L a crisi ambientale suscita un’apprensione diffusa, [ma] poco tangibile nei saperi, politicamente marginale, elettoralmente insignificante”. Siamo nei primi anni duemila e a scrivere queste righe sfortunate è l’allora ministro francese della pianificazione territoriale Yves Cochet, in un libro dal titolo programmatico come pochi: Sauver la Terre (2003). “Mai e in nessun luogo al mondo si sono visti imponenti cortei contro l’aumento dei gas a effetto serra, contro la perdita della biodiversità, contro l’accumulazione di molecole di sintesi nell’ambiente”. Solo qualche tempo fa la situazione non pareva granché mutata, almeno a leggere l’auspicio con cui Amitav Ghosh chiudeva La Grande Cecità (2016): “mi piacerebbe credere che un’ondata di movimenti laici di protesta in tutto il mondo possa farci uscire dal vicolo cieco e portare a cambiamenti decisivi. […] È difficile immaginare che dei movimenti popolari di protesta possano acquisire abbastanza slancio in un orizzonte così ristretto”.
C’è voluta un’altra manciata d’anni prima che gli scioperi mondiali della scuola per il clima, i die-in di protesta nei luoghi pubblici e le crescenti dichiarazioni di emergenza climatica facessero fallire alcune delle previsioni più calamitose. Il destino ecologico dell’umanità non si è accartocciato su se stesso, inerte e apatico come molti immaginavano, ma ha preso a dispiegarsi con rinnovato vigore sulle spalle di un attivismo che combina la crisi del clima a quella delle grandi narrazioni economiche e politiche, il riscaldamento globale al ritorno prorompente della contestazione giovanile.
Per ora, il merito principale del Fridays For Future e degli altri movimenti neo-ecologisti come Extinction Rebellion, è quello d’aver finalmente trasformato l’ambientalismo da moto controculturale e carbonaro – certo sgradito al potere, ma tutto sommato innocuo – a tema politico del momento. Da quando Greta Thunberg ha cominciato a scioperare per il clima il 20 agosto del 2018, il suo movimento non ha mai smesso di crescere in adesione e in consensi, tanto che alle elezioni europee dello scorso 26 maggio se ne sono potuti osservare i primi riflessi politici: il “voto giovane” degli europei ha infatti permesso ai partiti ecologisti di ottenere il miglior risultato di sempre, anche se l’“onda verde” non è riuscita propagarsi al di fuori dei Paesi dell’Europa settentrionale.
Mentre alcune formazioni politiche sperano ancora che le contestazioni ambientaliste si esauriscano da sé, altre hanno prontamente cercato di normalizzare e pacificare il carattere dirompente di un attivismo che si vuole necessariamente radicale. I ripetuti inviti a Greta Thunberg da parte dei leader di mezza Europa sono solo l’ennesima conferma di come il potere cerchi subito di compiacere, con atteggiamento paternalistico e pietosamente carezzevole, la pressione esercitata da un movimento sociale che ne mette in discussione la legittimità.
Thunberg, saggiamente, ha sempre cercato di smarcarsi dalla politica ingorda, rapace, perennemente pronta ad allungare la zampa per strappare via i nuovi germogli del consenso. “Il nostro sciopero dalla scuola non ha niente a che fare con la politica di un partito”, si può leggere ne La nostra casa è in fiamme, il libro che la leader del Fridays For Future ha scritto assieme ai genitori per raccontare la genesi turbinosa del più grande movimento ambientalista mai visto in circolazione. “Al clima e alla biosfera non interessa niente della politica e delle nostre parole vuote, neanche per un secondo. A loro importa solo cosa facciamo nella pratica”.
Anche Jamie Kesley Fry, redattore del New Internationalist ed esponente di Extinction Rebellion, ha sostenuto pubblicamente posizioni simili: “questo non è un movimento politico, questo è un movimento di umanità. Siamo di tutti i contesti sociali, di tutte le età e le razze, uniti da un unico desiderio, un sogno: dare un futuro buono, dignitoso e amorevole per le generazioni a venire”. Il che non significa che i movimenti siano puramente apolitici: l’obiettivo iniziale, dichiarato, delle formazioni neo-ecologiste era proprio quello di far entrare la crisi ambientale nell’agenda politica, tanto che ormai la domanda non è più se sia compito dei governi lavorare per la conversione ecologica delle società, ma piuttosto come abbiano intenzione di realizzare un cambiamento di tale portata. Ed è proprio sul “come” che rischiamo di ristagnare a lungo.
