N ella prima stagione di The Handmaid’s Tale c’è un episodio, il sesto, che si intitola “A Woman’s Place”. Il titolo si riferisce al personaggio di Serena Joy, la vera mente – insieme al marito, il Comandante Waterford – che ha concepito il sistema repressivo di Gilead che rende schiava Offred e tutte le altre donne. Attraverso dei flashback, scopriamo che nonostante il suo contributo, Serena viene improvvisamente esclusa dai luoghi decisionali e relegata alle mura domestiche. Rimessa dunque al suo posto: quello di madre devota e moglie silente.
“A Woman’s Place” non solo aggiunge un inedito tassello alla storia di Serena (ampliandola, rispetto al testo originario di Margaret Atwood) ma denuncia anche la secolare lontananza delle donne dalla sfera pubblica, che si traduce nella difficoltà di accesso alla cosiddetta “stanza dei bottoni”, tutt’altro che risolta. Basterebbe dare uno sguardo al neonato governo Lega-Movimento 5 Stelle, che vede il potere ben saldo nelle mani del trio Conte-Salvini-Di Maio; senza dimenticare l’ennesima occasione mancata di vedere una premier donna, sfiorata solo per la guida di un governo di “servizio” di brevissima durata. Chiara Volpato in Psicologia del maschilismo (Editori Laterza, 2013) scrive: “Le immagini dei cardinali riuniti in conclave, del vertice della Banca Centrale Europea, di governi, consigli di amministrazione, gerarchie militari mostrano senza bisogno di parole la perdurante supremazia maschile. Il soggetto è irritante, ma capitale. Lo asseriva Simone de Beauvoir, nell’introduzione al Secondo Sesso. Non possiamo che pensarlo anche noi, sessant’anni dopo”.
Ridotte al silenzio
Tra donne e potere c’è sempre stata una separazione netta. Per trovare le origini e capire quanto certi pregiudizi e stereotipi siano radicati nella cultura occidentale bisogna risalire all’antica Grecia e all’Impero Romano. La docente classicista Mary Beard in Donne e Potere (Mondadori, 2018) racconta un episodio piuttosto significativo tra Penelope e il figlio Telemaco, nell’Odissea: quest’ultimo, dopo la richiesta della madre di cantare qualcosa di meno triste, le ordina bruscamente di rientrare nelle sue stanze, perché “la parola spetterà qui agli uomini”. Secondo Beard, si tratta del primo esempio nell’antichità greco-romana “di una lunga serie di tentativi, perlopiù riusciti, non soltanto di escludere le donne dal discorso pubblico, ma anche di esibire come un trofeo questa esclusione”.
Per trovare le origini della separazione tra donne e potere e poter capire quanto certi pregiudizi siano radicati nella cultura occidentale bisogna risalire all’antica Grecia e all’Impero Romano.
Da Aristotele a Eschilo, per passare a Ovidio, la figura femminile è stata costantemente svilita, ridotta al silenzio ed esclusa dal “discorso pubblico autorevole” (nell’opera omerica “mythos”), distinto dalle chiacchiere, ancora oggi associate soprattutto alle donne. Rivendicare il diritto di parola e violare le regole tradizionali conduceva a punizione certa, con appellativi derisori, ingiurie, se non violenza carnale e morte. Due soli casi fanno eccezione: le donne potevano parlare come vittime, solitamente in punto di morte; oppure per difendere la famiglia o altre donne.
In sintesi, potevano parlare solo di questioni femminili e della sfera familiare, ma non a nome di tutta la comunità. Un’altra pratica che – come vedremo più avanti – persiste ancora, specialmente in Italia. Perché se con il passare del tempo molte di queste norme sociali sono state superate, è anche vero che le resistenze a una maggiore rappresentanza politica delle donne e la loro scarsa presenza nei ruoli apicali sono espressione di una misoginia e di un conservatorismo frutto di quelle stesse idee arcaiche.
