I n Italia non esiste una legge nazionale che preveda, attraverso un’azione concertata con le regioni, un’educazione sessuale fatta in classe che sia capillare, omogenea a livello territoriale e attenta alle varie identità e orientamenti sessuali di pre-adolescenti e adolescenti. Alla domanda “chi fa educazione sessuale in Italia?” la risposta più corretta però, che tenga conto delle dinamiche politiche esistenti e non si lasci andare a un senso di disfattismo generalista e male informato, sarebbe “alcuni ma non tutti”. Forse è arrivato il momento di guardare allo stato dell’arte e rendersi conto che, così come esistono enormi margini di miglioramento, esistono anche progetti e attività nei territori che possono fungere da coordinate per immaginare l’educazione sessuale del presente e del futuro.
Per quanto riguarda la presenza di uno standard nazionale, persino a livello europeo è risaputo da tempo che noi italiani non stiamo facendo i “compiti a casa”: il fondamentale report europeo del 2013 – Policies for Sexuality Education in European Union – sottolinea come l’educazione sessuale sia ormai materia curricolare obbligatoria nella maggior parte dei paesi europei, fatta eccezione per Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia, Romania e Italia, per l’appunto.
Arrivando all’oggi, ovvero sette anni dopo il report, non si può dire che qualcosa sia effettivamente cambiato: tra proposte di legge mai attuate e organizzazioni della società civile – spesso vicine al mondo cattolico ma non solo – che ostacolano il dibattito pubblico, dobbiamo constatare che l’educazione sessuale in Italia rimane fortemente frammentaria, con interventi molto diversificati sul territorio e affidata all’iniziativa individuale e/o associativa di alcuni volenterosi.
Dagli anni Novanta in poi diversi tentativi a livello nazionale si sono avvicendati. Di questi si possono menzionare i tre più recenti, ovvero la proposta di legge Costantino (2013) – “Introduzione dell’insegnamento dell’educazione sentimentale nelle scuole del primo e del secondo ciclo dell’istruzione” –, la proposta di legge Chimienti (2015) – “Istituzione di percorsi didattici e programmi di educazione alla parità di genere, all’affettività e alla sessualità consapevole nelle scuole secondarie di primo grado e nei primi due anni delle scuole secondarie di secondo grado, nonché integrazione dei corsi di studio universitari” –; in ultimo, anche all’interno della riforma “La Buona Scuola” (legge 107/2015) al comma 16 si legge: “Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità, promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni”.
Tutte proposte che sono purtroppo rimaste lettera morta, non si sono concretizzate in legge e hanno lasciato che il vuoto di “presa in carico educativa” si allargasse ancora di più.
Educazione: purché sia sessuale
Ma perché dovrebbe essere così importante insegnare l’educazione sessuale nelle scuole? Stando a un documento riassuntivo dell’OMS del 2016, l’impatto di una buona educazione sessuale ha due tipi di risultati: gli “hard outcomes” – ovvero risultati quantificabili – e i “soft outcomes”, ovvero risultati non quantificabili, che potremmo definire risultati comportamentali con ricaduta positiva sulla società (piacere sessuale e relazioni basate sul rispetto reciproco, autostima, abilità di negoziazione, decisione e assertività nel rapporto sessuale, etc.).
E se è vero che da questi ultimi non è possibile estrapolare considerazioni diacroniche, è altresì vero che i risultati quantificabili parlano chiaro: l’analisi di diversi Paesi europei dimostra che un’adeguata educazione sessuale ha impatti positivi sulla riduzione delle gravidanze e aborti nelle adolescenti; sulla diminuzione delle infezioni da HIV e a trasmissione sessuale tra i giovani tra 15 e 24 anni; sulla diminuzione di abusi sessuali e di episodi di omofobia.
In Italia non esiste una legge nazionale che preveda un’educazione sessuale fatta in classe che sia capillare, omogenea a livello territoriale e attenta alle varie identità e orientamenti sessuali di pre-adolescenti e adolescenti.
Per tutta questa serie di ragioni, la maggioranza dei nostri vicini europei ha stabilito da decenni che sessualità e affettività vanno discusse sin da giovanissimi, e il loro insegnamento è stato reso obbligatorio in Svezia dal 1955; in Germania dal 1968; in Danimarca, Finlandia e Austria dal 1970; in Francia dal 1998.
