G ià a febbraio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva parlato di “infodemia” in relazione al contesto informazionale in cui si stava diffondendo la pandemia del nuovo coronavirus. L’OMS parlava espressamente del problema causato dalla “sovrabbondanza di informazioni, accurate e no, che rende difficile per le persone trovare fonti fidate e linee guida quando ne hanno bisogno”. Prima ancora che la qualità dell’informazione disponibile sulla COVID-19, a preoccupare la maggiore organizzazione globale a occuparsi di salute era la sua quantità e l’effettiva possibilità di orientarsi in uno scenario informazionale cacofonico e di difficile navigazione. Rispondendo alle domande di The Lancet, una delle maggiori riviste accademiche di medicina, Sylvie Briand, Direttore del dipartimento per la gestione dei rischi infettivi dell’OMS, parlava espressamente di uno “tsunami di informazione” che stava accompagnando la diffusione della COVID-19.
La pandemia ha avuto un impatto enorme sull’informazione sul giornalismo in tutto il mondo, portando all’estremo alcune dinamiche rimaste in nuce da qualche anno, sia in relazione al come si fa giornalismo in questa epoca, che all’economia del giornalismo. Troppo spesso si è tenuto a mantenere i due campi separati o a pensare che non vi fosse necessariamente un punto di contatto tra la sfera editoriale e quella economica del lavoro giornalistico quando, al contrario, specialmente per il giornalismo online, i modelli di business hanno ricadute esplicite sui contenuti messi a disposizione. Se non vi è una correlazione diretta, o un rapporto di causa-effetto automatico, è però sempre più palese come certi mostri tipici del business del giornalismo su Internet ne abbiano generati altri sul fronte dei contenuti e delle attitudini nei confronti delle audience. In primis, la necessità di servire il business model della pubblicità online, largamente basato sull’accumulo di attenzione e click da parte dei lettori, ha contribuito a fare del clickbait – ovvero l’abuso di titoli sensazionalistici o toni particolarmente enfatici – una pratica purtroppo comune e utilizzata quotidianamente anche da testate che vantano o vorrebbero vantare una credibilità contenutistica alta. La pandemia ha inevitabilmente fatto da amplificatore e moltiplicatore di questi problemi, venendo a colpire un settore che timidamente stava cercando di riemergere da più di un decennio di crisi economica già profondissima.
Si tende a pensare che non ci sia necessariamente un punto di contatto tra la sfera editoriale e quella economica del lavoro giornalistico quando, al contrario, i modelli di business hanno ricadute esplicite sui contenuti messi a disposizione.
Un libro uscito di recente ed edito in Italia da Il Saggiatore, Smetti di leggere le notizie, dell’autore svizzero Rolf Dobelli, contiene diversi spunti interessanti e utili per tentare di immaginare il giornalismo post-pandemia. Il libro di Dobelli parte da un presupposto: “le notizie sono per la mente quello che lo zucchero è per il corpo”. L’autore fa riferimento, nello specifico, a quel genere di contenuti giornalistici brevi, che si limitano a portare alla nostra attenzione l’esistenza di un fatto, spesso proveniente da contesti che poco toccano il vissuto quotidiano dei lettori e delle lettrici. Per Dobelli, questo genere di contenuti aggiungono ben poco valore alla nostra comprensione del mondo e dei nostri tempi e, anzi, contribuiscono al complessivo information overload fornito dal giornalismo contemporaneo e alla passività delle audience. Il libro è un elogio dello slow journalism e consiglia ai lettori di intraprendere una dieta giornalistica, replicando quella del suo autore, al fine di ridurre al minimo il consumo di “notizie” e favorire invece la fruizione di contenuti più ricchi, lunghi e strutturati, come reportage, approfondimenti o la lettura di libri. C’è ovviamente molto di condivisibile in questo suggerimento, a cominciare dall’invito a focalizzarsi su testate prestigiose e riconosciute per la loro capacità di analisi, piuttosto che lasciarsi dettare l’agenda dell’informazione dal costante stato di “breaking news” del giornalismo digitale o dagli algoritmi delle maggiori piattaforme.
Questo stato di cose nel giornalismo digitale, in particolare in relazione con la sovrapproduzione di contenuti, però, ha origine negli assetti e nelle dinamiche economiche stesse attorno alle quali il giornalismo digitale opera. Per anni è stata infatti l’economia dell’attenzione a indirizzare maggiormente gli andamenti dell’informazione sul web: la pubblicità online, infatti, decreta il successo economico (e quindi gli introiti) sulla base di metriche grezze, sui click e sul volume visibilità grezza che i contenuti riescono a generare. Se il giornalismo online è così pieno di contenuti e sei i maggiori siti di news producono un tale volume di “notizie” (nell’accezione di Dobelli) è principalmente alla pubblicità che bisogna guardare e al cibo che quel sistema richiede agli editori per sostenersi: contenuti, contenuti e contenuti, indipendentemente dalla loro qualità. Le homepage con decine di link cliccabili quando scoppia una breaking news, le colonne infami con i video di animali e incidenti e le gallery di immagini saccheggiate dai social nascono qui.
