Ospitiamo un breve saggio del prof. Giovanni Destro Bisol, docente di Antropologia dell’Università La Sapienza di Roma.
C omunicare saperi, stimolare riflessioni e confrontare punti di vista sulla diversità umana è oggi un compito tutt’altro che semplice. Il problema non sta tanto nella profondità delle conoscenze, quanto in ciò che accade nel mondo in cui viviamo. Le persistenti difficoltà economiche, e i primi effetti della crisi ambientale, hanno da tempo generato rilevanti flussi migratori dai paesi più poveri e politicamente instabili verso le nazioni più ricche, senza che quest’ultime siano riuscite a sviluppare politiche efficaci per l’integrazione. Questa situazione si inserisce in un quadro globale di forte crescita delle disparità economiche, a causa della quale strati crescenti della popolazione, anche nel mondo occidentale, si trovano in situazione di disagio economico se non di povertà. Insieme, questi fattori hanno creato un terreno di crescita ideale per la diffusione, in Italia e altrove, di atteggiamenti, ideologie e forme politiche che identificano strumentalmente nei migranti la causa principale dei molti problemi irrisolti sul piano sociale ed economico. La diffidenza e il timore che i portatori di diversità biologica e culturale suscitano in una parte ampia della società testimoniano il loro successo.
Non serve a molto nemmeno il fatto che le nostre conoscenze, arrivate oggi a un livello di completezza impensabile solamente un decennio fa, rendano insostenibile qualsiasi modello razziale; sappiamo ormai di essere una specie molto giovane in termini evolutivi, altamente promiscua ed estremamente omogenea, al di là dell’apparenza del colore della pelle o della forma degli occhi. Purtroppo, i discorsi che mettono in luce la grande somiglianza di tutti gli esseri umani non trovano orecchi attenti quanto quelli che insistono sulle nostre differenze.
Il “Manifesto della diversità e unità umana” vuole offrire un punto di riferimento a coloro che sono interessati a riflettere sulle cause e i significati della diversità umana.
Si pone, quindi, l’esigenza di ripensare quali possano essere le modalità attraverso le quali condividere più efficacemente conoscenze, ragionamenti e sensibilità sulla diversità umana e le questioni collegate. Quelle che leggerete qui sono alcune idee, frutto dell’integrazione delle mie conoscenze di studioso della storia naturale di Homo sapiens con convinzioni e perfino aspirazioni che ho coltivato al di fuori di schemi accademici predefiniti – partendo dal convincimento che affrontare il tema della diversità umana significhi confrontarsi non solo con la dimensione cognitiva del sapere, ma anche con quella interiore del sentire.
Questo contributo fa parte delle iniziative collegate al Manifesto della diversità e unità umana attraverso il quale, a ottanta anni di distanza dal famigerato Manifesto della razza del 1938, un gruppo interdisciplinare di studiosi ha voluto non solo testimoniare l’errore sociale, scientifico e culturale e la profonda disumanità del razzismo in ogni sua forma, ma offrire anche un punto di riferimento a coloro che sono interessati a riflettere sulle cause e i significati della diversità umana.
Riconnettere diversità, unità ed eguaglianza
Già nel titolo, il nuovo Manifesto contiene un primo messaggio: è giunto il momento di porre in evidenza un concetto che è stato troppo spesso relegato ai margini, sia nel discorso pubblico che nella comunicazione scientifica: l’unità di tutti gli esseri umani. Parafrasando il famoso motto di Theodosius Dobzhansky sulle relazioni tra biologia ed evoluzione, non si può comprendere appieno la diversità umana se non alla luce del fatto che la storia evolutiva ha determinato, prima ancora delle somiglianze e delle differenze, la comparsa nei nostri ancestor di novità estremamente significative sia sul piano biologico, che su quello culturale e comportamentale. Per quanto gli studi etologici abbiano ridimensionato a differenze di grado alcune delle caratteristiche che ci distinguono dagli animali a noi più vicini evolutivamente (le scimmie antropomorfe dei generi Pan, Gorilla e Pongo), la comparsa del genere Homo e della nostra specie (Homo sapiens) ha segnato senza dubbio una sostanziale discontinuità tra noi e il resto del mondo animale. Una narrazione completa della diversità umana dovrebbe partire proprio da qua, mettendo in chiaro che linguaggio, pensiero astratto, creatività, capacità di cooperare e di interagire in maniera sofisticata e progettuale sono un patrimonio comune a tutti gli esseri umani. Se vogliamo dare un senso e un peso adeguato alle nostre differenze (così come alle nostre somiglianze) e ai loro significati, non dobbiamo mai perdere di vista l’immenso capitale che condividiamo e che rende unico il nostro posto nella natura.