La lotta per l’emancipazione
Significativa è la lunga battaglia per il suffragio femminile. Malgrado non vi fosse alcuna legge che vietasse esplicitamente il voto politico, solo nel 1946 le donne poterono votare e contribuire all’elezione delle 21 Costituenti: le prime a entrare in Parlamento. Le cause di tale ritardo, rispetto agli altri paesi, furono numerosi luoghi comuni infondati se non ridicoli. Benito Mussolini, ad esempio, insisteva sul disinteresse delle donne italiane per la politica – per poi ammettere di aver ricevuto numerose richieste di voto dai Fasci Femminili –; mentre l’intero sistema istituzionale, insieme alla stampa, parlava delle donne come di persone inferiori, poco razionali e frivole. Grazia Deledda fu la prima donna candidata al Parlamento nel 1909, inizialmente a sua insaputa, da un gruppo di intellettuali legati a Sebastiano Satta per ostacolare Antonio Are, noto antifemminista. La scrittrice venne “punita” dai nuoresi che le diedero solo 34 voti – perché ritenuta troppo emancipata per l’epoca – e derisa dalla stampa nazionale: la “Tribuna Di Roma” la descrisse come un’ottima madre e scrittrice ma incapace di leggere un bilancio.
La Storia è piena di episodi in cui le donne vengono coinvolte in periodi di forti crisi e grandi rivoluzioni, e poi invitate a tornare nelle mura domestiche.
Deledda tentò, invano, di non farsi usare dall’ambiente politico di Nuoro. Ma non è la prima volta che una donna viene chiamata per necessità e poi dimenticata. Nadia Maria Filippini, curatrice insieme ad Anna Scattigno di Una democrazia incompiuta (FrancoAngeli, 2007), spiega che la Storia è piena di episodi simili, in cui le donne vengono coinvolte in periodi di forti crisi e grandi rivoluzioni, e poi invitate a tornare nelle mura domestiche. Un esempio sono le staffette durante la Resistenza: fu anche grazie alle tante volontarie, che permisero di attuare collegamenti e rifornimenti, che i partigiani vinsero la guerra. Eppure, alla fine, le donne vennero escluse dalle sfilate durante la Liberazione, perché mettevano in crisi la “centralità del paradigma del maschio guerriero”; e in poche ricevettero un riconoscimento ufficiale.
Una visione stereotipata
Non stupisce allora che durante l’ultima crisi di governo, dopo le elezioni del 4 marzo, si sia iniziato a parlare di una donna come premier, perché “capace di convincere, ammansire” e adatta ad accettare “un compito difficile, se non vano”, scrive Stefania Aloia su Repubblica. Accadde anche nel 1987, quando Nilde Iotti ricevette l’incarico esplorativo, dato per perso già in partenza. Ciò è dovuto alla diversa percezione e rappresentazione di donne e uomini nella società attuale, spiega Chiara Volpato: “Gli uomini sono infatti associati a competitività, assertività, asprezza, le donne a dolcezza, gentilezza, comprensione; gli uomini sono stereotipizzati come duri ma vincenti, le donne come meravigliose ma deboli”. Le donne però, col tempo, hanno cambiato la percezione di sé grazie all’ingresso nel mondo del lavoro, a differenza degli uomini, più restii al mutamento dello status quo. Volpato continua:
Lo diceva già Simone de Beauvoir: gli uomini hanno favorito il proprio sesso; continuano a favorirlo per interesse, tradizione, inerzia, perché non si accorgono o non vogliono accorgersi che i tempi sono cambiati, perché, soprattutto, trovano più facile e “naturale” parlare e agire di politica in quel club maschile così rassicurante.
Giusto per dare qualche cifra. Secondo l’IPU (l’Unione Interparlamentare), attualmente le donne sono il 23% dei parlamentari del mondo. In testa ci sono tre paesi “poveri” – Rwanda (61%), Cuba (53%) e Bolivia (53%) – con i paesi nordici fermi al 41%, le Americhe al 29% e l’Europa al 27%.
