ebbene, le prove empiriche vanno tutte inesorabilmente in una direzione: le strette monetarie, gli incrementi delle imposte e i tagli alla spesa pubblica causati dall’austerity non sono riusciti a raggiungere nessuno degli obiettivi che erano stati annunciati. I cardinali dell’ortodossia avevano detto che l’occupazione e il reddito non sarebbero diminuiti, e invece sono crollati. Avevano assicurato che la disuguaglianza non sarebbe aumentata, e invece la forbice sociale si è accentuata. Addirittura, l’austerity non è riuscita nemmeno a raggiungere l’obiettivo di ridurre il debito. Anzi, spesso questa politica ha prodotto l’effetto opposto, perché ha depresso a tal punto l’occupazione e il reddito da far esplodere il rapporto tra debito e reddito. Questo fallimento generale della politica di austerity è talmente conclamato nella letteratura scientifica da esser stato riconosciuto persino dal Fondo Monetario internazionale e dal suo ex-capo economista Olivier Blanchard, che pure l’avevano originariamente supportata. È un “mea culpa” sintomatico, direi, che ha ispirato anche un mio dibattito proprio con Blanchard e alcune ricerche che ho realizzato insieme ai miei coautori. La cosa inquietante è che oggi, a distanza di un decennio, è come se avessimo perduto la memoria di quei fatti documentati. Come in un eterno, grottesco ritorno, sta riaffiorando il mantra dell’austerity come panacea di tutti i mali. È come essere di nuovo all’anno zero, come se non ricordassimo più il fallimento di quella politica. Questa perdita di memoria collettiva mi sembra l’ennesimo indizio di un nuovo oscurantismo alle porte.
EC: Ma a chi giova recuperare una politica che si è già dimostrata fallimentare?
EB: L’austerity danneggia la collettività nel suo complesso ma giova alle fazioni della classe capitalista che si trovano in una posizione di forza, di credito, di attivo capitalistico, con tassi di profitto superiori alla media. Questi capitalisti creditori possono tranquillamente sopportare le crisi scatenate dall’austerity. E possono quindi trarre da esse l’occasione di vedere definitivamente sconfitti i loro concorrenti più deboli e indebitati, in modo da “mangiarli”, come dicevamo prima. Insomma, non dimentichiamo che le politiche di austerity rendono insolventi i capitalisti più piccoli e più fragili, e li espongono alle acquisizioni da parte dei capitalisti più grandi e più forti. L’austerity è un grande acceleratore dei processi di centralizzazione dei capitali in sempre meno mani. Per questo trova sostenitori, soprattutto nelle alte sfere.
EC: Parli spesso infatti di una lotta politica che in questa fase storica rimane confinata alla classe dominante. Grandi capitali contro piccoli capitali, creditori contro debitori, capitalisti orientali contro capitalisti occidentali, eccetera. La politica odierna esprime solo queste lotte interne alla classe capitalista, mentre le classi subalterne restano sempre silenti, fuori dai giochi. Sarei curiosa di capire che rapporto c’è tra questo stato di cose e l’informazione che riceviamo, che è piena di portati idealistici e giustificazioni ideologiche da qualsiasi parte provenga. Per esempio, sulle propagande occidentali e russe intorno alla guerra, tu scrivi: “Queste due propagande, pur contrapposte, risultano dunque uguali nel richiamarsi continuamente ai diritti, alla lealtà, all’ideologia, all’integrità delle nazioni, alla protezione dei popoli. Come se nelle stanze del potere si discutesse solo di tali nobili argomenti. Mai d’affari”. È una questione un po’ speculativa, ma vorrei sapere secondo te se le fazioni del capitale e i loro rappresentanti credono alla loro stessa propaganda. Che dose di cinismo e cattiva coscienza c’è? E quanta di idealismo in perfetta buona fede? E c’è un’opzione preferibile tra queste due possibilità?