L’Olanda rappresenta, in questo senso, un caso ancora più emblematico dell’atmosfera che si respira in Europa: Lang Leve de Liefde (Lunga vita all’amore), percorso didattico attivo dalla fine degli anni Ottanta e coronato da un buon successo, è un progetto che intende promuovere una “comprehensive sex education”, cioè un’educazione alla sessualità olistica e integrata, che non si cura solo degli aspetti sanitari ed emergenziali della sfera sessuale – gravidanze indesiderate, malattie sessualmente trasmissibili, violenza – ma che raccoglie la sfida, ben più ambiziosa, di portare in classe la complessa e multiforme costellazione della sessualità: è l’educazione che parla di relazione, desiderio, conoscenza, rispetto, consenso, identità sessuale, gusti, pratiche.
Come si nota nell’Indagine nazionale sulla salute sessuale e riproduttiva degli adolescenti (2019), è schiacciante la percentuale di studenti che ritengono che la scuola debba garantire l’informazione su sessualità e riproduzione: per alcuni dalle elementari (11%), per altri dalle scuole medie inferiori (50%) e per altri ancora dalle scuole superiori (32%). Al contrario, solo il 6% degli intervistati dichiara di non ritenere utile questo insegnamento. Da parte di ragazzi e delle ragazze esiste, dunque, una forte domanda per avere un’educazione all’affettività e alla sessualità. E se questa urgenza non viene accolta dentro l’istituzione per eccellenza – la scuola – ci sono altri canali che attivano progetti per l’utenza interessata: questi sono tanto i servizi socio-sanitari, le ASL, i Consultori, quanto le associazioni, i collettivi e le reti civiche di varia natura. “Ma mentre il ruolo di queste realtà è abbastanza definito, quello della scuola è tutto da costruire” spiega Nicoletta Landi in Il piacere non è nel programma di Scienze! Educare alla sessualità oggi, in Italia.
Oltre il rapporto europeo del 2013, l’Italia disattende altre direttive decisamente importanti. Gli Standard per l’Educazione Sessuale in Europa dell’OMS (2010) sono molto chiari in merito:
“La salute sessuale richiede un approccio positivo e rispettoso alla sessualità e alle relazioni sessuali come pure la possibilità di fare esperienze sessuali piacevoli e sicure, libere da coercizione, discriminazione e violenza. Per raggiungere e mantenere la salute sessuale, i diritti sessuali di ogni essere umano devono essere rispettati, protetti e soddisfatti”. I diritti sessuali, dunque, sono godibili solo se i cittadini e le cittadine possono contare sul libero accesso alle informazioni utili alla propria vita sessuale; in secondo luogo, se parliamo di diritto alla contraccezione, in filigrana dobbiamo (anche) affrontare il tema della contraccezione gratuita (se non per tutti, almeno per alcuni).
I diritti sessuali sono godibili solo se i cittadini e le cittadine possono contare sul libero accesso alle informazioni utili alla propria vita sessuale.
Per tornare al nostro paese, le regioni italiane che ad oggi prevedono la distribuzione gratuita di contraccettivi sono solo sei: la Puglia è stata la prima a sperimentare la contraccezione gratuita per gli under 26 già nel 2008; nel 2017 segue l’Emilia-Romagna, mentre Piemonte, Toscana, Lombardia e Marche hanno approvato delibere regionali durante tutto l’arco del 2018, e con esse hanno previsto l’accesso alla contraccezione gratuita ad alcune delle fasce più “fragili” – donne disoccupate o con determinati codici di esenzione, sotto i 26 e/o i 24 anni d’età.
Come riporta un bell’articolo di Internazionale, la tetra situazione riguardo ad accesso e diffusione della contraccezione ci posiziona al 26esimo posto sui 45 paesi europei presi in considerazione dall’ultimo “Atlante europeo della contraccezione”: “L’accesso è disomogeneo e cambia da regione a regione, perché dipende dai diversi piani adottati dai consigli regionali: si registra un divario tra regioni del nord (in cui c’è più accesso ai contraccettivi) e regioni del sud”.
In questo senso, quello che abbiamo davanti agli occhi è un’Italia a 20 velocità: essendo infatti la contraccezione gratuita e l’educazione sessuale di competenza sanitaria, al momento attuale – in mancanza di una legge nazionale atta a uniformare – i confini regionali sono il vero scacchiere entro cui si gioca la partita del benessere sessuale dei cittadini più giovani.
Perché è questo il punto rovente della questione: non che in Italia non si insegni l’educazione sessuale ma, piuttosto, che disponendo le regioni di sostanziale autonomia nel decidere se destinare risorse a progetti e percorsi per l’educazione sessuale, essa risulta in perenne balia del colore politico della regione. Il problema è che l’assenza di una legge nazionale lascia emergere delle disuguaglianze che si vanno ad aggiungere ad altre già evidenti e più conosciute, lasciando così una condizione di grande disparità tra ragazzi di regioni diverse in termini di abilità, risorse e strumenti utili alla comprensione del grande enigma dell’adolescenza: la propria sessualità.