Trova ancora molti seguaci un’altra riflessione di Dobzhansky, secondo cui sarebbe opportuno riconoscere a tutti gli esseri umani la stessa dignità e gli stessi diritti in nome di un precetto etico, senza essere condizionati dal “quanto” e/o dal “come” siamo diversi (Genetic Diversity and Human Equality, 1973). In questo modo, l’eguaglianza può essere messa al riparo dagli errori e dalle strumentalizzazioni cui anche la scienza, come ogni altra attività umana, è soggetta. Se, da una parte, il ragionamento appare immediatamente condivisibile, dall’altra introduce un rischio non trascurabile: per evitare di cadere in un errore – far dipendere i diritti dalla somiglianza – si finisce per generarne un altro: considerare diversità ed eguaglianza alla stregua di concetti antitetici.
Al netto degli effetti dell’ambiente, non vi sono reali differenze nelle potenzialità intellettive e nelle inclinazioni morali tra i gruppi umani. Differenze sono, invece, osservabili tra gli individui che ne fanno parte.
Al di là di pregiudizi, false credenze ed evidenze pseudo-scientifiche, sappiamo che, al netto degli effetti dell’ambiente, non vi sono reali differenze nelle potenzialità intellettive e nelle inclinazioni morali tra i gruppi umani. Differenze sono, invece, osservabili tra gli individui che ne fanno parte. Ad esempio, alcuni si mettono in evidenza per le loro abilità, più o meno spiccate, in campi dell’arte o della scienza, come la musica, la pittura o la matematica. Altri mostrano la capacità di sentire empaticamente come propri i bisogni e le sofferenze altrui. Nel loro complesso, le diverse attitudini, sia che distinguano o che avvicinino agli altri coloro i quali ne sono portatori, testimoniano l’ubiquità di quegli elementi costitutivi dell’unità della nostra specie cui si faceva riferimento in precedenza (intelligenza, creatività e sensibilità). Nel contempo, svolgono un ruolo fondamentale, contribuendo a rendere le persone capaci di soddisfare i bisogni individuali, sia quelli “del sé” (per esempio accettazione e autorealizzazione), che quelli che ricadono in una dimensione sociale (per esempio senso di appartenenza, stima e rispetto). Il fatto che le diverse attitudini possano manifestarsi con modalità che variano a seconda dei contesti sociali, storici e culturali, non toglie nulla al valore e al significato della profonda comunione tra gli esseri umani che esse segnalano. Grazie a loro, l’eguaglianza trova fondamento, ancor prima che in una concessione a valori etici e ideali, in qualcosa che è insito nella natura umana e, come tale, oltrepassa i confini geografici, storici e sociali.
Come ci insegna lo studio del passato, l’incontro tra i gruppi umani e la fertilizzazione reciproca dei loro patrimoni cognitivi, astrattivi ed espressivi ha avuto un ruolo chiave nel determinare le capacità adattative della nostra specie. Nel mondo in cui viviamo, sempre più interconnesso e globalizzato (ma non per questo meno ricco di diversità), ”meticciare” le nostre idee significa affrontare le sfide che il presente ci offre e quelle che il futuro prepara.
