L o spazio è un contenitore di diseguaglianze, la sostanza dell’ingiustizia. Certo, chi ne ha tanto non è per forza ricco: potrebbe trovarsi con uno spazio povero. È notizia di questi giorni la corsa alla terra virtuale, una gara che si gioca secondo gli stessi principi, scrive Debra Kamin, “del mondo fisico: location, location, location”.
È meglio ripeterlo, perché è un fenomeno che lotta contro un principio che pensavamo altrettanto saldo: l’infinitezza di internet, la continua espansione dell’universo cyber. Negli ultimi vent’anni di internet siamo passati dallo smarrimento del naufrago, terrorizzato ma ubriacato dall’abisso che gli si muove tra i piedi, a un’idea commerciale di “navigazione”, grazie ai portali di ricerca; arrivati agli anni Venti, ci viene raccontato che di acqua ce n’è sempre meno, si inizia a comprare la terra.
Il metaverso del web 3.0, ancora prima di nascere davvero, sembra già replicare la qualità umana dello spazio che condividiamo, le ingiustizie che germinano soltanto nominandolo. In un reportage di Kamin, uscito ieri sul New York Times si legge che “in ottobre, Tokens.com, una società di tecnologia blockchain (…), ha acquisito il 50% di Metaverse Group, una delle prime società immobiliari virtuali del mondo, per circa 1,7 milioni di dollari. Metaverse Group ha sede a Toronto, ma ha un quartier generale virtuale in un mondo chiamato Decentraland nella Crypto Valley, che è la risposta del metaverso alla Silicon Valley. A Decentraland si possono trovare quartieri dedicati al gioco d’azzardo, lo shopping, la moda e le arti.”
Se non hai capito niente di questo paragrafo, va tutto bene, la vita andrà avanti lo stesso: tra qualche anno potrebbe essere però una vita molto diversa da quella di tua figlia, o di tuo nipote. Cito ancora le parole di Andrew Kiguel dal pezzo: “Man mano che più persone partecipano, il metaverso diventa il posto dove si va con gli amici, dove si fanno esperienze come conferenze e concerti (…) È inevitabile che il metaverso sarà il social network numero 1 al mondo”. La peer pressure in fondo, la pressione sociale, è uno dei virus che sabotano anche lo spazio che chiamiamo reale: aumenta i prezzi, le insicurezze, e di conseguenza anche il volume della stupidità globale. La pressione sociale ci incanala verso loop cognitivi e binari logici che con il passare del tempo fatichiamo a riconoscere, circondati da dispositivi e relazioni che potrebbero aiutarci a vivere una vita migliore ma che restano lì, a portata di mano, ai bordi del cono ottico.
Il lavoro di Keller Easterling, architetta e docente di Architettura a Yale, cerca di allargare le nostre possibilità di emancipazione, ripetendo l’esercizio della consapevolezza rispetto a quello che può sembrare comparso dal nulla. Perché le carte di credito sono spesse 0,76 millimetri? Come funziona la telefonia mobile in Kenya? Che cosa sto finanziando, davvero, accendendo un mutuo? Quali sono le possibilità delle comunità energetiche? Il suo nuovo saggio si chiama Medium design (pubblicato da Treccani, l’editore di questa rivista – come il precedente, Lo spazio in cui ci muoviamo).
Prima di passare all’intervista: Medium design indica che la speranza non si trova nella tornitura del nuovissimo device, ma piuttosto nella progettazione e riprogettazione degli spazi tra le cose, delle relazioni. Mi viene in mente un titolo di Enrico Ghezzi: il mezzo è l’aria.
Partiamo da casa. La proliferazione delle Little Boxes del dopoguerra sembra aver instillato un certo ideale di vita che spesso viene rifiutato dalle generazioni successive. Non solo per questioni ecologiche, politiche, esistenziali: chi ha i soldi per curare un enorme giardino accessorio, chi ha i soldi per scaldare una bifamiliare di cinque piani? Sono cresciuto nella provincia veneta, dove impera l’estetica resa nota da Padania Classics e a cui alcune idee di Medium design potrebbero facilmente adattarsi. Leggendo il suo saggio ho scoperto una categoria dell’essere, la McMansion, la matrice teorica di quelle enormi ville sghembe e postmoderne; le ville di MTV Cribs, con sette bagni e colonne inutili, lastricate di enormi finestre asimmetriche, protette da tetti che si fondono tra loro facendo collassare le linee prospettiche. Che tipo di mondo ha inventato la Mc Mansion? E che tipo di futuro aspetta quel mondo?
