N ella sua casa nella foresta in California, Donna J. Haraway appare particolarmente sorridente: sulla scrivania ha un cestino Navajo che dice di non avere il diritto di possedere e il peluche di un polpo, racconta del suo rapporto quasi simbiotico con la sua cagna Cayenne ormai molto anziana, del suo defunto marito Jay e della loro relazione non convenzionale. Ci sono due librerie alte fino al soffitto piene di libri di fantascienza collezionati negli anni assieme all’attuale compagno Rusten. Tra i titoli che maggiormente l’hanno influenzata Memoirs of a Spacewoman di Naomi Mitchison, The Female Man di Joanna Russ, Wild Seed di Octavia Butler, Buffalo Gals and Other Animal Presences di Ursula Le Guin. A queste autrici deve senza dubbio tanto, e ci tiene a farlo presente: “Essere molto precise sulla storia delle idee e sulla specifica creatività, originalità e importanza del pensiero delle altre donne è già una tra le pratiche del femminismo”.
Chi scrive di fantascienza immagina nuovi mondi possibili e fa filosofia in senso stretto, dice. Le sue opere, proprio come nella fantascienza e nel cyberpunk, sono popolate da creature ibride, mutanti, altre: animali, macchine, alieni, protozoi. Ultimamente in Italia si parla molto di lei, si traducono o ripubblicano i suoi libri. Fabrizio Terranova nel documentario Donna Haraway: Storytelling for Earthly Survival (2016) ci ha raccontato anche il lato umano della filosofa americana tra le principali voci del pensiero ecologista e femminista.
La mia cosa preferita sono i mostri
Nel 1985, con la celebre frase in chiusura di Manifesto cyborg “Preferisco essere cyborg che dea”, Haraway sanciva nettamente il superamento del femminismo della differenza, umanista ed essenzialista, e apriva le porte ad una nuova prospettiva tecno-materialista e abolizionista del genere:
Non è solo che “dio” è morto, è morta anche la “dea”; o meglio, vengono entrambi rivitalizzati nei mondi pervasi dalla politica microelettronica e biotecnologica. Se parliamo di componenti biotiche non dobbiamo pensare in termini di proprietà essenziali, ma in termini di progettazione, di proprietà di confini, tassi di flusso, logica dei sistemi, costi di abbassamento dei confini.
La teoria cyborg prende in prestito dall’immaginario fantascientifico e cyberpunk delle figure mostruose, miscugli di carne e tecnologia, per caricarle di un potenziale rivoluzionario e di una forza emancipatoria inediti. Nasce così una nuova soggettività politica, un nuovo modo di pensare la corporeità, trasgredendo i confini, abbandonando qualsiasi pretesa di naturalità ed ammettendo delle identità parziali e contraddittorie: “I cyborg che popolano la fantascienza femminista rendono assai problematica la condizione di uomo o di donna, di umano, di manufatto, di membro di una razza, di entità individuale o di corpo.”
Nel suo Materialismo Radicale. Itinerari etici per cyborg e cattive ragazze, la filosofa Rosi Braidotti (autrice dell’introduzione all’edizione italiana di Manifesto Cyborg) scrive: “Siamo entrate nell’epoca del femminismo postumanista, iper-velocizzato, trasmesso in rime sulle note di un rap postindustriale, fermamente antirazzista”. Il suo testo racconta come pratiche artistiche dissacranti e ironiche siano l’espressione del femminismo odierno, le cui nuove protagoniste sono soggettività fluide e queer, ambigue e contraddittorie: cyborg e cattive ragazze, appunto. È il caso delle Guerrillia Girls, delle Riot Grrrls, o delle xenofemministe, che al grido di “Se la natura è ingiusta, cambiala!” incoraggiano all’utilizzo di nuove pratiche tecnologiche per il superamento delle ingiustizie subite dalle donne in nome delle identità naturalizzate. Ne Le promesse dei mostri, saggio del 1992 la cui traduzione è approdata in Italia solo da pochi mesi, Haraway decostruisce il concetto di natura come essenza preesistente da proteggere ‒o violare‒ per ridefinirla invece come topos, luogo comune. Dal momento che questa costruzione cade, gli enti non umani smettono di essere pensati come mere risorse, e fanno la loro comparsa sulla scena in veste di nuovi protagonisti, una sorta di “mostri buoni”, accanto e assieme ai quali ripensare il presente.