Intersezionalità climatica
Nell’ecologia politica degli ultimi anni ha prevalso la linea della diplomazia climatica, secondo la quale l’umanità dovrebbe superare le proprie divisioni geopolitiche attraverso patti ecologici e cooperazione internazionale, unico viatico per governare efficacemente il cambiamento climatico che avanza. Contro quest’impostazione ritenuta inoffensiva, soporifera, sterile ed eccessivamente “legalistica” si scaglia Razmig Keucheyan nel suo La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica (ombre corte, 2019). Per il sociologo svizzero, la crisi climatica “richiede [al contrario] la radicalizzazione degli antagonismi, vale a dire la radicalizzazione della critica al capitalismo”. L’immaginario neoliberista oggi dominante dipinge infatti la natura come estranea ai rapporti di forza sociali, quando “in realtà, è la cosa più politica che ci sia”: un teatro di conflitti che senza dubbio confuta la visione totalizzante e indifferenziata dell’umanità, uniformemente coinvolta dalla (e responsabile della) crisi ambientale.
Keucheyan suggerisce allora di introdurre nell’ecologia politica il concetto di intersezionalità, coniato originariamente nei gender studies da Kimberlé Crenshaw per mostrare come i diversi vettori delle disuguaglianze sociali – sessismo, razzismo, classismo – non fossero indipendenti gli uni dagli altri, ma reciprocamente interrelati e sovrapposti. Secondo Keucheyan “l’intersezionalità tra la razza, la classe e il genere […] deve essere completata da una quarta dimensione, che la complica: la natura”. Si può parlare così di intersezionalità climatica per rendere conto delle disuguaglianze sociali nell’impronta ambientale e, al tempo stesso, nella distribuzione delle conseguenze esiziali della crisi climatica.
Bisogna rendere conto delle disuguaglianze sociali nell’impronta ambientale e nella distribuzione delle conseguenze della crisi.
La prima frattura sociale che l’intersezionalità climatica ci indica è quella generazionale: “non possiamo votare per le elezioni”, scrive Greta Thunberg nel suo libro, “anche se le questioni politiche in gioco in questo momento influenzeranno le nostre vite in un modo che non ha precedenti rispetto alle altre generazioni”. Al conflitto intergenerazionale si aggiunge poi la disputa economica: le popolazioni e gli individui con un reddito più basso hanno un minore impatto ambientale, e tuttavia sono e saranno i più esposti al rischio di catastrofi naturali. I più ricchi troveranno invece il modo di sfuggire a siccità, tempeste tropicali e altri esiti nefasti del cambiamento climatico, come sottolineato in un report delle Nazioni Unite che già prefigura il rischio di un possibile “apartheid climatico”.
“Parlare dell’impatto della società in generale sulla natura non ha molto senso. […] Gli studi sulla questione ci dimostrano che questo impatto è, a diversi livelli, connesso al reddito” (Keucheyan). Il 10% più ricco della popolazione mondiale è responsabile del 50% delle emissioni di gas serra, mentre al 50% più povero ne è imputabile soltanto il 10%. “La Gran Bretagna e gli Stati Uniti generano il 60 per cento delle emissioni nel 1900, il 55 per cento nel 1950 e quasi il 50 per cento nel 1980”, come riportano Cristophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz nel loro La Terra, la storia e noi. L’evento Antropocene. In questo momento, il Pentagono rilascia nell’atmosfera più gas serra di interi paesi industrializzati come la Svezia, la Danimarca e il Portogallo, mentre metà delle emissioni globali dal 1998 a oggi può essere ricondotta a sole venticinque società produttrici di combustibili fossili. La crisi climatica si origina e si spiega in quest’estrema polarizzazione dell’impronta ecologica.
Disuguaglianze ecologiche
Va detto però che la consapevolezza delle iniquità socio-ecologiche non è certo nuova. Già nel suo La scommessa della decrescita, Serge Latouche snocciolava alcune proporzioni con matematica precisione: “un americano medio consuma ogni anno 9 tonnellate di equivalente petrolio e un francese 4 tonnellate, ovvero rispettivamente 430 e 200 volte di più di un abitante del Mali, che [ne] utilizza solo 21 chili”.
Allora come oggi la biosfera terrestre riusciva ad assorbire solamente 11 gigatonnellate di CO₂ delle oltre 30 complessivamente rilasciate nell’atmosfera: per garantire la sostenibilità del ciclo del carbonio le emissioni pro-capite non avrebbero dovuto superare le 1,8 tonnellate, pari a 500 chili annui di equivalente carbone (meno del 10% di quanto consumato da un americano medio).
È un budget di carbonio che può essere dilapidato semplicemente con un viaggio aereo di andata e ritorno oltreoceano, o percorrendo in macchina l’equivalente di 5.000 chilometri. Per rientrare nei parametri della sostenibilità ambientale le emissioni pro-capite di CO₂ si sarebbero dovute ridurre già allora di tre volte in Europa e di nove volte negli Stati Uniti. Inutile ribadire come ciò non sia avvenuto, anzi: entro il 2030 si prevede che annualmente saranno quasi 60 le gigatonnellate di gas serra emesse in tutto il mondo.