EB: È una domanda interessante, alla quale posso provare a rispondere in base a una personale esperienza. In questi anni ho avuto un privilegio che nella storia è stato concesso pochissime volte ai critici del pensiero dominante: sono stato invitato a misurarmi in dibattiti a due con alcuni tra i principali esponenti della teoria e della politica economica, italiana e internazionale, da Mario Monti a Olivier Blanchard, da Lorenzo Bini Smaghi a Romano Prodi, da Elsa Fornero a Giovanni Tria, e così via, fino a Daron Acemoglu. Ebbene, nei dibattimenti con questi grandi cardinali dell’ortodossia ho sempre trovato sintomatico il fatto che il ruolo del cinico spettasse soprattutto a me. “Cinico”, ovviamente, nel senso non dei filosofi socratici ma di Wilde: ossia, io guardavo le cose per come materialmente sono, mentre i miei avversari dialettici le guardavano per come avrebbero idealmente voluto che fossero. Il che, in effetti, mi ha sempre assicurato un discreto vantaggio durante quei dibattiti: quello di poter contrapporre un discorso scientifico alle retoriche, pur raffinate, dei miei interlocutori. Ebbene, questo strano gioco di ruolo si riproduce sempre, che si discuta di politica economica o di guerra militare. Direi allora che questi grandi esponenti della politica dominante, con cui mi capita di confrontarmi, sono affetti non tanto da “cattiva coscienza” ma da “falsa coscienza”, nel senso di Marx ed Engels. Ossia, i grandi ideologi del capitale, magari per placare le loro nevrosi, possono aver bisogno di convincersi così tanto delle loro narrazioni da risultare le prime cavie dell’ideologia che propugnano. Al punto tale, per esempio, che alcuni di essi sembrano davvero credere alla favola secondo cui la moderna guerra capitalista esploderebbe per cause etiche anziché economiche, come fosse motivata da sacri diritti negati piuttosto che da profani contratti mancati. Una mistificazione totale! Ovviamente, non tutti sono così confusi. Tra i cantori della visione prevalente c’è pure qualcuno disposto ad ammettere, in camera caritatis, che non crede a un bel niente di quel che racconta in giro sulle magnifiche sorti progressive del capitalismo. Ma questo tipo di agenti della propaganda, disincantati e feroci, rappresentano una rara eccezione.
EC: Questa tendenza a mistificare la realtà scientifica sembra l’ennesima prova che capitalismo e democrazia sono incompatibili, no? Si parla tanto del fatto che in Cina o in Russia non c’è democrazia, che lì è tutto mistificato dal potere politico. Ma le cosiddette democrazie liberali occidentali non sembrano passarsela molto meglio, anche semplicemente riguardo al rapporto con fatti comprovati, dati scientifici. Eppure, nonostante questi problemi, molti continuano a credere alla teoria del ferro di cavallo, opponendo alla democrazia occidentale l’autoritarismo orientale e usando questo spauracchio paradossalmente per spostare l’elettorato sempre più su posizioni di destra, principalmente sul piano economico, ma non solo.
EB: Sul grado di tutela della democrazia e la libertà, e direi anche sulla qualità della stampa e della comunicazione, tra i regimi liberali occidentali da un lato e i cosiddetti regimi autoritari orientali dall’altro, sussistono tuttora differenze oggettive innegabili, in termini di funzionamento delle istituzioni e di tutela dei diritti basilari. Il vero problema è che queste differenze si stanno riducendo, nel senso che dalle nostre parti la democrazia e la libertà arretrano vistosamente. Prendiamo i dati elaborati da Freedom House, un’istituzione che parteggia per l’occidente e che proprio per questo offre indicazioni interessanti. Questo istituto misura per ciascun paese del mondo i livelli di tutela della democrazia e della libertà, ovviamente intese in senso tipicamente liberale. Ebbene, i dati indicano che le democrazie liberali d’Occidente partono da livelli di tutela più alti, il che è piuttosto scontato dal momento che l’approccio analitico adottato è di stampo liberale. Nonostante questo, però, i dati indicano che negli ultimi anni, dalle nostre parti, questi livelli di tutela democratica si stanno riducendo in modo significativo. Ossia, iniziamo a convergere al ribasso, verso i cosiddetti regimi autoritari. In un certo senso, sembra confermata la predizione di Vladimir Putin, in una celebre intervista rilasciata al Financial Times qualche anno fa: il nostro sistema democratico-liberale sta entrando in crisi, noi stiamo somigliando sempre di più a loro, con un sistema decisionale sempre più accentrato e ostile ai diritti.
EC: Perché succede questo? Perché la democrazia arretra?