Se il razzismo fosse solo la punta dell’iceberg?
Razzismo è un termine ombrello che utilizziamo per indicare comportamenti umani accomunati dall’idea che le capacità cognitive e le qualità morali siano diverse a seconda dell’origine e dell’aspetto esteriore di ogni individuo. Si può tentare di mettere a fuoco i suoi significati definendone le differenti tipologie. Una distinzione spesso utilizzata si basa sul livello al quale il razzismo viene praticato: individuale, interpersonale o istituzionale. Un ulteriore criterio è rappresentato dalle sue finalità: lo sterminio (come nel Terzo reich), la segregazione (apartheid in Sudafrica), lo sfruttamento dei “razzializzati” oppure la difesa da una loro presunta invasione (in molti contesti attuali del mondo occidentale). Dalla seconda metà del Novecento, al razzismo di matrice prettamente biologica si è aggiunto il cosiddetto neo-razzismo o “razzismo senza razza”, tramite il quale si vogliono giustificare politiche e atti discriminatori facendo perno non più sulle differenze fisiche e genetiche, ma su quelle culturali e religiose.
Se si vogliono comprendere le dinamiche individuali e sociali che portano le persone al razzismo, può essere utile muovere il fulcro del ragionamento dalle sue tipologie alle analogie con altri comportamenti sociali che producono intolleranza, discriminazione e violenza. Per fare questo è necessario cambiare radicalmente prospettiva: pensare al razzismo non più in modo sincronico (come comportamento), ma diacronico, come punto d’arrivo di un processo. Pur immaginando quest’ultimo come un continuum, potremmo descriverlo per comodità attraverso tre fasi: semplificazione, stigmatizzazione e odio.
- Semplificazione. Spesso avvertiamo la necessità di semplificare ciò che accade intorno e dentro di noi attraverso un lavoro di selezione e ordinamento, riducendo ciò che osserviamo a schemi e categorie. Ovviamente, questo non riguarda solo la diversità umana, e non va visto necessariamente in modo negativo: può essere un modo per organizzare la nostra esperienza o comunicare più efficacemente cose complesse. Nel nostro caso, è lecito sostenere che utilizzare il concetto di razza non rende automaticamente razzisti, ma può semplicemente rispondere a un’esigenza cognitiva. Questo non impedisce, tuttavia, di riflettere più attentamente sulla visione della diversità che è connaturata all’idea di razza. Per fare questo, non bisogna intendere le razze umane come un termine che esprime una generica diversità (un errore compiuto da molti), ma come qualcosa di ben preciso: categorie che sono, o per meglio dire pretendono di essere, discrete (chiaramente distinte l’una dall’altra), omogenee (gli individui di una stessa razza sono molto simili tra loro e molto diversi da quelli di altre razze) ed esclusive (ogni persona può appartenere a una sola razza).
- Stigmatizzazione. Come alcuni degli eventi più drammatici della nostra storia recente ci insegnano, le razze hanno assunto agli occhi di molti non tanto il significato di categorie “di comodo”, quanto di raggruppamenti “naturali”. Chi fa propria questa visione, si incammina su una strada che può portarlo ad associare aspetto fisico, cultura o religione, da una parte, e stigmi di varia natura, dall’altra: una volta che ci si abitua, o si viene abituati, a ragionare sulla diversità sulla base di schemi riduttivi e disumanizzanti come quelli razziali, non solo si finisce per credere che siano reali, ma diventa anche più facile convincersi, grazie anche all’impatto della propaganda e della falsa informazione, che i negri sono incivili, i gialli scaltri e maligni, gli islamici terroristi. Accettando che le differenze, le storie e i valori degli individui vengano oscurate da categorie astratte e prive di qualsiasi base scientifica, si finisce, anche inconsapevolmente, per mettere in discussione beni immateriali ma fondamentali per la società, come la convivenza, la condivisione e la solidarietà.In ogni caso, non possiamo far finta di non vedere quanto il passaggio dalla semplificazione alla stigmatizzazione venga facilitato da Internet. Utilizzando messaggi continui, brevi e capaci di toccare la sfera emotiva, i social possono indebolire le capacità dei loro utenti di riflettere con spirito critico su ciò che viene propagandato. Al tempo stesso, chi fa parte di comunità virtuali, pensa, o si illude, facilmente di condividere “verità di gruppo”, il che rafforza il convincimento interiore e rende ancora più difficile ripensare in modo autonomo pregiudizi e false credenze.