Solo una sparuta minoranza della popolazione mondiale può vivere agli attuali standard di vita occidentali.
Concentrarsi sul valore pro-capite delle emissioni è fondamentale per realizzare quella che lo scienziato politico Timothy Mitchell ha chiamato “democrazia del carbonio”, l’antecedente della “giustizia climatica” cui fa riferimento Greta Thunberg nei suoi discorsi pubblici. Se si considerano le emissioni totali di gas serra, infatti, Cina e India sono oggi i due paesi in assoluto più inquinanti, con rispettivamente 10 e 5 milioni di tonnellate di CO₂ rilasciate ogni anno. Ma il dato pro-capite ribalta la classifica: nel 2016, in Cina, le emissioni individuali erano pari a quelle che Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania registrarono nel 1885, anche se con grandi disparità tra città e campagna. “Noi [occidentali] diciamo che loro non possono vivere come noi”, commentava Hans Rosling in un passo di Factfulness dedicato proprio alle disuguaglianze ecologiche. “Ma sarebbe più vero dire che noi non possiamo vivere come noi”. L’esperimento bicentenario dell’economia del carbonio ci ha sbattuto in faccia la cruda realtà che solo una sparuta minoranza della popolazione mondiale può vivere agli attuali standard di vita occidentali.
Oltre alla correlazione tra reddito e impatto ambientale, il concetto di intersezionalità climatica porta a galla anche il legame tra riscaldamento globale e concentrazione del capitale. Una ricerca condotta di recente da Noah Diffenbaugh e Marshall Burke ha infatti dimostrato come nell’ultimo mezzo secolo il riscaldamento globale abbia inasprito le disuguaglianze economiche già esistenti tra i Paesi di circa il 25%. È vero infatti che le temperature medie stanno crescendo in tutto il mondo, ma con esiti geograficamente molto diversi: analizzando la relazione storica tra temperatura e fluttuazioni economiche, i due ricercatori dell’Università di Stanford si sono accorti che il riscaldamento globale sta oggi arricchendo le economie avanzate del Nord del mondo, e contemporaneamente impoverendo quelle più arretrate del Sud.
Lo scioglimento dell’Artico, ad esempio, minaccia di relativizzare l’importanza di alcuni nodi strategici per i commerci nei mari subequatoriali, quali lo stretto di Malacca nel sudest asiatico o quello di Ormuz in Medio Oriente. “L’apertura di rotte marittime artiche [tra le quali il famigerato passaggio a Nord-Ovest] ridurrà la pressione esercitata su alcuni luoghi, per aumentarla su altri, modificando di conseguenza la configurazione delle alleanze e dei rapporti di forza” in favore dei Paesi del nord del pianeta (Keucheyan).
Finanza ambientale
I paesi africani, sudamericani e del sud-est asiatico hanno contribuito solo marginalmente al riscaldamento globale, ma nel prossimo futuro saranno quelli a subirne maggiormente le conseguenze, anche perché peggio equipaggiati per farvi fronte.
Tra i mezzi con cui le comunità e gli individui si stanno attrezzando per adattarsi al cambiamento climatico troviamo certamente le misure di tipo assicurativo, cui Keucheyan dedica un intero capitolo del suo libro. Le assicurazioni contro tempeste, uragani, inondazioni e siccità stanno difatti aumentando a un ritmo vertiginoso, anche se è stato dimostrato che gli esseri umani assicurano da sempre se stessi e i propri beni contro i disastri naturali. Ne Il mondo fino a ieri Jared Diamond descrive l’usanza degli agricoltori della Nuova Guinea di disseminare le coltivazioni in appezzamenti tra loro molto lontani, così da abbattere il rischio di una completa perdita del raccolto dovuta a calamità naturali geograficamente circoscritte.
Lo stesso principio ancestrale di dispersione topografica del rischio rimane centrale anche nelle forme moderne di assicurazione ambientale, che sarebbero impensabili senza il ruolo finanziario svolto dai riassicuratori – le compagnie internazionali che assicurano le compagnie nazionali. Aggregando su scala globale i premi dei contratti stipulati localmente, le polizze dei riassicuratori ammortizzano il pericolo di insolvenza, tutelano i profitti e riescono a coprire anche le perdite troppo grandi perché le assicurazioni nazionali possano farvi fronte da sole.
Le comunità insediate a ridosso dei deserti o nelle aree litorali saranno le prime a subire la “perdita dell’habitat”.