Il nuovo coronavirus, però, ha fatto registrare un ulteriore cambio di scenario: se è cresciuta esponenzialmente la domanda di informazione da parte dei lettori e delle lettrici in cerca di informazioni sul virus, è parallelamente crollata la fornitura economica normalmente garantita dalla pubblicità, complice il devastante impatto economico del lockdown e della pandemia. Nel Regno Unito si calcola una possibile perdita per il settore di circa 50 milioni di sterline; negli USA si susseguono notizie di licenziamenti, tagli al personale e ai budget delle redazioni, specialmente quelle locali; e timori simili si percepiscono in tutta Europa. In questo contesto economico destinato a peggiorare con l’acuirsi della crisi causata dalla pandemia, si assiste però a un effetto interessante: per varie testate sono cresciuti – anche sensibilmente – i lettori disposti a investire del denaro in abbonamenti, membership o altre forme di finanziamento diretto al loro giornalismo. Secondo alcune analisi, la crescita della domanda di contenuti giornalistici avrebbe raggiunto anche il 90% rispetto allo scorso anno, un segnale che il settore dovrebbe recepire come un invito a focalizzarsi sul fidelizzare le loro audience e costruire relazioni di lungo periodo con esse, anche finanziarie, proponendo forme di membership o abbonamenti digitali. Il trend è chiaro in tutto il mondo e, anche in Italia, tutti i giornali maggiori si sono dotati o si stanno dotando di alcune forme di finanziamento di questo tipo. Il coronavirus ha chiaramente mostrato come questa sia una strada virtuosa che i giornali dovrebbero seguire anche per lasciarsi progressivamente alle spalle la dipendenza dalla pubblicità online, controversa dal punto di vista della privacy, fastidiosa dal punto di vista dell’esperienza di lettura, poco redditizia per gli editori e mal tollerata dalle audience, come confermano i dati in crescita sull’uso degli adblocker. Perché continuare a mantenere centrale un business model da cui i lettori sentono il bisogno di difendersi?
La pubblicità targhettizzata è da tempo indicata come una scoria del passato o, per citare la ricercatrice statunitense Rebecca MacKinnon, il carburante fossile dell’economia di Internet. L’ascesa dei modelli di finanziamento diretto da parte dei lettori è certamente un segnale del fatto che, progressivamente, gli editori potranno basarsi in modo meno decisivo sulla fornitura economica garantita dalla pubblicità, mitigando di conseguenza gli impatti negativi sui loro contenuti. Non sarà così per tutti – nel giornalismo digitale non esistono ricette buone per tutti – e non sarà immediato, ma il giornalismo post-coronavirus dovrà certamente fare lo sforzo di rimettere al centro i lettori e le sue comunità di riferimento. Se questo passaggio è certamente positivo, non è però scevro di punti controversi. In primis: la presenza di più contenuti a pagamento si traduce in una minore (o più complessa) accessibilità del giornalismo. Seppur disfunzionale e problematico e spesso scadente, il giornalismo grauito basato sui click ha anche significato un’enorme democratizzazione dell’informazione in termini di accesso. Blindare i contenuti dietro paywall o abbonamenti digitali potrebbe acuire un problema rimasto in nuce: quello delle diseguaglianze nell’informazione.
La maggiore incidenza di contenuti a pagamento potrebbe acuire le disparità nell’informazione, creando una sorta di “journalistic divide”.
L’ultima edizione del Digital News Report del Reuters Institute for the Study of Journalism di Oxford – forse lo studio periodico più influente sul giornalismo digitale – sollevava questo punto, ricordando come la maggiore incidenza di contenuti a pagamento potrebbe acuire le disparità nell’informazione: ai paganti che possono permettersi un abbonamento arriverebbe la buona informazione e per chi, al contrario, non fosse possibile spendere, potrebbe essere lasciata solo informazione scadente, riciclata o le “notizie”, nell’accezione di Dobelli. Un effetto di lungo periodo potrebbe essere l’ascesa di un ambiente giornalistico online diviso in due e profondamente diverso con da un lato i più abbienti (e già più engaged con il giornalismo) e, dall’altro chi non paga, trattato dagli editori come una massa informe da cui estrarre click e attenzione. Una sorta di “journalistic divide” molto simile al “digital divide”, che indica invece le disparità di accesso alle tecnologie dell’informazione. Affinché il passaggio a questo assetto post-coronavirus sia efficace servirà quindi anche uno sforzo collettivo per non “chiudere” eccessivamente il giornalismo in una bolla per i ceti abbienti liberal. Non può bastare quindi l’appello di Rolf Dobelli ad abbonarsi e a leggere Foreign Affairs, il New Yorker o l’Economist per sfuggire ai pericoli delle “notizie”.
Quello che occorrerà sarà uno sforzo complessivo di re-immaginazione dei rapporti tra giornali e le loro audience per far sì che le seconde siano davvero al centro delle decisioni degli editori e che le proposte editoriali e contenutistiche siano costruite su un rapporto fiduciario e di comunità che possa portare anche a una maggiore predisposizione allo spendere soldi per consumare le news. Forse mai come durante la pandemia e le settimane di lockdown, abbiamo chiesto al giornalismo di raccontarci il mondo e quello che stava accadendo. Il giornalismo ha risposto in vari modi, approfondendo le eccellenze rese possibili dalla rete e accentuando i suoi difetti statutari e i suoi problemi più palesi, contribuendo spesso alla confusione. Questo però è il momento ideale per riscrivere il modo in cui si fa informazione: la crisi sarà dolorosa e chiuderà altri spazi ma è l’inizio del mondo nuovo e di come lo racconteremo.