EB: La mia tesi è che anche in questo caso dobbiamo parlare di una tendenza oggettiva, profonda, di tipo sistemico. Mi riferisco, ancora una volta, alla tendenza chiave dell’analisi marxiana: la centralizzazione del capitale in sempre meno mani. Ne parlavamo prima, anche riguardo alla Russia e agli Stati Uniti. Ma il fenomeno è mondiale: a livello globale, ormai oltre l’80% del capitale azionario è controllato da meno del 2% degli azionisti. In pratica, questo significa che in tutti i paesi del mondo il potere economico è ormai concentrato nelle mani di un piccolo manipolo di grandi oligarchi, un club che oltretutto si restringe ancor di più ad ogni nuova crisi economica. Questa tendenza trova conferma nelle analisi empiriche più avanzate, ed è ormai riconosciuta anche dai grandi cardinali del mainstream, per esempio Daron Acemoglu. Ebbene, io sostengo che questa tendenza alla centralizzazione dei capitali non crea solo concentrazione del potere economico ma è anche alla base della concentrazione del potere politico che pure abbiamo registrato in questi anni, in termini di esautoramento delle rappresentanze popolari, di “esecutivizzazione” delle decisioni politiche, di ricerca spasmodica di grandi risolutori, di uomini forti a cui affidare i destini collettivi. È un movimento che ha totalmente distrutto le istituzioni novecentesche della socialdemocrazia, e col passare del tempo aggredisce persino le istituzioni liberaldemocratiche e i più elementari diritti politici e civili su cui si basano. Questa tendenza, secondo me, è la ragione principale della crisi democratica dell’occidente capitalistico, e ci aiuta a capire perché ci stiamo progressivamente avvicinando al livello di accentramento dei poteri che è tipico dei sistemi politici orientali. Gli somigliamo più di quanto vorremmo ammettere. Basti notare un esempio su tutti: anche le democrazie occidentali possono oggi svoltare verso una politica di guerra senza avvertire il bisogno di aprire un dibattito nelle assemblee parlamentari, senza preoccuparsi troppo del vaglio democratico.
EC: Allora proviamo a parlare dell’opposizione politica a queste tendenze che tu delinei. Prevedi che concentrandosi il capitale in poche mani e allargandosi la forbice della disuguaglianza, si vada anche verso un’uniformizzazione verso il basso delle condizioni della classe subalterna. Questo mi ha ricordato l’argomento “we are the 99%” di Occupy. Cosa non ha funzionato secondo te in quella fase dei movimenti? È stata una questione di repressione o ci sono stati degli errori nelle loro strategie organizzative e/o comunicative? E vedi degli eredi possibili di quella stagione nel panorama attuale?
EB: Da Porto Alegre, alle grandi manifestazioni contro la guerra, a Occupy Wall Street, a Black Lives Matter, ai Pride sempre più politicamente caratterizzati, i vari movimenti di emancipazione sociale e civile dell’ultimo quarto di secolo sono stati fiori nell’immenso deserto del dominio capitalista mondiale. Ogni volta che li abbiamo incrociati abbiamo respirato un po’, e anche solo per questo meriterebbero gratitudine. C’è tuttavia un grave limite, che mi sembra di ravvisare in tutte le esperienze di movimento di questi anni. Nella sostanza, penso di poter dire che si è trattato di movimenti “riformisti”. Vale a dire, in ultima istanza fiduciosi sulla possibilità di avanzare a piccoli passi per correggere le storture del capitalismo, per depurarlo dai suoi rigurgiti reazionari, per riformarlo pian piano in senso progressista, nell’interesse collettivo delle classi subalterne, come in parte è accaduto nella breve stagione virtuosa della seconda metà del Novecento. Oggi, però, questo orientamento “riformista”, dei piccoli passi, solleva un problema enorme.
EC: Quale?
EB: È il problema posto dalle tendenze in atto, verso la centralizzazione dei capitali e verso la corrispondente concentrazione del potere economico e politico, così intensa da mettere in crisi il vecchio ordine del capitalismo democratico. In uno scenario del genere, così cupo e violento, si pone un interrogativo: siamo proprio sicuri che una politica “riformista”, dei piccoli passi per correggere pian piano le storture del sistema, sia anche solo minimamente praticabile? Siamo certi che non si tratti ormai di una chimera? A mio avviso, se vogliamo essere onesti, nel senso anche solo puramente intellettuale del termine, allora dovremmo iniziare a interrogarci sull’eventualità che dinanzi a tendenze oggettive così soverchianti possa risultare molto difficile far progredire il capitalismo con quelle azioni cumulative, passo dopo passo, che sono state tipiche della logica del riformismo politico novecentesco. Insomma, c’è una domanda urgente che bisogna porre, se non in senso politico almeno in senso scientifico, fattuale: viviamo un’epoca in cui oggettivamente sussiste l’impossibilità del riformismo? Ecco, l’impossibile riformismo, inteso come politica di piccoli passi verso il progresso e l’emancipazione, è una questione che meriterebbe un dibattito aperto, franco, scientifico, tra tutti noi. Ma al momento vedo troppa paura in giro, nessuno osa affrontare l’argomento.
NP: Domanda enorme, che inevitabilmente ci costringe a evocare l’alternativa: se non può essere riforma, deve essere rivoluzione? È questo che intendi?