Per potersi assicurare occorrono però i mezzi economici sufficienti a farlo, e non è dunque un caso se “nei paesi in via di sviluppo solo il 3 per cento dei beni perduti durante le catastrofi naturali è oggi assicurato, mentre è più del 40 per cento nei paesi sviluppati” (Keucheyan). Inoltre, non tutti gli effetti del cambiamento climatico possono essere assicurati: la desertificazione o l’aumento del livello dei mari, per esempio, non sono fenomeni assicurabili perché spazialmente e temporalmente non circostanziati.
L’intersezionalità climatica suggerisce così che le comunità insediate a ridosso dei deserti o nelle aree litorali saranno le prime a subire quella che Saskia Sassen nel suo Espulsioni ha definito loss of habitat, “perdita dell’habitat”. “Attualmente dai venti ai trenta milioni di persone migrano ogni anno a seguito di un disastro naturale e le Nazioni unite prevedono cinquanta milioni di migranti ambientali ogni anno intorno al 2030” (Bonneuil e Fressoz). In uno studio del 2017, Charles Geisler della Cornell University stimava addirittura due miliardi di rifugiati climatici entro la fine del secolo.
Che fare, allora?
Nel compito immane e comprensibilmente terrifico di decarbonizzare le società umane, le scelte politiche devono senz’altro tenere conto dell’intersezionalità climatica, della distribuzione differenziale delle conseguenze del riscaldamento globale, dell’esclusione e dell’elitarismo ambientale prodotti dalla perdita degli habitat.
Mentre centri di ricerca e organismi terzi come il progetto Drawdown discutono di soluzioni geoingegneristiche e di cambiamento drastico degli stili di vita per la riduzione della concentrazione atmosferica di CO₂, pare che l’unica proposta sul tavolo della politica internazionale sia al momento quella di aumentare la tassazione dei beni più inquinanti. In un loro recente articolo su The Conversation, Rick Stafford e Peter Jones sostengono che una misura del genere trasformerebbe viaggi aerei, combustibili fossili e carni rosse in beni di lusso, circoscrivendone così la domanda a un enclave globale di pochi abbienti. Simile, almeno negli effetti, sarebbe l’ipotesi di internalizzare nel costo dei prodotti l’equivalente del “danno ambientale” provocato dalla loro produzione e distribuzione. Si tratta in entrambi i casi di misure che, non tenendo conto dell’intersezionalità climatica, concepiscono la crisi ecologica come risolvibile a prescindere dalle disuguaglianze economiche e sociali, che potrebbero uscirne ulteriormente inasprite – come ci ha insegnato l’esperienza dei gilets jaunes in Francia.
Scaricare sulla condotta degli individui la responsabilità della crisi è un tentativo maldestro di depoliticizzarla.
Una delle proprietà macroeconomiche più note dei combustibili fossili è la loro “anelasticità”, la rigidità della domanda all’aumentare del prezzo. La stragrande maggioranza delle persone impiega infatti l’energia fossile per soddisfare bisogni primari: per molti l’emissione di un chilogrammo di anidride carbonica è questione di sopravvivenza o necessità, per chi è più ricco di velleità. È evidente che in un progetto serio di transizione ecologica la penalizzazione dell’uso privato degli idrocarburi dovrebbe tenere conto di tali differenze.
La volontà di vivere in maniera ecologicamente sostenibile, di cui ha dato prova l’entusiasmo crescente per i movimenti neo-ambientalisti, si scontra inevitabilmente con i limiti delle strutture economiche che la deprimono e la pervertono, un gravame che solo la politica può contribuire ad alleggerire. “La scelta individuale di austerità, frugalità, semplicità rischia di non essere sufficiente per salvare il pianeta” scrive Latouche, ricordando quale calvario sarebbe la vita dell’ecologista convinto in un mondo ancora fondato sulla dittatura del consumo e sul mito della crescita. Senza il supporto dello Stato, una drastica riduzione individuale dell’impronta ecologica rimarrebbe eticamente impraticabile ed economicamente insostenibile, come sostenuto dal filosofo critico Walter Sinnott-Armstrong nel suo controverso saggio del 2005 It’s not my fault.
Anche Amitav Ghosh è della stessa opinione: “la scala del cambiamento climatico è tale che le scelte individuali non faranno alcuna differenza se non prese e applicate decisioni collettive”, pertanto “ciò di cui abbiamo bisogno è trovare una via d’uscita dall’immaginario individualizzante in cui siamo intrappolati”. Diffidiamo di chi cerca di scaricare sulla condotta degli individui la responsabilità del riscaldamento globale, tentativo maldestro di depoliticizzare la crisi ecologica. Essa dev’essere al contrario politicizzata, “per esplorare [appieno] le possibilità di una riduzione, rapida ed equamente distribuita, dell’impronta ecologica delle società umane” (Bonneuil e Fressoz). Ora che l’ecologia si è fatta politica, è tempo che anche la politica si faccia più ecologica.