L a scuola dovrebbe servire a colmare quegli svantaggi primari determinati dalla propria estrazione sociale, secondo l’articolo 3 della Costituzione. Liberare attraverso il linguaggio, fornire strumenti interpretativi, far vivere un luogo accogliente qui ed ora, per studenti che vivono in luoghi miseri e precari, con relazioni brutali e distorte. Ma la scuola riesce in questo nobile intento?
Il rapporto della scuola italiana con le classi popolari comincia molto lontano nel tempo ed è tutt’altro che un rapporto d’aiuto. Occorre riannodare le fila della storia e risalire alle “classi differenziali” in cui venivano relegati i caratteriali, gli umili, gli indisciplinati. La logica dello Stato era molto semplice: chi non si conformava alle sue logiche e ai suoi dispositivi comportamentali veniva sbattuto altrove, in classi apposite e separate. Infatti, all’articolo 12 del testo di legge della riforma Casati, volta a regolare l’istruzione nell’Italia unificata (anno 1862), si sanciva che “possono essere istituite classi differenziali per gli alunni disadattati scolastici”. Già allora l’individualizzazione del problema.
La scuola italiana ha promosso sin dalla sua fondazione una segregazione. Da una parte un codice di condotta molto chiaro (ordine, pulizia, silenzio, proprietà espressiva), dall’altro tutto il resto (diversi corpi e funzionamenti, diversi linguaggi, diversi costumi, diversi standard igienici). La borghesia si è fatta, insomma, la sua scuola, gli altri sono stati spostati fuori e altrove, nelle classi differenziali per l’appunto.. Essere adattati, allora, significava rientrare nel canone della scuola borghese, al limite tradendo le proprie abitudini familiari e sociali se vi si voleva restare. Ad ogni modo, un ordine scolastico e morale era stato stabilito.
Successivamente, negli anni Settanta l’abolizione delle classi differenziali (legge 517/1977), venuta in un periodo di grande fermento politico, è avvenuta come una rottura inedita. È stata l’esito di un movimento sociale generalizzato, animato da idee anticlassiste, che ha investito anche l’impianto scolastico di un desiderio di riforma (se non vera e propria rivoluzione). Le analogie sono molte con la legge Basaglia (legge 180/1978) di quegli stessi anni: parimenti. L’area politica che se ne è fatta sostenitrice intendeva promuovere un principio di non separazione tra sani e malati, normali e anormali, adattati e disadattati. Nell’un caso si sono aboliti i manicomi, nell’altro le classi ghetto. Si cominciò allora a dire: il problema non è nelle persone ma nelle istituzioni sociali. Il problema non sono i disadattati ma l’idea di adattamento. Entrambe le leggi, però e tristemente, si sono rivelate vittorie dimezzate: alla promessa di liberazione per gli “internati” delle istituzioni disciplinari è seguita una restaurazione informale delle pratiche di assoggettamento. Oggi abbiamo segregazioni più diffuse, frammentate, disarticolate e perciò forse più insidiose.
Alla promessa di liberazione per gli “internati” delle istituzioni disciplinari è seguita una restaurazione informale delle pratiche di assoggettamento.
Se rivolgiamo lo sguardo alla scuola unica, elementari e medie, scopriamo una cosa nota, ossia che sono rimaste informalmente le classi ghetto, le ultime sezioni degli istituti, riservate ai proletari. Poi ci sono le scuole ghetto, edificate in certi quartieri enclave (popolati prevalentemente da immigrati e famiglie autoctone che non hanno beneficiato di nessuna forma di sviluppo), scuole, queste, che vengono schivate con attenzione dalle “famiglie bene”. Se invece guardiamo alla secondaria, le famiglie si dividono subito per indirizzo: la popolazione dei licei vive nei “quartieri bene”, ha i genitori laureati e ben stipendiati. La popolazione dei tecnici e dei professionali risiede ai margini del “progresso”, in periferia, e ha i genitori working class precari, a nero se non disoccupati. Così, l’abbandono scolastico resta bassissimo nei licei (1,6%) e schizza nei tecnici (3,8%) e nei professionali (7,2%) (Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, 2022).
Ma i veri problemi si vedono non solo nella segregazione de facto ma nelle classi a maggiore mixité. È nelle classi miste che davvero si capisce come nulla sembra essere cambiato per gli studenti non-conformi al modello lineare dell’auditorium-scriptorium. Un modello, ricordiamolo, che chiede a tutti i ragazzi, compresi quelli con vite complicatissime, di restare composti e in silenzio per ascoltare, scrivere e ripetere: tutto il loro subbuglio interiore non ha alcuno spazio previsto. E ciò colpisce anche la borghesia, sia chiaro. Quanti sono i casi di studenti di buona famiglia che, di fronte a un lutto famigliare o a una difficoltà personale, vivono un momento di smarrimento e vengono sanzionati dalla scuola con una bocciatura? Qui si capisce allora che inclusione non significa semplicemente accogliere formalmente tutti o inserire qualche portatore di handicap o svantaggiato sociale. Ci vuole molto di più. In che senso?