- Odio. Nel semplice schema che vi propongo, il passaggio finale è quello che porta a sentimenti di odio e facilita la diffusione a livello sociale delle ideologie che ne sono portatrici. Quest’ultimo può essere visto come il risultato della combinazione di due ingredienti essenziali: ignoranza e paura. L’ignoranza, intesa come mancanza di conoscenza che ha tra i suoi effetti anche quello di rendere meno capaci di valutare la qualità delle informazioni che si ricevono, espone strati significativi della popolazione alla propaganda razzista. Ne sono dimostrazione il successo di fake news, come quella dei 35 euro al giorno dati ai migranti o quella degli extracomunitari che passano il tempo baloccandosi con smartphone di ultima generazione. Nella categoria dell’ignoranza può essere vista, in definitiva, anche la tendenza a ritenere inferiori culture e religioni altrui, molto spesso senza conoscerle minimamente, per poi sviluppare forme di superbia o, ancor peggio, di disprezzo generalizzato, come accade oggi spesso a danno dei migranti. La paura può essere accesa dal timore di vedere la capacità di soddisfare i propri bisogni, magari già precaria, ulteriormente compromessa dall’arrivo dei “nuovi”, così come dal terrore dell’uomo nero o di quello con la barba lunga e la tunica che vengono per imporre con la forza il ritorno alla legge della giungla o la sottomissione alla sharia.
Possiamo pensare che il processo appena schematizzato possa spiegare il formarsi di altri comportamenti sociali che producono discriminazione, intolleranza e atti violenti? Seppure con gli opportuni distinguo, la mia risposta è sì. Il sessismo, l’omofobia e anche le forme di intolleranza religiosa mostrano, infatti, analogie significative con quanto appena delineato. Il punto di partenza per il loro diffondersi è sempre l’adozione di categorie semplificatorie che nascono da una concezione rigida dell’alterità, attraverso le quali si opera una taglio netto tra “noi” e “loro”. Questi ultimi vengono collocati, senza alcun rispetto della persona in quanto tale, in gruppi sui quali è facile riversare stigmi di vario tipo: essere “per natura” subalterni a chi appartiene al “sesso forte”; possedere una sessualità “deviata”; professare una religione crudele; sostenere un’eresia inaccettabile. Oltre che tra coloro che fanno un certo utilizzo dei social, questi sentimenti trovano più facilmente terreno fertile tra chi è refrattario al confronto con i “diversi” e ignora del tutto il loro modo di intendere la vita. La paura può essere quella di sentirsi umiliati da chi si dovrebbe aver sottomesso secondo stereotipi basati sulla prevaricazione e la sottomissione dei più deboli Oppure, di diventare malvisti perché non si fanno propri atteggiamenti intolleranti, ma che danno una qualche preminenza in certi ambienti degradati. O, magari, di non rendere evidente agli altri la propria adesione a una qualche pratica socialmente diffusa o addirittura istituzionalizzata, ancorché discriminatoria e violenta.
Può avere senso costruire una narrazione che metta insieme razzismo, sessismo, omofobia e intolleranze religiose? Forse sì, perché potrebbe essere utile per far sì che più persone, partendo da punti di vista ed esperienze personali differenti, possano cogliere il filo rosso che lega l’incapacità o il disinteresse a vedere le persone nella loro individualità, la facilità con cui pregiudizi e intolleranze possono attecchire nelle menti umane e la disinvoltura con cui si finisce per accettare, o far finta di non vedere, la discriminazione e la violenza nei confronti di chi è ritenuto diverso.