L’Italia a 20 velocità
Esempio plastico di come l’educazione sessuale segua i destini della politica ci viene dal Piemonte: è di novembre scorso la notizia che la giunta Cirio sembri voler cancellare i progetti di educazione sentimentale inaugurati dal centrosinistra. Nel 2017-2018 nella regione era partito, su iniziativa del Pd, il progetto “Educazione sentimentale” a cura del filosofo Paolo Ercolani e della filosofa e psicoterapeuta Giuliana Mieli, a suo tempo avversato “da sinistra” dalla rete piemontese di Non una di meno per la dimensione sentimentale ma mai sessuale. Ad oggi, il progetto “Guadagnare Salute Piemonte – Scuole” parla di 355 progetti attivi per i giovani, 28 dei quali sui temi della sessualità: meno dell’8%.
Smaccatamente politici sono anche i casi di Lombardia e Veneto. Se, magari, sono più lontani gli echi del “centralino anti-gender” voluto dalla Regione Lombardia e affidato ad AGE (Associazione Genitori Cattolici), è solo di giugno 2019 l’annuncio dell’assessore Majorino di voler stanziare “500mila euro dei fondi della legge 285/1997 per campagne di informazione ed educazione sessuale nelle scuole volte a sostenere la cultura della prevenzione per combattere le malattie sessualmente trasmissibili”, notizia subito criticata dal sito ProVita.
Disponendo le regioni di sostanziale autonomia nel decidere se destinare risorse a progetti e percorsi per l’educazione sessuale, essa risulta in perenne balia del colore politico della regione.
In Veneto, nel novembre 2018, era stato approvato un emendamento per l’accesso alla contraccezione gratuita in consultori, ambulatori ginecologici e farmacie (con ricetta medica).
Tuttavia nel testo finale il Veneto fa marcia indietro e l’impegno diventa quello di adottare “programmi di educazione alla salute sessuale e riproduttiva e servizi aziendali e percorsi assistenziali dedicati”: ma ad oggi, nei siti delle ULLS del Veneto, si trovano solo i roboanti proclami del fantomatico impegno per favorire un’educazione sessuale agli studenti.
E mentre la Valle D’Aosta almeno schiera in campo progetti le cui schede pdf appaiono però “inanimate”, senza che si intraveda l’attuazione reale delle attività proposte, è quasi impossibile reperire informazioni dai siti delle istituzioni del Friuli Venezia-Giulia.
Nel 2014, dalla collaborazione tra l’Assessorato della salute e Fondazione Sistema Toscana è nata l’app “Safe Sex” per offrire alla popolazione di giovani e giovanissimi – non solo toscani – uno strumento d’informazione “smart” sul tema del sesso sicuro, con 2.530 download a marzo 2020.
Nei siti delle 10 ASL del Lazio, si trova qualche progetto di prevenzione solo nel sito dell’ASL 1 di Roma. Ben più inserito nel tessuto scolastico appare il progetto Rainbow contro l’omofobia e transfobia nelle scuole, realizzato con il sostegno della Regione, progetto che prevede una sfida tra i ragazzi nella creazione di video contro omolesbobitransfobia.
Ancora diversa è la situazione dell’educazione sessuale nella Provincia Autonoma di Bolzano dove l’associazione AIED intraprende progetti già alle scuole elementari e alcuni laboratori si chiamano “Costruiamo insieme le identità di genere”. Al contrario, l’anno scorso a Trento la Lega prendeva la decisione di sospendere i corsi, in essere da 5 anni, su temi come il bullismo e la violenza di genere ma che, secondo la giunta provinciale, contribuivano anche a diffondere le famigerate “teorie gender”.
Nel Catalogo per l’anno 2019-2020 della Regione Puglia, ovvero il Piano strategico per la promozione della salute, vengono riportati i 70 progetti sul territorio che riguardano i temi più vari tra cui anche progetti su affettività e sessualità, previsti però solo nelle province di Brindisi, Foggia, Lecce e Taranto.
Per quello che riguarda altre regioni tra Centro e Sud, invece, si notano tiepidi tentativi disseminati in giro, ma in quasi tutti i casi non è dato sapere – stando alle informazioni diffuse dai siti istituzionali – l’applicazione, la diffusione, il gradimento e l’eventuale rinnovo di tali progetti.