Legami nella sofferenza
Nel quinto capitolo dell’edizione inglese di Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, la filosofa ci racconta una vicenda alquanto curiosa: nel 2011 la sua cagna Cayenne, di dodici anni, ha problemi di incontinenza e le viene prescritto il DES (dietilsilbestrolo), un estrogeno di sintesi che negli anni ’50 era molto utilizzato per le donne in gravidanza a rischio di aborto. Nel ‘71 degli studi dimostrarono la comparsa del carcinoma vaginale in donne che erano state esposte in utero all’ormone perché assunto dalle madri. Il farmaco venne tolto dal mercato e sostituito, e dagli anni Novanta viene utilizzato soltanto in ambito veterinario. La stessa Haraway anni prima aveva dovuto assumere il Premarin, un estrogeno anch’esso ritirato dal mercato a seguito di numerose proteste di gruppi animalisti (l’ormone veniva infatti estratto dall’urina di cavalle gravide, costrette a vivere in dei piccoli box attaccate a cateteri), e perché aumentava notevolmente le probabilità di insorgenza di tumore al seno. L’atto di assumere estrogeni, con tutte le sue implicazioni legate alla riflessione femminista, genera quindi una connessione profonda tra esseri umani (l’autrice, le generazioni di attiviste femministe ed ecologisti che in passato hanno lottato contro l’assunzione del farmaco, ma anche i medici, gli scienziati, gli allevatori e tutti i soggetti coinvolti nella filiera produttiva) e animali (un vecchio cane femmina, le cavalle sfruttate per l’estrazione del Premarin, fino alle zebre dello zoo di Berlino su cui vennero effettuati i primi esperimenti per ricavare ormoni dall’urina di equino).
Già da anni numerosi pensatori e pensatrici si dedicano alla questione animale, che è ormai il fulcro di una riflessione e di una politica militante radicale, organizzata per contrastare un assoggettamento senza precedenti. Lo sottolinea anche Jean-Luc Nancy nel suo pamphlet La sofferenza è animale: siamo animati da una sofferenza che sappiamo essere avvertita anche “da tutto ciò che sente attraverso l’universo”, dall’ameba al grande gorilla, “passando attraverso il gladiolo, l’ornitorinco, la quercia e la mosca”. Quando percepiamo anche tutti gli enti non umani come vicini in un dolore universale, smettiamo di relegarli in un’alterità che si era definita per contrapposizione: abbandoniamo certe idee secolari come quella che l’essenza dell’uomo sia il linguaggio oppure il pensiero (logos), di cui l’animale sarebbe privo. Insomma, per dirla con le parole di Derrida, che nel 2006 scrisse un testo fondamentale, L’animale che dunque sono, l’animale ci guarda e ci riguarda. E con esso ci interessano le sorti di tutti gli ecosistemi terrestri che fin dall’inizio dell’industrializzazione abbiamo distrutto con politiche economiche incentrate sullo sfruttamento.
L’era dello Chthulucene
Il termine Antropocene fa la sua comparsa del dibattito scientifico agli inizi degli anni 2000, a indicare l’era nella quale gli effetti trasformativi delle attività umane sulla Terra hanno raggiunto un’entità tale da guadagnarsi una propria nomenclatura geologica. Più di recente, è stato coniato anche il termine Capitalocene (sul dibattito è stato tradotto in italiano nel 2017 Capitalocene o Antropocene? di Jason W. Moore per Ombre Corte). Ma sia che la responsabilità sia da attribuirsi ad una generica categoria di “anthropos”, o più specificamente al sistema economico capitalista, per i più disfattisti oggi il nostro pianeta è sull’orlo della distruzione, in attesa della sesta grande estinzione di massa. Di sicuro ci troviamo ingarbugliati in un presente torbido, fangoso. Se volessimo esprimerlo in inglese diremmo: “we are in trouble”. La parola, come suggerisce Federica Timeto su Not, ha un etimo latino particolarmente musicale: deriva da turbula, che significa “piccola folla disordinata”.
Cosa fare dunque, dal momento che tutti abbiamo un problema? Per Haraway dobbiamo tenere il problema bene a mente e restarci a contatto, da un lato, ma dall’altro anche abbandonare qualsiasi cinismo nichilista ed escogitare strategie di sopravvivenza su un pianeta profondamente danneggiato. Sempre nel suo visionario Staying with the trouble, che in Italia è stato tradotto da Claudia Durastanti e Clara Ciccioni per Not -Nero Editions con il titolo di Chthulucene, sopravvivere su un pianeta infetto, Haraway scrive: “Lo Chthulucene […] deve raccattare la spazzatura dell’Antropocene, la tendenza allo sterminio del Capitalocene, e sfrangiare, tagliuzzare e stratificare a più non posso come un giardiniere matto, creando così un ammasso di compost molto più caldo e accogliente per tutti i passati, i presenti e i futuri ancora possibili”.