EB: Io mi limito a osservare che la parola “rivoluzione” è già entrata nel lessico del potere, e dei grandi cardinali dell’ortodossia capitalistica. Penso ancora una volta a Olivier Blanchard, ex capo economista del FMI, che in un paper scritto assieme a un altro grande insider del sistema, Larry Summers, ex segretario al tesoro USA, e poi anche in un dibattito con me, ha evocato una biforcazione inquietante: per evitare una “catastrofe” sociale ci vorrebbe una “rivoluzione” della politica economica. Parole forti, decisamente inusuali per quegli uomini di establishment. Ecco, io temo che questo bivio spaventoso non sia affatto campato in aria, non sia una mera voce dal sen fuggita. Al contrario, penso che quella biforcazione si intraveda all’orizzonte, e che l’attuale dinamica di guerra ci avvicini ancor più verso di essa. In questo senso, mi preoccupa molto il fatto che tra i primi a riabilitare la parola “rivoluzione” siano stati proprio degli uomini di potere, esponenti di vertice delle massime istituzioni economiche internazionali. È un fatto da non trascurare, questo, perché una volta usurpata dal potere costituito, come è noto, la “rivoluzione” rischia di diventare “passiva” nel senso gramsciano “negativo” del termine, e finisce così per assecondare le tendenze dominanti anziché pretendere di rovesciarle. Al contrario, i movimenti di emancipazione sociale sembrano in netto ritardo sulla ripresa di un discorso sulla “rivoluzione”, appaiono ancora insicuri, timorati dinanzi alla possibilità di rilanciare la parola scabrosissima, anche solo come mera ipotesi politica. Così, dal lato delle classi subalterne, la parola “rivoluzione” resta indicibile, inammissibile, un tabù assoluto. Questo impedisce anche di dare a questa parola un nuovo contenuto di classe, che sia moderno, adatto ai tempi. Una tale differenza di approccio, uno scarto così accentuato nella spregiudicatezza, anche linguistica, tra rappresentanti del potere costituito e movimenti di rivendicazione sociale, secondo me segna un ritardo grave di questi ultimi rispetto all’avanzare del processo storico, un ritardo che in qualche modo andrebbe colmato.
EC: Come si può dare nuovo contenuto alla parola “rivoluzione”?
EB: Personalmente ho cercato di proporre una sorta di update del concetto di “rivoluzione” sgombrando il campo da certi luoghi comuni del nostro tempo, che abbiamo accettato in modo del tutto acritico, senza mai metterli in discussione. Penso ad esempio alla pedestre ideologia che vorrebbe ridurre la storia complessa della pianificazione alla sola esperienza dello stalinismo. E penso alla famigerata equazione di Milton Friedman, secondo cui solo il capitalismo garantirebbe la libertà. Sono narrazioni che vanno per la maggiore, ma ci vuol poco a capire che sono false, contraddette dalla storia passata. Lo dimostrano i cenni di piano sperimentati in alcune democrazie occidentali da un lato, e l’esistenza conclamata di regimi capitalisti di stampo autoritario dall’altro. Ma soprattutto, io credo, queste idee false potrebbero esser contraddette dalle possibilità del divenire. In questo senso, ho avanzato una tesi precisa: a date condizioni, una nuova logica di pianificazione collettiva potrebbe rivelarsi uno straordinario propulsore della libera individualità sociale. In altre parole, è possibile sostenere che, in una sua forma specifica e innovativa, piano è libertà. Ho persino osato parlare di libercomunismo, in senso non liberale ma addirittura libertino. Una provocazione per épater le bourgeois et le prolétaire, certo. Ma al di là dei nomi delle cose, che possono essere più o meno irriverenti a seconda delle circostanze, è su questa cosa essenziale del rapporto potenzialmente nuovo tra piano e libertà che a mio avviso sarebbe necessario lavorare oggi. I contributi personali, tuttavia, non sono minimamente sufficienti per un tale scopo. L’impresa di risignificare la parola “rivoluzione” richiederebbe la messa in opera di colossali intelligenze collettive. Costruire un’intelligenza collettiva all’altezza di una nuova sfida rivoluzionaria è un compito immane, di una difficoltà estrema. Ma potrebbe rivelarsi urgente, viste le tendenze in atto e le tremende biforcazioni che annunciano.
EC: Chi potrebbe farsi carico di un così immane compito politico? Nel tuo libro sembri puntare sulle generazioni più giovani. Sono davvero pronte a rilanciare un’ipotesi “rivoluzionaria”?