Ho visto solo alcune foto di Padania Classics, e qualsiasi precoce trauma esistenziale ha la mia simpatia. Per quanto riguarda il futuro, ho lavorato a lungo su come mettere in retromarcia la macchina dello sviluppo spaziale finanziarizzato. Medium design prende in rassegna le procedure per smantellare alcuni dei moltiplicatori finanziari alla base degli sprawl in espansione che sono a rischio di inondazioni e incendi. Cosa accadrebbe se si legasse l’approvazione dei loro mutui a pesanti valori climatici piuttosto che a sottili astrazioni finanziarie? E non diversamente dalle reti di donatori di reni, capaci di ricablarsi, come si potrebbe cambiare il modo in cui i mutui vengono raggruppati? Piuttosto che essere raggruppati a migliaia nelle suddivisioni, o raggruppati nei subprime, ai proprietari di mutui si potrebbe concedere un diverso livello di collettività quando commerciano il valore dei loro beni immobili. Se al posto del rischio problematico si trovasse il modo di ridurre il rischio collettivo, i termini si farebbero più favorevoli, e il rischio può diventare uno strano tipo di asset. Un protocollo del genere potrebbe generare un contro-contagio dello sprawl?
Nello spazio ci sono valori grumosi che hanno a che fare con la posizione, la vicinanza, la contiguità, la sequenza, la programmazione, i solidi e il clima. E queste reti vive sono le stesse reti di mutualismo, cura, manutenzione e parentela al cuore delle alternative abolizioniste, femministe, black, indigene alla proprietà, alla polizia monoculturale o all’agricoltura monoculturale. Come organizzazioni vive, hanno un valore incalcolabile e potrebbero anche essere un mezzo per iniziare ad affrontare il debito altrettanto incalcolabile delle riparazioni.A proposito di abitudini mentali da decostruire, spesso in Medium design si torna su un punto già espresso nella nostra ultima intervista: “I problemi non sono cose da eliminare, ma da combinare creativamente per lievitare e catalizzarsi a vicenda. Le cose andranno sempre male, quindi forse la progettazione è solo un modo più produttivo di riavvolgere i grovigli”. Spesso, però, questa presa di coscienza sembra portare a una risposta paranoica, homo homini lupus… Per esempio mi chiedo se, senza l’esistenza delle periferie del dopoguerra, i prepper (gli apocalittici che sono pronti a nascondersi da qualche parte sottoterra, circondati da scatolette di sgombro e sottaceti, ndA) sarebbero mai esistiti. Secondo il suo punto di vista, considerati i tempi che corrono, sarebbe meglio addensarsi, avvicinare le case per ridurre gli sprechi, creare più comunità e meno villette odiose….
Mentire e rimescolare le posizioni politiche rende molto più difficile qualsiasi riconciliazione o verità. I superburocrati continueranno a generare bugie per condurre il ricercatore della verità in un viaggio tortuoso senza fine. Nel gergo statunitense, il truffatore [the confidence man] conduce la sua vittima “lungo il sentiero del giardino” [down the garden path]. È così che funziona la leggendaria “truffa a lungo termine” [long con], non si muove in un registro legale, lessicale, quantificabile, ma piuttosto in un registro disposizionale/emozionale. Spesso, il vero obiettivo del superbatterio è emozionale. Se riesce a tenere tutti bloccati in una lotta divisiva per una sciocchezza può raccogliere lealtà che appartengono soltanto a lui, piuttosto che a un partito politico che si suppone rappresenti qualcosa. Se riesce a trattenerti in una stupida lotta, può fare di te quello che vuole. Il superbatterio è un superbatterio perché questa stupidità a volte ha successo anche contro l’opposizione attivista più appassionata: si nutre di ogni lotta che puoi condurre. Come attivisti dobbiamo perseguire le marce, le rivolte, le sommosse, i saccheggi, i blocchi, i boicottaggi, le sanzioni, i sabotaggi, le dismissioni, i sindacati e le leggi. La pressione è quasi sempre necessaria per il cambiamento, a volte è sufficiente. Ma l’attivismo ha anche bisogno di farsi furbo, di fare il doppio gioco con i superburocrati politici, a volte affamandoli deliberatamente della lotta che bramano come un modo per diminuire il loro potere. Medium design si chiede se esistano forme di azione diretta che possano travolgere una forza violenta attraverso forme di design spaziale-ambientale furtive, non dichiarate, capaci di volare sotto i radar.“I superbatteri politici sembrano sapere istintivamente come ingannare la mente moderna sfruttandone la tendenza a girare in tondo all’interno di circuiti chiusi e dicotomie – la necessità di avere ragione e di fare quadrato contro un nemico”. Cos’è il superbatterio politico? E come si fa a contenerlo? In una delle sue conferenze mi sembra che lei riesca a illuminare il motivo per cui è così difficile difendersi dalla loro influenza: essi stessi diventano una pura forma di medium, un’attività separata dal contenuto. Molte bugie, lei sostiene, formano una rete, uno strato di teflon dove fatti e fenomeni possono soltanto scivolare.