Niente a che vedere con Ctulhu, il mostro Lovecraftiano (quello di Haraway è un metaplasmo, la h è spostata), lo Chthulucene è l’epoca che stiamo vivendo, ma anche “una temporalità continua che resiste alla rappresentazione come alla datazione”. Mettendo definitivamente da parte l’idea che la specie umana sia l’unica fautrice della storia, sottolinea l’autrice, dobbiamo lasciare spazio alle storie di tutte le altre creature ctonie, tentando di superare certe secolari rappresentazioni del presente a misura di uomo occidentale, il quale, con quella che la filosofa femminista chiama una vera e propria “Avventura fallica”, ha tentato di modernizzare il mondo, per poi scoprire che, per dirla con le parole di Latour, non siamo mai stati moderni. Cosa s’intende per “ctonie”? Dal greco khthonios, che significa “della terra” (da khthōn, “terra”), nella mitologia greca le entità ctonie erano creature dell’oltretomba, collocate nel sottosuolo. Ma per la scrittrice le creature ctonie sono molto più vecchie (e più giovani) dei Greci che le hanno mitizzate: si tratta di esseri della Terra “al contempo antichi e appena nati […] pieni di tentacoli, antenne, dita, cavi, code a frusta, zampe da ragno e chiome arruffate… [che] fanno e disfanno, vengono fatte e disfatte”.
Utilizzando un linguaggio che è a metà tra il filosofico e il fantascientifico Haraway ci invita a pensarci legati ad un’infinità di creature e immersi in un fertile humus terrestre, a seguire l’esempio di simbionti come licheni e coralli della barriera corallina, o di alcuni protozoi e virus, che in un qualche modo si compongono e decompongono insieme, dipendono gli uni dagli altri in un processo che chiama di “con-divenire”. Con-divenire vuol dire che enti ontologicamente eterogenei diventano ciò che sono solo in un processo relazionale. Nature, culture e soggetti non preesistono all’intreccio, ma divengono insieme incessantemente (perciò la temporalità è continua). In breve, se davvero sappiamo di essere vicini all’estinzione, non dobbiamo approcciarci alla questione in modo apocalittico, ma nemmeno indulgente e consolatorio. La soluzione è interagire, fare qualcosa insieme. Stare da soli vuol dire soccombere alla disperazione o ad una fumosa speranza, praticare “simpoiesi” è invece un atteggiamento di buon senso, capace di renderci ontologicamente creativi.
“Ripiglino” e responsabilità
Tanto Donna Haraway ha reso omaggio alla fantascienza, che la fantascienza stessa ha scelto di dedicarle un vero e proprio personaggio. Nell’anime Ghost in the Shell 2: Innocence, il regista Marmoru Oshii inserisce una scienziata non-binary circondata da cyborg. È da qui che parte Angela Balzano, la curatrice italiana de Le promesse dei mostri, nella sua introduzione al saggio: immagina di riscrivere assieme ad Haraway le tre leggi della robotica di Asimov, che rappresenta nel mondo della fantascienza quello che Hegel era nel mondo della filosofia, l’autore che paternalisticamente si autoproclama capace di scrivere e parlare per altri, e che quindi bisogna rinnegare. La nuova quarta legge, o legge Zero dirà allora: “Le/gli umane/i devono lottare per la sopravvivenza dell’intera Terra, perché è in essa che sono radicate/i, assieme a tutte le forme di vita organiche, artificiali, più o meno o non-umane, cyborg, creature altre, mostruose e inappropriate/abili.”
Per Haraway essere inappropriate/abili vuol dire “trovarsi una relazionalità critica e decostruttiva”, e dunque “tessere connessioni potenti che spezzino i rapporti di dominazione”. L’immagine della tessitura è particolarmente calzante, tanto che l’applicazione pratica di questo processo creativo di formazione di legami ed alleanze è il tradizionale gioco della matassa o del ripiglino, un gioco presente in moltissime culture, dove le innumerevoli possibili combinazioni di intrecci ottenute con le dita e con i fili possono risultare rappresentative della complessità del reale. Un’immagine che evoca il concetto di rizoma proposto da Deleuze e Guattari: si procede per connessioni in qualsiasi direzione, abbandonando le gerarchie del pensiero verticale.