Per un’identità nella diversità
Nel corso della nostra esistenza ci interroghiamo continuamente su noi stessi e il mondo che ci circonda, chiedendoci cose del tipo: “chi sono io nel corpo e nella mente?”, ”quali sono i miei valori?” oppure “come mi rapporto agli altri?”. Le risposte che diamo a noi stessi di volta in volta concorrono a definire la nostra identità. Possiamo avere bisogno dell’identità per più di un motivo. Per sentire di essere delle persone in un mondo pieno di altri noi, per orientare il nostro rapporto con gli altri, per capire quali scelte fare nel momento in cui valori e necessità entrano in contrasto.
L’ininterrotto dialogo alla ricerca di noi stessi ha un altro importante significato. Ci mette di fronte al fatto che pensieri e azioni descrivono le nostre personalità come complesse, mutevoli e non riducibili a stereotipi. Personalmente posso definirmi oggi come un cittadino italiano, che non si riconosce in nessuna religione e crede che umanità e solidarietà siano valori primari. Se provo a mettere insieme queste e altre sfaccettature, inevitabilmente mi rendo conto di essere immerso in un buon numero di contraddizioni o perlomeno di incongruenze. Mi sento legato al mio paese e della sua storia, ma mi riconosco anche come cittadino dell’Europa e del mondo. Sono pronto per molte questioni ad adottare un punto di vista relativista, ma mi identifico nei valori della Costituzione. Credo che l’accoglienza si debba accompagnare alla responsabilità e al rispetto delle regole (da parte di tutti), ma posso capire come particolari stati di bisogno possano condurre a uscire da certi binari.
Possiamo avere bisogno dell’identità per più di un motivo. Per sentire di essere delle persone in un mondo pieno di altri noi, per orientare il nostro rapporto con gli altri, per capire quali scelte fare nel momento in cui valori e necessità entrano in contrasto.
Sotto la spinta emotiva di alcuni fatti, posso sentire crescere dentro di me sentimenti che a parole detesto, sotto quella di altri posso mettere in dubbio limiti e barriere che mi sembravano prima insormontabili. L’elenco potrebbe essere più lungo, ma quanto detto mi sembra già sufficiente per mettere in dubbio che la mia identità sia davvero ferma e irremovibile. Ma, allora, posseggo diverse identità, magari troppe? Oppure, non ne posseggo alcuna? Credo che nessuna risposta possa essere convincente se si rimane ancorati a un’identità intesa come a una cosa monolitica, stabile e perfettamente coerente con se stessa. Se si pensa che non possa tenere conto della diversità e della mutevolezza che caratterizzano i percorsi di vita, pensieri e comportamenti di ciascuno di noi. Un po’ come rimanere fermi sull’idea che un corso d’acqua venga alimentato solo da una sorgente di montagna, rifiutando la possibilità che possa essere invece un fiume che raccoglie nel suo corso diversi affluenti.
Accettando le contraddizioni e provando a riconciliarle, ciascuno può maturare un senso di coerenza interiore che non significhi rigidità, ma che porti a stabilire un rapporto più consapevole, aperto e creativo con se stesso e con gli altri, aiutando a superare le barriere innalzate dell’alterità. Magari, perché si è imparato ad anteporre la comprensione al giudizio. Oppure, perché si riescono a cogliere le analogie tra le proprie storie individuali, famigliari o di gruppo e quelle di chi è vissuto in contesti molto differenti dai nostri. In queste riflessioni, può essere visto l’eco di quanto afferma l’economista e filosofo Amartya Sen quando sottolinea che attraverso l’accettazione delle proprie diverse identità si possono cogliere meglio i punti di contatto con chi riteniamo esserci estraneo. Tornando a usare me stesso come “cavia” (non per vanità, ma per mancanza di alternative), potrei forse sentirmi più aperto alle ragioni altrui e meno lontano da coloro che dicono di vergognarsi di essere italiani, oppure da chi si professa un religioso ortodosso o crede di poter di migliorare la sua vita rifiutando l’empatia. Insomma, seguendo la strada tracciata da Amartya Sen è possibile superare l’accezione divisiva dell’identità, fino a renderla un mezzo per favorire avvicinamento, contaminazione e cambiamento reciproco tra noi umani.
