“S iate orgogliose dei vostri lividi”, con questa raccomandazione rivolta alle donne si chiudeva un articolo a firma di Yaroslav Korobatov apparso lo scorso gennaio sulla Komsomolskaya Pravda, popolare tabloid russo. L’articolo, dal provocatorio titolo “Dagli uomini cattivi nascono più figli”, prendeva le mosse da uno studio di Satoshi Kanazawa, controverso psicologo evoluzionista, secondo cui le donne prese a botte godrebbero del vantaggio biologico di poter fare più figli grazie al temperamento del partner. L’articolo di Korobatov non nasceva dal caso, quel giorno la Duma aveva approvato una legge per la depenalizzazione della violenza domestica e la stampa nazionale si prodigava nel difenderla in nome dei “valori tradizionali” della società.
E la tradizione della violenza domestica è tutta riassunta in un celebre proverbio russo, “bët, značit ljubit”, se ti picchia vuol dire che ti ama. Un detto che richiama il Domostoj, sorta di galateo russo del XV secolo, volto a istruire il pater familias su come raggiungere la felicità domestica, il quale prescriveva botte alle donne che non dimostravano reverenza e obbedienza al marito. Certo negli ultimi cinque secoli la società russa è mutata e con essa il ruolo della donna che, specialmente in epoca sovietica, ha potuto emanciparsi dalla soggezione al marito. Tuttavia la vita domestica risente ancora del passato e la società russa non ha perso il suo antico carattere patriarcale. Il putinismo non ha fatto che riaffermare questo carattere strizzando l’occhio ai settori più conservatori della società russa tra cui spicca la Chiesa ortodossa.
Delitto senza castigo
Tutto è cominciato nel giugno 2016, quando il governo decise di depenalizzare le percosse a eccezione della violenza domestica per cui invece si stabilì una pena di due anni di detenzione, di fatto equiparandola alla violenza per motivi razziali. Un discrimine volto a proteggere donne e minori che, secondo le stime, sarebbero sempre più vittime di maltrattamenti: ben 26.000 i bambini oggetto di violenza domestica ogni anno, e circa il 25% delle donne. Tale distinzione non è però piaciuta al clero ortodosso, pronto nell’insorgere rammentando – sacre scritture alla mano – che “un uso ragionevole della punizione corporale è parte essenziale dei diritti che Dio conferisce ai genitori”. Su pressione di gruppi vicini al clero, il governo decise allora di ridurre le pene per violenza domestica a soli quindici giorni di lavori socialmente utili e a una multa di circa 500 euro, derubricando il reato a “violenza privata”, fattispecie in cui viene meno la notitia criminis ed è quindi la vittima a dover raccogliere le prove e sporgere denuncia.
La vita domestica risente ancora del passato e la società russa non ha perso il suo antico carattere patriarcale: un carattere che il putinismo non ha fatto che riaffermare.
Ma non è bastato. I sostenitori del diritto al pestaggio domestico si sono radunati attorno a Elena Mizulina, deputata nota per le sue controverse leggi contro la “propaganda omosessuale”, che ha redatto una proposta di legge per la depenalizzazione della violenza domestica presentata lo scorso gennaio alla Duma e votata all’unanimità. La deputata ha dichiarato che la legge dello stato non deve mai contraddire il “sistema di valori su cui si basa la società russa” e “i rapporti di autorità attorno ai quali si strutturano le relazioni familiari”. La nuova legge prevede che la responsabilità penale si applichi solo se gli episodi di violenza vengono commessi per più di una volta all’anno.