Succede così, ad esempio, con le tre regioni caratterizzate dal numero più basso di accessi per contraccezione: come l’Abruzzo, che può vantare solo l’annuncio di un futuro stanziamento di 500mila euro per i consultori familiari; il Molise, che nel suo Piano strategico per la salute e Catalogo dei Progetti per le Scuole, presenta 3 progetti che mettono a tema la violenza sessuale, la percezione del sesso su Internet e malattie sessualmente trasmissibili; e la Sicilia, nella quale sembra “attiva” perlopiù l’area del messinese, ma non si sa molto di più.
Quella che si prova a fare in Italia è un’educazione sessuale che si deve barcamenare tra le non poche difficoltà in termini di risorse umane ed economiche, l’avversione politica e l’incertezza sul paradigma educativo più adeguato da usare.
Per l’Umbria, invece, si reperiscono informazioni solo in merito a una vicenda di settembre 2018 relativa a un protocollo applicativo sulle discriminazioni sessuali voluto dalla Giunta Pd ma che, secondo i vertici regionali della Lega, nascondeva la volontà di “indottrinamento gender” nelle scuole.
Nei siti istituzionali della Campania, sia delle ASL che in quello della Regione, alla sezione “Politiche sociali giovani” non c’è traccia di progetti volti all’educazione sessuale per i più giovani. Stessa mancanza di informazioni reperibili riguarda la Calabria: navigando nei siti delle 5 Aziende Sanitarie Provinciali, l’educazione sessuale per pre-adolescenti e adolescenti non viene mai menzionata. Situazione molto simile in Sardegna dove, nel quadro delle iniziative regionali, né l’affettività né la sessualità trovano spazio.
La Basilicata ha all’attivo progetti in entrambe le 2 ASP, tanto a Potenza, quanto a Matera – ma in questo secondo caso i progetti vengono implementati nei consultori, rinunciando quindi in partenza a quella “universalità” che lo spazio-classe offre.
La situazione non è rosea per due ordini di motivi: in primo luogo, esiste in molti casi un problema di comunicazione da parte delle istituzioni, problema che va dal mancato aggiornamento dei siti istituzionali alla mancata comprensione del ruolo che Internet rappresenta per pubblicizzare i progetti pubblici – ad esempio, per il loro potenziale di good practice replicabili altrove.
Nonostante il palese e trasversale cortocircuito comunicativo, rimane a monte un problema precipuamente politico: al di là di quanti progetti vengano pubblicati sui siti, la vera domanda rimane un’altra, ovvero “Quanti progetti vengono finanziati, partono e vengono adottati dalle scuole?”.
Perché quella che si prova a fare in Italia è un’educazione sessuale che si deve barcamenare tra le non poche difficoltà in termini di risorse umane ed economiche, l’avversione dei partiti afferenti alla destra dell’arco parlamentare – spesso in combutta con frange di fondamentalismo cattolico – e l’incertezza sul paradigma educativo più adeguato da usare. Quella che si prova a fare in Italia è un’educazione che deve remare contro la marea montante degli ostacoli.
Il modello emiliano
Nel mezzo di questo variegato scenario, il caso più virtuoso riguarda senza dubbio l’Emilia-Romagna, dove dal 2013 è attivo sul territorio W l’amore (la storia del progetto si trova nel libro di Nicoletta Landi citato sopra) – ora in fase di sperimentazione anche in Toscana e nelle Marche –, un progetto rivolto agli studenti delle terze classi delle scuole secondarie di primo grado che ha lo scopo di promuovere benessere e competenze nella sfera affettiva e sessuale.
Il caso più virtuoso riguarda l’Emilia-Romagna, dove è attivo sul territorio un progetto per l’educazione sessuale integrata, interattiva e multidisciplinare.
Inizialmente avviato come sperimentazione in tre scuole di Bologna, Forlì e Reggio Emilia, il progetto è stato successivamente esteso a tutta la Regione – nonostante qualche sparuto detrattore nel piacentino – coinvolgendo, nel 2014-2015, ben 17 distretti sanitari, 34 scuole, 121 classi e 2.903 studenti e studentesse. Dal momento che negli anni il numero di istituti e classi è stato perlopiù stabile, si può quantificare che ad oggi sono stati coinvolti all’incirca almeno 12mila tra studenti e studentesse.
Si tratta di un percorso di 5 incontri, di cui i primi 4 in classe e portati avanti dai docenti disponibili – più spesso professoresse di scienze e italiano – e l’ultimo svolto dagli operatori e dalle operatrici degli Spazi giovani durante la visita a questi ultimi. Nella cornice concettuale del progetto, temi “critici” come ruoli (stereotipati) di genere, masturbazione sia femminile che maschile, piacere, pluralità degli orientamenti sessuali, negoziazione dell’intimità, uso di internet e pornografia non vengono stigmatizzati ma “illuminati” dai diversi punti tramite un magazine diviso in sezioni tematiche da usare in classe, magazine a sua volta accompagnato da un manuale per aiutare l’insegnante a creare un ambiente “emotivamente sicuro” in cui lasciar parlare possibilmente tutti i ragazzi e le ragazze.