Negli ultimi anni l’Italia ha registrato una maggiore presenza femminile in politica, attualmente il Parlamento è composto dal 35% di donne, eppure nessuna ha mai ricoperto il ruolo di presidente della Repubblica, di primo ministro o è diventata leader di un grande partito. E l’attuale governo Conte è composto da 13 ministri e 5 ministre, di cui solo due in un ruolo chiave – Difesa e Sanità.
Ancelle e non donne
“L’anomalia italiana”, come viene definita in Una democrazia incompiuta, non è stata ancora risolta. Le donne continuano a essere poche, perlopiù con ruoli ancillari: una situazione nella sostanza non molto diversa da quella che abbiamo visto svilupparsi nel ventennio berlusconiano. Per anni Silvio Berlusconi ha avuto una schiera di “fedelissime” come Mara Carfagna, Daniela Santanchè, Mariastella Gelmini, nel ruolo di puro supporto. Chi ha provato a far sentire la propria voce, a mostrare un’autonomia di pensiero, a sfidare il potere maschile è stata messa a tacere attraverso varie forme di sessismo. Ne è un esempio Stefania Prestigiacomo, quando nel 2005 lottò per l’introduzione delle “quote rosa” e Pippo Gianni disse: “Le donne non ci devono scassare la minchia”. O ancora Rosy Bindi, definita nel 2005 da Francesco Storace “neppure una donna” – quasi a richiamare le “non donne” di Gilead – e nel 2009 da Berlusconi “più bella che intelligente”. La lista di battute sessiste è davvero lunga, e non hanno lasciato indenni neanche le più subordinate.
Negli ultimi anni l’Italia ha registrato una maggiore presenza femminile in politica, eppure nessuna ha mai ricoperto il ruolo di presidente della Repubblica, di primo ministro o è diventata leader di un grande partito.
A risvegliare una tale misoginia “non è quello che la donna dice, ma semplicemente il fatto che lo dica” secondo Mary Beard, è il fatto di appropriarsi di un territorio per tradizione maschile. Laura Boldrini è tra le più odiate in politica, ha subito calunnie, insulti beceri: un’antipatia così viscerale va ben al di là di prese di posizione impopolari o di una presunta “aria da maestrina”. La colpa più grande di Boldrini è quella di non temere la competizione con l’altro sesso, di esprimere le proprie idee senza dipendere da nessuno e senza rinunciare alla sua femminilità.
Angela Merkel e Hillary Clinton sono considerate donne di potere competenti e ambiziose (qualità tradizionali maschili) ma antipatiche e fredde e perciò oggetto di numerose offese sessiste. Non a caso, molte donne in politica hanno cercato di nascondere la loro identità sessuale per ispirare maggiore autorevolezza e rispetto, scegliendo abiti ritenuti più maschili, oppure modificando il timbro di voce, come fece la “iron lady” Margaret Thatcher.
Gli uomini mi spiegano le cose
D’altro canto, l’equa rappresentanza – espressione di democrazia, di giustizia, di una visione della società e delle sue istanze più ampia e quindi funzionale – non è osteggiata solo nei palazzi di governo. La scrittrice Michela Murgia da settimane continua a fotografare le prime pagine dei principali quotidiani italiani, dominate da articoli sulla politica italiana e internazionale firmati quasi esclusivamente da uomini. Le donne, quando intervengono, intervistano altri uomini – che danno la loro spiegazione dei fatti –, o parlano di questioni femminili. Scrive Murgia: “Il fatto che l’assenza delle donne non sia percepita come un problema è la parte principale del problema”. Sin dall’antichità, infatti, il genere maschile, a differenza di quello femminile, è stato pensato e formulato come genere universale, neutro. Come la norma. “L’uomo può così autoconvincersi di non essere condizionato dalla sua mascolinità, attribuendosi il diritto di parlare per l’intera umanità”, osserva Volpato.