L’emancipazione sempre mancata
Alexandra Kollontaj, rivoluzionaria russa, agitatrice e filosofa, prima donna a ricoprire la carica di ministro, scrisse nel 1921 alcune righe destinate a rimanere nella storia. Sostenitrice del “libero amore” era convinta che il matrimonio fosse un’ulteriore istituzione finalizzata allo sfruttamento e che “la liberazione della donna non può compiersi che attraverso una trasformazione radicale della vita quotidiana […] sulle nuove basi dell’economia comunista”. Quello che il bolscevismo prometteva era una rivoluzione totale della società e la Kollontaj, consapevole della dimensione economica dell’emancipazione femminile, vedeva nel comunismo una via verso la libertà individuale della donna. Durante il periodo sovietico le donne assursero a ruoli importanti, in anticipo sulle società occidentali, ma i compiti all’interno della famiglia e della coppia restavano ben definiti soprattutto fuori dalle grandi città, in quelle sterminate campagne dove riposa l’eterna anima russa. Come ricorda Vittorio Filippi, sociologo e docente a Ca’ Foscari, “nonostante le immagini della rabotnica, dell’operaia, venissero riprodotte in dimensioni superiori alla realtà, la liberazione della donna promessa dalla rivoluzione rimase sempre incompiuta, ondivaga e contraddittoria. Già alla fine degli anni Venti l’esaltazione della figura avveniristica della donna-operaio veniva affiancata dalla rivalutazione stalinista della madre eroina con prole numerosa. Poi nel 1968 la nuova legislazione familiare e matrimoniale segnò il trionfo del welfare state e della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Ma non veniva ridotta l’asimmetria di genere, dato che sulle donne gravavano il lavoro extradomestico e quello domestico”.
La rivoluzione bolscevica non portò fino in fondo il discorso dell’emancipazione femminile lasciando la società russa a metà del guado. Nel 1989, mentre il mondo sovietico si accingeva al crollo, la Pravda scriveva che “la donna deve tornare a casa e non mettere il becco in nient’altro”. La fine della rivoluzione segnava l’ideale ritorno al punto di partenza, al Domostoj e alle regole della tradizione domestica. Un ritorno che molte donne hanno inizialmente accolto come una liberazione, visto che su di loro gravava il doppio fardello del lavoro in fabbrica e in casa, salvo accorgersi presto della necessità dell’indipendenza economica. Oggi, cento anni dopo le dichiarazioni di Alexandra Kollontaj, le donne russe si trovano nel mezzo di un rinascimento patriarcale basato – afferma ancora Filippi – “sui valori pre-socialisti della tradizione ortodossa e nazionalista panrussa” che le vede discriminate tanto nel mondo del lavoro, quanto in quello della politica.
L’incremento delle donne in politica
Tuttavia mai come oggi le donne sono partecipi della politica russa. Le ultime elezioni legislative, tenutesi nel settembre 2016, hanno segnato un notevole incremento di donne elette alla Duma e nei consigli federali. In questi ultimi la percentuale è quadruplicata rispetto alle elezioni del 2011, passando dal 4.7% al 17.1% mentre alla Duma la presenza femminile si attesta al 14.6% a fronte di un 23% di candidate, segnando il dato più alto di sempre. Vladimir Putin si è pubblicamente speso per una maggiore partecipazione delle donne alla vita politica e le nomine di Ella Pamfilova, a capo della commissione elettorale, e di Elvira Nabiullina, a presidente della Banca Centrale, vanno in questa direzione. Si tratta di figure di alto profilo, in netto contrasto con le showgirl e le ragazze immagine usate fin qui dalla politica russa.
Le donne accedono al potere solo quando l’uomo del Cremlino lo consente: in politica è soggetta all’autorità e alla benevolenza del pater patriae, replicando le dinamiche patriarcali già presenti nella società.
Questo incremento – nella qualità e nella quantità – della presenza femminile in politica non è però il risultato di una legislazione atta a favorire la parità di genere. Si tratta piuttosto di una mossa tattica da parte di un Cremlino in cerca di nuovi consensi nell’elettorato femminile e di un tentativo di “ripulirsi” dopo i recenti scandali legati alla corruzione: un sondaggio diffuso tra i russi ha mostrato come l’elettorato ritenga le donne più oneste ed efficaci in politica rispetto ai loro omologhi uomini. Ecco allora che per riacquisire credibilità la classe politica ha deciso di aumentare la propria componente femminile. Tuttavia le donne accedono al potere solo quando l’uomo del Cremlino lo consente, e solo se di provata fedeltà e obbedienza. Ecco che la donna in politica è soggetta all’autorità e alla benevolenza del pater patriae replicando le dinamiche patriarcali già presenti nella società.