Ad oggi, “W l’amore” è un unicum nel panorama italiano per la sua longevità, per il tasso di gradimento degli utenti coinvolti e, non da ultimo, per il suo porsi in continuità con l’esperienza olandese di “Lang Leve de Liefde”, riuscendo così a fare “qualcosa di diverso” dai progetti guidati da un taglio più prettamente medico e di prevenzione.
Sono progetti come questo – insieme all’app “Safe Sex” della Regione Toscana e il progetto Rainbow in Lazio – a poter indicare la via per l’educazione sessuale di cui abbiamo bisogno: integrata, interattiva e multidisciplinare.
Rischi e potenzialità di internet
Facendo di nuovo riferimento all’Indagine nazionale sulla salute sessuale e riproduttiva degli adolescenti (2019), si nota come Internet sia di gran lunga la fonte di informazione primaria per l’89% dei ragazzi e l’84% delle ragazze (del campione preso in esame) per sessualità e affini, mentre molto meno credito viene dato a famiglia, contesto amicale e scuola. La rete sociale “offline” viene dunque scavalcata a fronte di quella online: multiforme, inaspettata, incontrollabile, ma preferibile forse per questioni di pudore e maggiore privacy.
Internet è di gran lunga la fonte di informazione primaria per l’89% dei ragazzi e l’84% delle ragazze.
È proprio Internet come fonte informativa in questi campi, infatti, la vera novità degli ultimi anni: l’online non è da intendersi solo come l’accesso illimitato al porno – tema gigantesco che merita una trattazione tutta sua e che non affrontiamo qua – ma che riguarda il proliferare di canali e pagine social nati per fare divulgazione, informazione e sensibilizzazione sessuale e portati avanti dalle professionalità e realtà più diverse. Accanto, infatti, alla fruizione di contenuti creati da ginecologhe, ostetriche, operatori vari, educatrici, e adolescenti stessi, anche alcuni “big” – tra cui Pornhub, Lines, Netflix con la serie “Sex Education”, la serie “Big Mouth”, Freeda, etc. – da qualche tempo si sono affacciati su questo scenario e contribuiscono a quello scacchiere a più voci che è il discorso sulla sessualità in Italia oggi.
Realtà di informazione senz’altro, ma nelle quali l’adolescente è spettatore e fruitore prima di essere adolescente: non è casuale, infatti, parlare di ‘divulgazione’, ‘informazione’ e ‘sensibilizzazione’ ma non di ‘educazione sessuale’: da solo o da sola davanti allo schermo, l’adolescente non viene “trattato” per quella che è la sua specificità e le sue necessità di dialogo e confronto tanto con i professionisti quanto con i suoi pari non vengono soddisfatte. In questo senso, senza un percorso di monitoraggio e un’attenzione specifica all’utente, il patto educativo viene a mancare e il contenuto visivo, audiovisivo o scritto viene recepito senza la mediazione necessaria di chi è formato per questo ruolo.
Non si tratta di bandire o di vietare tale fruizione ai ragazzi, azioni che sarebbero tanto stupide quanto inefficaci: si tratta di iniziare a concepire un’educazione sessuale integrata che si curi anche di come i ragazzi di oggi si informano e decidono di vivere la propria sfera sessuale. Si tratta di mettere in connessione i contenuti online con le competenze offline, di mettere a disposizione maggiori risorse per formare personale qualificato e per attivare progetti nelle scuole, di creare nella scuola stessa un ambiente in cui qualunque adolescente può sentirsi libero di esprimere i propri dubbi e perplessità senza il timore del giudizio. Si tratta di comprendere come tutto ciò possa portare a una cittadinanza più consapevole, equa e rispettosa.
A voler essere maliziosi, si potrebbe pensare che è un pensiero da puritani quello per cui ragazzi e ragazze vanno accompagnati verso l’approfondimento delle tematiche affettive e sessuali: un pensiero che cambia completamente di segno se riprendiamo in mano uno dei dati citati sopra, secondo il quale il 94% degli adolescenti oggi ritiene che la scuola dovrebbe assumere un ruolo protagonista e non ancillare in merito all’educazione sessuale. Parafrasando un’espressione che tutti e tutte conosciamo: “È l’adolescenza che ce lo chiede”.