Ovviamente, sviluppare la propensione a riconoscerci e accettarci come portatori di identità diverse non è né immediato né semplice. Si possono senz’altro fare passi in avanti attraverso l’educazione, sfruttando anche occasioni di dialogo che partono da altri presupposti e si sviluppano con altre finalità. Il tema della diversità umana può essere uno di questi. Mentre cerca di tracciare un quadro generale delle somiglianze e differenze tra noi umani, ciascuno di noi sente, prima o poi, la necessità di pensare a sé stesso e al suo posto nel grande insieme dell’umanità. Forse potremmo incrementare la sinergia tra questi due livelli di pensiero, cercando di creare esplicitamente un’osmosi tra la riflessione su ciò che è dentro di noi e quella che riguarda ciò che circonda: tra la diversità delle nostre identità e quella tra i nostri simili.
Attraverso l’accettazione delle proprie diverse identità si possono cogliere meglio i punti di contatto con chi riteniamo esserci estraneo.
Provo a essere meno generico. Immaginiamo che alcuni rivendichino apertamente di essere sistematicamente discriminati per via del colore della pelle o della propria cultura. Altri possono reagire inizialmente con indifferenza o fastidio. Ma poi, alcuni di essi possono rendersi consapevoli di non essere del tutto estranei al problema della discriminazione. Magari, tra questi ci potrebbe essere un distinto signore di mezz’età, che sente crescere dentro di sé la consapevolezza di quanto gli pesi ancora l’essere stato sbeffeggiato ed emarginato da piccolo perché andava troppo bene a scuola. Oppure, una signora appena quarantenne che si sforza di apparire in grande forma, ma che, per un evento inatteso, non riesce più a nascondere un certo handicap e vede cambiare l’atteggiamento degli altri nei suoi confronti. O, per finire, un anziano che, mentre discute con altri proprio di quella rivendicazione, si rende conto che la sua conoscenza reale del mondo, maturata nel corso di una lunga e travagliata esistenza, viene ridicolizzata da chi il mondo lo conosce solo attraverso il suo smartphone. Anche se i motivi, l’intensità e le conseguenze sono diverse, il prendere coscienza di essersi sentiti e/o di sentirsi soli e messi da parte può aiutare quel signore di mezz’età, la quarantenne e l’anziano a calarsi nei panni di coloro le cui vite sono state segnate ancora più profondamente dall’intolleranza e la discriminazione, e a vedere sotto una diversa luce le loro istanze.
Confesso che quando ho iniziato a scrivere non immaginavo che mi sarei temerariamente avventurato in temi lontani da quelli che generalmente contiene un breve saggio. Probabilmente anche voi sarete rimasti un po’ spiazzati, ma qualsiasi siano le vostre reazioni alle idee che ho esposto, mi piacerebbe possiate cogliere, e magari condividere con me, la convinzione che mi ha portato a scrivere questo breve articolo e che sta dietro a ogni punto trattato. Mi riferisco al ruolo insostituibile della conoscenza della storia, da quella profonda di Homo sapiens a quella breve e interiore di ciascuno di noi, per avvicinarci a un obiettivo tanto arduo da raggiungere quanto desiderabile: diventare pienamente consapevoli di essere intrinsecamente legati l’uno all’altro, pur nella nostra diversità, da un’identità in grado di ricomprendere tutte le altre. L’identità che ci deriva dall’essere umani.