Cito dal saggio: “un’idea non sale agli onori della cronaca, non si propaga né fa vendere libri a meno che non venga presentata come quella vincente, capace di sovrastare tutte le altre. […] Come si fa a trovare l’uscita di emergenza per sottrarsi a queste consuetudini culturali dominanti? E come si interviene sui poteri speciali dei superbatteri? Questo di solito è il momento in cui si presenta una nuova soluzione, sotto forma di manifesto. Ma a dispetto di quello che la cultura si ostina a credere, al di là dell’uscita di emergenza non c’è nulla di nuovo, di giusto, di gratuito, non ci sono manifesti drammatici, nemici atavici o universali. Quella reazione tipica, benché magari considerata ‘radicale’, sarebbe tristemente conservatrice. Potremmo invece provare a osservare il mondo a una diversa distanza focale: individuare, strizzando un po’ gli occhi, una matrice o un medium di attività tacite e potenziali latenti”.
Come se le idee dovessero essere allevate per combattere, affamate e gonfiate di steroidi. Spesso conformarsi a un vago pensiero radicale diventa il modo più semplice per gestire la complessità, perdendo così di vista l’intreccio dei contesti, la realtà fangosa del vivere in una società. Anche per questo parlare del suo libro non deve essere facile: il mondo si può cambiare con gli slogan, ma non se mancano le idee. Immagino che sia da questa ricerca di complessità, e direi anche di sobrietà, che forse nascono formule come “medium design” o “extrastatecraft”, concetti-etichette che possono attirare lettori lontani dal suo ambito?
Il Riccardo III di Shakespeare, che cita nel libro come “un altro classico esempio di potere autoritario fuori controllo: l’ennesimo superbatterio politico apparentemente inarrestabile”, è ovviamente molto diverso dalla sua controparte storica: un re che di fatto ha regnato un paio d’anni, non più sanguinario di altri (a proposito di reti relazionali: senza la costruzione di un parcheggio, avremmo mai scoperto il teschio di Riccardo III?) Quando nei suoi saggi scrive delle Free Economic Zones, quelle aree che operano al di fuori di “scocciature” come le tasse, o le regolamentazioni a tutela del lavoro e dell’ambiente, si immagina come questi spazi si stiano trasformando in un nuovo strato della crosta terrestre. In un mondo che dimentica in fretta, come possiamo tramandare la storia di sofferenza che ha modellato questi nuovi insediamenti?
“I mercati insistono nell’eliminare gli ostacoli al profitto fino a quando i mutui subprime, i paradisi fiscali o lo sfruttamento dei lavoratori non generano una crisi finanziaria o un’ondata di decessi. Le proposte tecnologiche e quantificabili, le cui basi spaziano dalla statistica ai big data, continuano a galvanizzare gli organi decisionali, anche quando presentano errori di fondo. La sovranità nazionale, la new technology e l’autonomia del libero mercato continuano a fare proseliti, anche quando catalizzano processi atmosferici che esulano dalle loro logiche”.
Eppure, nonostante tutto, “un mondo pieno di problemi è pieno di potenziale”. Il regno dei problemi implora di essere esplorato, presentandosi come una risorsa eternamente rinnovabile di possibili soluzioni. In un certo senso, se Lo spazio in cui ci muoviamo potrebbe anche essere visto come una wunderkammer di alcune delle assurdità fittizie che tengono in piedi le nostre economie (penso alle Zone Franche, agli Iso Standard), Medium design cerca di approfondire l’aspetto politico della sua ricerca. C’è da aspettarsi un ulteriore sviluppo del suo lavoro? La scrittura di un pamphlet, un manuale di istruzioni per un pubblico più ampio?
Queste sono le alternative riemergenti del pluriverso di Arturo Escobar che si allontanano dal moderno verso forme “conviviali” di condivisione tra umani e non umani. L’approccio che studiosi come Peter Linebaugh e Markus Rediker hanno descritto come le tendenze dominanti rispetto alla terra prima del dominio del commercio colonizzatore europeo nell’Atlantico, e la conquista – e chiusura – della terra stessa come proprietà.
Attualmente sto lavorando a una storia sulla prima community land trust ad Albany, in Georgia, una forma che è nata dal movimento per i diritti civili ma che in seguito si è diffusa costantemente in tutto il mondo come almeno uno dei modi per tornare al bene comune. È una storia – nazionale e internazionale – che impegna termini che stanno circolando in molteplici lotte attiviste internazionali. Forse in questa storia si trovano delle risorse per affrontare non tanto il globale-universale, ma piuttosto il frammentario, il parziale, il multiplo-planetario.