Il femminismo russo, non pervenuto
“Se l’uomo è la testa, la donna è il collo” recita un popolare detto russo. Un proverbio che riconosce il fondamentale ruolo della donna all’interno della famiglia. Tuttavia uno studio condotto dal Levada Center ha mostrato come il 78% delle donne russe ritenga che l’eguaglianza dei ruoli all’interno della vita domestica sia sbagliata: cucinare, pulire, allevare i figli, sono ancora ritenuti compiti esclusivamente femminili. Una situazione alimentata anche dallo scarso successo del femminismo, inteso come un attacco alla tradizione e alla società russa e spesso associato a comportamenti negativi come pigrizia, aggressività e volgarità. Le donne che si definiscono femministe sono ritenute, come spiega Svetlana Smetatina, giornalista di Rossiyskaya Gazeta, delle “arpie”, persone “insoddisfatte della propria vita personale” impegnate a “sfogare le proprie frustrazioni sugli uomini”. Nel discorso politico e mediatico il femminismo è descritto come un “complotto dell’occidente”, un’ideologia estranea al mondo russo e “importata” da coloro che vogliono distruggere il paese.
In questo contesto il femminismo russo si è radicalizzato, facendo della stigmatizzazione il proprio punto di forza, rovesciando la prospettiva e segnando una distanza anche estetica rispetto all’immagine tradizionale della donna russa. Il fenomeno delle Pussy Riot, che attentano ai simboli della tradizione russa attraverso un registro volutamente volgare e provocatorio, e quello delle Femen, che a seno nudo richiamano l’attenzione sul problema del sessismo, servono a rompere un soffitto di cristallo culturale oltre che economico. Con le loro performance polarizzano l’opinione pubblica causando reazioni estreme da parte dell’autorità politica, mettendo così a nudo la natura oppressiva della società patriarcale russa.
Il gender pay gap
L’oppressione è anche economica. Un report dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (ILO) ha recentemente mostrato come il divario salariale tra uomini e donne in Russia sia il secondo più alto del mondo, e questo malgrado le donne siano mediamente più istruite degli uomini. Il report mostra come in Russia le donne guadagnino il 32,8% in meno della controparte maschile. Un dato impressionante se paragonato all’Europa, dove pure le donne guadagnano il 19% in meno, e addirittura peggiore di quello cinese, che registra un gap del 23%. Le cause sono molte, culturali anzitutto: l’idea diffusa che la donna non debba essere uguale all’uomo porta ad accettare salari più bassi. Questo però avviene anche “per il desiderio di assicurarsi o mantenere il lavoro”, come spiega Elena Vitchak, vice-presidente di Sistema, gruppo di investimenti russo, a testimoniare l’insicurezza sociale che colpisce molte donne. In un paese che registra il più alto tasso di divorzi al mondo, le donne si trovano spesso da sole a mantenere la famiglia e sono quindi disposte ad accettare stipendi ridotti pur di avere un lavoro. Ma questo non basta a spiegare un divario tanto grande. Svetlana Belanova è una di quelle (poche) donne che occupa una posizione di leadership in Russia, direttore generale di IBS, è impegnata in un comitato di supporto alle donne che entrano nel mercato del lavoro. Intervistata dal Financial Times, ha ricordato come in Russia la discriminazione di genere sia dovuta anche alla donne stesse: “sono loro che sorreggono il soffitto di cristallo”, ha dichiarato riferendosi proprio a quell’insieme di valori tradizionali che rendono le donne vittime e complici di una società marcatamente maschilista e patriarcale.