Il Rosatellum prevede che nessuna lista superi il 60% di candidati dello stesso sesso, ma quasi tutti i partiti hanno aggirato la legge candidando più donne in collegi incerti e facendo ampio uso di pluricandidature.
La visione fallocratica è replicata anche dalla televisione. Le donne invitate a commentare la politica sono una minoranza oppure del tutto assenti. Milena Gabanelli, Lucia Annunziata, Bianca Berlinguer, Lilli Gruber sono tra le poche in Italia a occuparsi di politica, e rappresentano l’eccezione che conferma la regola: gli uomini spiegano le cose, e le spiegano a tutti – secondo il Global Media Monitoring Project 2015 solo il 18% delle donne vengono chiamate in qualità di esperte in Italia. La mancanza di donne nei talk politici – scrive Rachel Donadio su The Atlantic – da un lato non rispecchia il paese; dall’altro ne rispecchia l’onnipresenza e il dominio maschile. E tutto ciò che rischia di incrinare il sistema patriarcale, di metterlo in discussione e sovvertirlo, si scontra con la ferrea difesa dello stesso, che si parli delle tanto odiate “quote rosa” o di declinare il femminile per incarichi di prestigio di norma appannaggio maschile. I conservatori continueranno sempre a lottare per il mantenimento dei ruoli tradizionali di genere, dice Rebecca Solnit, autrice di Gli uomini mi spiegano le cose (Ponte alle Grazie, 2017) e ispiratrice del termine “mansplaining”, più volte trattata come “un recipiente vuoto da riempire con la loro saggezza e il loro sapere”.
Non si torna indietro
Tornando alle elezioni del 4 marzo, l’esiguo numero di donne elette ha riaccesso il dibattito sulla parità di genere. Nonostante il Rosatellum preveda che nessuna lista superi il 60% di candidati dello stesso sesso, quasi tutti i partiti hanno aggirato la legge elettorale candidando più donne in collegi incerti e facendo un ampio uso delle pluricandidature. Ciò ha generato l’insurrezione delle candidate del PD: in tante hanno attaccato la dirigenza, ammettendo di essersi illuse dopo che il Governo Renzi aveva raggiunto l’equilibrio di genere. Oltre mille donne hanno firmato una lettera di protesta, sfociata poi nel “Towanda Day” (ispirato alla ribelle Kathy Bates di Pomodori verdi fritti alla fermata del treno), tenutosi il 12 maggio a Roma.
Il problema non è la legge ma la volontà politica, sostiene Elisabetta Palici di Suni, docente di Diritto pubblico comparato e coautrice di Una democrazia incompiuta: “Quello che va ancora trasformato è il piano culturale”. Ancora oggi l’art. 37 della Costituzione ribadisce l’“essenziale funzione familiare” della donna e la secondarietà del lavoro, che riflette una visione tradizionale e arretrata, contestata già nel 1947 da Lina Merlin durante una seduta dell’Assemblea Costituente.
Nell’ottavo episodio della seconda stagione di The Handmaid’s Tale, intitolato “Women’s Work”, Serena riprende momentaneamente il controllo della sua vita, sostituendo il Comandante Waterford. Al ritorno di quest’ultimo, la donna si vede chiudere di nuovo – letteralmente e non – la porta in faccia. Questa volta, però, Serena trasgredisce le regole e si ribella al marito. E neanche la violenza usata da Waterford – unico modo per dimostrare la propria forza, dietro alla quale si nasconde la debolezza e invidia delle capacità della moglie – riuscirà a cancellare il ricordo della libertà. Perché per quanto si tenti di escludere le donne dai luoghi di potere, non si possono dimenticare i progressi fatti. L’atto di ribellione “Towanda Dem” ci dice esattamente questo: le donne non hanno nessuna intenzione di tornare indietro. “I geni non tornano dentro la lampada”, dice Solnit. “Ed è proprio così che funzionano le rivoluzioni”.