La proposta è infatti di immaginare di creare parentele ‒ che nulla hanno a che fare con le genealogie ‒ con le specie più variegate che chiameremo specie compagne. È proprio tra specie compagne che si gioca al gioco della matassa: i partner con i quali interagire
si incontrano a casa, in laboratorio, sul campo, allo zoo, nel parco, in un veicolo, in ufficio, in prigione, in un ranch, in un’arena, in un villaggio, in un ospedale per pazienti umani, in una foresta, in un mattatoio, in un estuario, in una clinica veterinaria, al lago, allo stadio, in una fattoria, in una riserva protetta, in una fattoria, in un canyon oceanico, nelle strade di città, in fabbrica, e altrove
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È il caso, tra gli altri, del Navajo Sheep Project: una storia di cooperazione tra tessitrici e allevatori di popolazioni indigene del Colorado a lungo oppresse dai colonizzatori americani e la comunità scientifica per la tutela delle pecore Churro. Si tratta di ciò che l’autrice definisce una vera e propria “ecologia natural-sociale”. L’ecologia politica di Haraway è molto lontana da un certo ambientalismo retorico e nostalgico che vede nella natura una condizione di purezza primordiale da preservare, e nella Terra il mito della madre. I nativi che difendono i propri territori non vengono rappresentati come più vicini a questa presunta condizione di autenticità e giustizia, anzi, la loro è una relazionalità sociale costitutiva tanto co-responsabile quanto problematica.
Le parentele, in inglese kin, che andremo a generare saranno imprevedibili e non di sangue (da qui lo slogan: fate parentele e non figli!). Ancora una volta la filosofa gioca con le assonanze e i significati: già Shakespeare nell’Amleto ci faceva notare la somiglianza tra le parole “kin” e “kind” (“gentile”). Dunque, “Making kin” è anche “making kind”, esercitare la propria premura verso l’altro, prendersene cura. Ecco che il lavoro di cura si libera da quel legame oppressivo con la cultura patriarcale smettendo di essere una prerogativa femminile: è prerogativa comune, e in una prospettiva post-antropocentrica, ci pone di fronte ad una nuova problematica questione, l’assunzione collettiva di responsabilità.
Ogni volta che faccio un nodo e aggiungo un paio di fili che all’inizio mi sembravano strambi, ma che alla fine risultano fondamentali per la struttura del tessuto, mi rendo conto che restare a contatto con il problema del mondo che si fa mondo significa giocare a vivere e morire bene insieme su questa terra, a Terrapolis. Tutti abbiamo la responsabilità di modellare condizioni migliori per la prosperità multispecie durante momenti storici terribili, e a volte anche durante momenti storici felici. Ma non siamo tutti responso-abili nello stesso modo. Le differenze sono importanti: nelle ecologie, nelle economie, nelle specie, e nelle esistenze
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Questa nuova cultura della responsabilità si fonda quindi sulla necessità di risposta reciproca e continua tra le molteplici forme di vita terrestri, anche quelle non prossime a noi ma radicate sullo stesso pianeta infetto; sulla nuova idea di una cura diffusa e asimmetrica.
Racconti per la sopravvivenza della Terra
“Abbiamo bisogno di altri tipi di storie”, dice Haraway davanti alla telecamera mentre delle meduse fanno irruzione in casa sua, in un montaggio onirico e surreale. L’acronimo FS ricorre spesso nelle sue opere, e ha molteplici valenze: sta per fantascienza, fabula speculativa, femminismo speculativo, fatto scientifico e string figures, figure di filo. Se spesso leggendola il rischio è di perdersi tra le sue argomentazioni astratte e nella mescolanza dei generi, è bene ricordarsi che per lei inventare storie è un modo per ampliare la prospettiva, una “guarigione pratica”, una vera e propria insurrezione che rifiuta la paralisi della critica, o l’idea che il mondo sia finito perché “sappiamo già come funziona”.
Scritta insieme all’amica psicologa, filosofa ed etologa Vinciane Despret, e al regista Fabrizio Terranova durante un workshop in Normandia nell’estate del 2013, la storia (contenuta in Chthulucene nella sua versione definitiva, differente dalla prima stesura letta nel documentario) di Camille ‒un incrocio tra un essere umano e una farfalla monarca e una dei bambini delle Comunità del Compost, nelle quali ogni bambino ha almeno tre genitori ‒ è per Haraway un esempio di racconto in grado di renderci capaci di immaginare un nuovo scenario terrestre. È un’idea originale, a tratti confusa, senza dubbio audace. Di certo ci smuove dal fango della rassegnazione, ci spinge ad inventarci un non-finale, a portare avanti il gioco. In questo scenario immaginato ma possibile, scrive Haraway:
Naturalmente si fecero errori terribili. Si capiva che ci sarebbe stata molta sofferenza. Ma le comunità sentivano di essere figlie del compostaggio. Accettavano i guai. In un modo o l’altro erano qui per fare quei giochi a ripiglino che avrebbero reso possibile un continuo fiorire.
D’altronde persino i più cinici in attesa dell’apocalisse incombente potrebbero aver bisogno di un antidoto, un tampone sulla ferita, una strategia per restare a galla.