È successo tutto molto, molto velocemente. Il 18 aprile Theresa May indice un’elezione straordinaria pensando di assicurarsi una maggioranza parlamentare ancora più ampia di quella a sua disposizione. Il suo piano è di affacciarsi ai negoziati sulla Brexit con un fronte di opposizione ridotto e demoralizzato: ha dalla sua sondaggi che le danno un distacco del 20% sul Partito Laburista, e un paese che ha più o meno metabolizzato l’idea che presto non sarà più parte dell’Unione europea. L’elezione è fissata per l’8 giugno.
In quel poco più di un mese e mezzo, May ha perso interamente il suo vantaggio, conducendo una campagna elettorale incerta, dai toni vaghi e trionfalistici, improntata al dire poco e ribadire la necessità di votare per lei per rafforzare il governo. Dall’altro lato, Jeremy Corbyn è sceso sul terreno della campagna con un programma, il desiderio di condividerlo, e una rete di sostenitori capillare ed efficace. A lungo sottovalutato come leader, Corbyn possiede grandi capacità oratorie ed è molto bravo in campagna elettorali. Non cosa da poco, in un territorio come quello britannico, dove il voto non riflette la maggioranza popolare a livello nazionale ma solo i seggi vinti in ciascun distretto elettorale (le constituency) dal candidato di un partito, e moltissimo si gioca sulla campagna porta a porta, i comizi, il contatto con le persone, che non è proprio il forte di Theresa May.
Risultato: un Parlamento senza maggioranza (hung, “appeso”) e una May che, nonostante abbia tecnicamente vinto, non riesce a trovare delle alleanze. Svanito l’Ukip (che ha vinto solo un seggio) e con i Liberal-Democratici fermamente sul fronte europeista, non le rimane che cercare sponda in un partito di cui il resto dell’Europa aveva a malapena sentito parlare: è il DUP, Democratic Unionist Party, un partito nordirlandese che sostiene l’appartenenza dell’Ulster al Regno Unito in opposizione allo Sinn Féin, il partito nazionalista. Il DUP ha diversi problemi: è un partito della destra ultrareligiosa e conservatrice che si oppone ad aborto e diritti LGBTQ, e la sua leader, Arlene Foster, è rimasta coinvolta nello scandalo del Renewable Heat Incentive, un programma sulle energie rinnovabili gestito dalla stessa Foster in maniera a dir poco approssimativa. Come se non bastasse, l’alleanza fra Conservatori e DUP contravviene al patto di stabilità che regola la distribuzione del potere nell’Irlanda del Nord: il Sinn Féin, che pure ha dei seggi a Westminster, non siede nel parlamento inglese per scelta. Un DUP ago della bilancia e quindi in grado di utilizzare il proprio potere per spingere il governo a facilitare le sue politiche potrebbe creare una crisi all’interno della Northern Irish Assembly, il parlamento nordirlandese.
May proverà a governare da sola, senza l’appoggio che sperava di trovare per portare a casa una Hard Brexit.
Come nota a margine: nuclearizzazione dell’Ukip a parte (i cui elettori sembrano essersi divisi equamente fra Conservatori e Laburisti, anziché confluire nei Tories come si poteva immaginare), le elezioni sono state deludenti anche per lo Scottish National Party di Nicola Sturgeon, i cui elettori sembrano non volere né la Brexit né l’indipendenza.
Quindi May proverà a governare da sola, a occhio senza averne alcuna voglia e soprattutto senza l’appoggio che sperava di trovare per portare a casa una Hard Brexit, ovvero un’uscita dall’Unione europea che permetta al Regno Unito di sottrarsi alle norme che regolano il movimento dei cittadini europei sul suolo britannico e anche all’accoglienza verso i rifugiati che continuano ad arrivare dalle zone di guerra. Forte del suo straordinario recupero, Corbyn ha già annunciato di essere pronto a guidare un governo di minoranza. E il 21 giugno si è tenuto il discorso della Regina.
Il discorso merita un paragrafo a parte, perché non si tratta di un semplice indirizzo al Parlamento da parte della monarca. Il Queen’s Speech è un discorso scritto dai ministri e letto dalla Regina, in cui si elencano i punti che il governo intende affrontare nell’anno a venire. Una sorta di discorso programmatico concordato fra sovrana e governo, che di norma si svolge con il massimo della pompa e la Regina abbigliata in ermellini, corona e scettro.
Quest’anno, citando “ragioni logistiche” (l’eccessiva vicinanza con la parata militare Trooping the Colour, che si è svolta il 17 giugno), Elisabetta II si è presentata in Parlamento in macchina, vestita di blu, con un cappellino adorno di margherite con il cuore giallo, disposte in cerchio. Un segnale di scarso gradimento della Brexit, ha detto qualcuno. L’ennesimo segnale – insieme allo slittamento del discorso stesso di un paio di giorni, e alla disponibilità della Regina verso i superstiti dell’incendio alla Grenfell Tower, che contrasta brutalmente con il rifiuto di Theresa May di affacciarsi sul luogo del disastro – che fra la Regina e la Prima Ministra i rapporti non sono esattamente idilliaci.
Forte del suo straordinario recupero, Corbyn ha già annunciato di essere pronto a guidare un governo di minoranza.
Grenfell Tower, attacchi terroristici, negoziati della Brexit in forse e con la minaccia di un’uscita senza aver concluso alcun accordo, disastrosa per l’Europa ma molto di più per il Regno Unito, che non ha dietro di sé una struttura più vasta a cui appoggiarsi: tutto questo ha reso Theresa May più impopolare che mai. E se da un lato nessuno dei commentatori ufficiali si è davvero spinto a ipotizzare una marcia indietro almeno da quest’ultimo potenziale disastro, chi segue la politica inglese dall’interno ribadisce che da parte dell’Ue c’è sempre stata la massima apertura a una rinuncia: il Regno Unito può ancora scegliere di non andarsene, di rimanere nell’Unione e onorare i suoi impegni. Un ipotetico governo Corbyn (di minoranza, ora; di probabile maggioranza a una prossima elezione, stando ai sondaggi) sarebbe disponibile a indire un nuovo referendum per testare l’opinione pubblica, ma il cambio di rotta potrebbe avvenire anche senza consultazione, se il Parlamento dovesse decidere che l’uscita è troppo svantaggiosa per il paese.
Non resta che aspettare e vedere cosa succederà nei prossimi mesi, quando i negoziati – che per volontà dell’Unione saranno in sequenza, affrontando un problema alla volta, e non in parallelo, come avrebbe voluto May – inizieranno davvero.
Un grosso ringraziamento a Heather DeLand, Deputy Campaign Manager di Elaine Bagshaw, e Matthew Dupuy, giornalista freelance, per l’aiuto nel chiarire una situazione molto complessa.