EB: Una cosa certa è che i giovani, in larghissima parte, vivono una immane contraddizione: sono totalmente immersi in una cultura dominante individualista e consumista ma le loro effettive possibilità di affermazione sociale e di consumo sono sempre più frustrate. Questo corto circuito tra ideologia e fatti è destinato a generare una radicalizzazione delle posizioni politiche dei più giovani. Molti di essi andranno a rifugiarsi nelle vecchie strutture del familismo, quindi riprodurranno la cultura retrograda che lo caratterizza, e per questo verranno sedotti da forme di propaganda sempre più reazionarie che li renderanno potenziali soldati per nuove guerre di Vandea. Ma un’altra parte si radicalizzerà in direzione opposta. Qualche indizio, in questo senso, ce l’abbiamo sotto gli occhi. I rapporti dell’Eurobarometro, di Pew Global Research e di altri centri di ricerca sparsi nel mondo, evidenziano una fortissima sensibilità delle generazioni più giovani verso i rischi di una catastrofe climatica e una connessa volontà di cambiamento del sistema produttivo in senso radicalmente ecologista. Gli stessi sondaggi mostrano anche un grande sostegno di molti giovani verso la lotta alle discriminazioni razziali e sessuali, in concomitanza con una serie di cambiamenti rilevanti nei costumi, una notevole fluidità nella visione delle identità e degli orientamenti sessuali, e una concezione delle relazioni affettive sempre più difficile da inquadrare nei canoni della famiglia nucleare tradizionale. Ma non è finita qui. A questi interessanti segni di sovversivismo ecologista e libertario si aggiunge una novità ancor più sorprendente. A quanto pare, le generazioni più giovani risultano sempre più critiche verso l’odierno capitalismo e sembrano sempre più attratte da ipotesi alternative di organizzazione della società. Da un sondaggio dell’Institute of Economic Affairs, si scopre che per il 75 per cento dei giovani intervistati il comunismo “ha fallito solo perché attuato nel modo sbagliato” e che resta “una buona idea”. Un analogo sondaggio effettuato da Gallup mostra che il 50 per cento dei giovani attribuisce un valore positivo alla parola “socialismo”. Una tendenza analoga sembra scaturire da un sondaggio della “Victims of communism memorial foundation”, un’associazione di stampo conservatore che si impegna per contrastare la diffusione di sentimenti rivoluzionari nel mondo: stando all’indagine, il 70 per cento dei cosiddetti “millenials” propende nettamente per il socialismo e circa il 20 per cento ritiene addirittura che il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels garantisca libertà e uguaglianza più della Dichiarazione di indipendenza americana. E ancora, un sondaggio dell’IPSOS Social Research Institute mostra che il 50 per cento della popolazione mondiale intervistata considera tuttora gli ideali del socialismo fondamentali per il progresso umano, con percentuali particolarmente alte tra i più giovani. Certo, sono soltanto sondaggi, che descrivono i nuovi sentimenti di una miriade di giovani dispersi e isolati, ben lontani dal tradursi in concrete ipotesi politiche. Eppure, ai vertici del potere nessuno commette l’errore di sottovalutarli. Il motivo è che questo cambiamento nei sentimenti politici è la conseguenza di un problema oggettivo irrisolto: il contrasto sempre più accentuato tra l’ideologia individualista e consumista prevalente e la depressa realtà materiale in cui la gran parte dei giovani si trova oggi a vivere. Del resto, lo abbiamo detto e documentato, le tendenze oggettive del capitalismo stanno spingendo verso la centralizzazione del potere economico e politico in sempre meno mani, e quindi anche verso una nuova marginalizzazione sociale di fasce sempre più ampie di popolazione, specie più giovani. Ecco, in questo tempo shakespeariano che ci tocca di vivere, di farsa che rischia continuamente di trasformarsi in tragedia, vale la pena di sollevare una domanda prospettica: è possibile che proprio le tendenze oggettive del sistema a un certo punto favoriscano l’emergere di una nuova intelligenza collettiva, che si riveli capace di tramutare le delusioni del “riformismo” in una feconda disperazione, e che riesca proprio per questo a raccogliere le istanze sovversive di singole monadi isolate per tramutarle in una inedita pratica politica “rivoluzionaria”? Da lungo tempo siamo educati a rispondere risolutamente di “no”, in modo puramente istintivo, direi pavloviano. Eppure, coloro che governano il funzionamento del sistema non escludono affatto una simile svolta. Anzi, lavorano coscienziosamente ogni giorno per scongiurarla. Penso sia giunto il tempo di riflettere su diverso tipo di reazione, tra noi e loro.