A guardare bene, è proprio nel sistema scolastico che lo stigma sociale si è storicamente rinforzato se non addirittura “prodotto”. La scuola, nelle sue diverse articolazioni, ha edificato una certa visione culturale della “norma” e della “devianza”. Prima ha costruito un meccanismo presunto educativo (silenzio-seduti-ascoltate-ripetete), poi ha adottato una certa postura stigmatizzante verso chi non si conformava a questo meccanismo. Pierre Bourdieu l’ha definita, analizzando i sistemi scolastici negli anni Sessanta, violenza simbolica, spiegando come lo Stato (e la scuola in particolare) agisse come una “banca centrale del capitale simbolico e culturale”, istituendo differenze che diventano disuguaglianze, diversità che diventano esclusione.
Le cose non sono cambiate con una semplice legge che riammetteva formalmente i “bruti” tra i “civili”. Non basta un colpo di spugna a fare l’inclusione, se non è avvenuta una vera trasformazione nei modi di pensiero. Dall’abolizione delle classi differenziali si è infatti instaurata la logica dell’integrazione, che è ancora oggi dominante: c’è un dentro e un fuori, persone perbene e persone “malamente”, persone educate e persone maleducate, persone integrate e persone da integrare. I secondi, se vogliono, possono convertirsi. In quel caso saranno ammessi nel consesso delle persone perbene. L’invito è sempre lo stesso: conformarsi, tradendo le proprie inclinazioni, eventualmente le proprie origini, tutti quei codici culturali e di classe da cui si proviene. Mica che quella scuola tutta rigida forse è adatta solo ad alcuni? Eppure, era chiaro già allora che solo una modifica complessiva dei metodi e dei contenuti didattici avrebbe reso davvero possibile l’inclusione.
Solo una modifica complessiva dei metodi e dei contenuti didattici avrebbe reso davvero possibile l’inclusione.
Chiediamoci, allora: non è l’istituzione ad essere ancora inadatta all’inclusione? Forse non sono gli studenti ad abbandonare, ma la scuola ad espellere? Chi ha specifiche caratteristiche fisiche, cognitive, relazionali, umorali, pone una questione sociale, culturale e politica: la scuola di oggi e di ieri è stata in grado di contemplare altri corpi, altri funzionamenti, altri linguaggi? Di fronte alla differenza, la scuola in essere è sempre oscillante tra due posizioni: una pietistica, una, invece, disciplinare. A seconda se siano poveri docili o poveri indocili, la risposta cambia. Scriveva Maud Mannoni ne L’educazione impossibile, nel 1974:
Il bambino a scuola è preso tra la seduzione e la punizione come metodo educativo. L’alternativa è d’altronde del tutto relativa: la condotta autoritaria o liberale procede in effetti a una stessa violenza, aperta o mascherata. Al bambino si domanda di sottomettersi alle esigenze e alle stereotipie di un codice di buona condotta; il discorso in cui è preso non è così nient’altro che un rituale che definisce condotte da tenere, determina ruoli da svolgere.
L’obiettivo è comunque sempre lo stesso: farne un nostro simile, un borghese di buone maniere, con o contro voglia. E quando c’è buona volontà tutto bene, lo si può aiutare, compensare i suoi “deficit”, persino dispensarlo e fargli fare qualcosa alla sua portata. Quando invece c’è rifiuto della cultura e dei modi borghesi, quando c’è voglia di vita e movimento, o rifiuto delle forme imposte allora la risposta istituzionale è tutta disciplinare (spesso in nome del suo bene). A buona riprova basti pensare che a scuola, generalmente, si preferisce l’apatia all’irriverenza. La prima non disturba, la seconda questiona.
La scuola, dunque, attende dallo studente che esegua ciò che è stato previsto per lui. La libertà lasciata al ragazzo è illusoria: questi non ha altra via di riuscita che nell’adattamento al mondo scolastico così com’è fatto: sedentario e verbocentrico. Lo studente può venir ammesso a scuola solo se rinuncia a tutto ciò che è, solo se rinuncia al suo desiderio di muoversi, ridere, scherzare. E quando i metodi di manipolazione morbida falliscono, l’istituzione ritorna alla coercizione. Non si fa, non si deve, “se fai questo… allora…” e via con le minacce e le pene, in un crescendo: ti metto la nota, ti sospendo, ti boccio… ti do il foglio di via, il daspo e poi persino il carcere.
Inutile allora moltiplicare gli appelli a “prolungare l’esperienza scolastica degli svantaggiati”, se la scuola è quella che è. Sempre Mannoni osservava:
L’obbligo scolastico prolungato fino ai sedici anni è nocivo a una categoria di ragazzi ribelli a ogni inquadramento nella scuola. Questi ragazzi, che a quattordici anni sanno appena leggere e far di conto, hanno un passato assai pesante di insuccessi scolastici. […] Per questo tipo di ragazzi una vita in istituzione è distruttiva; essi hanno bisogno di poter lasciare un determinato luogo […] per trascorrere un periodo nel mondo del lavoro.
La scuola è divenuta un luogo patogeno per migliaia di ragazze e ragazzi svantaggiati, i quali vivono un’istituzione che “vorrebbe salvarli riportandoli dentro”, come scrive Pirozzi in “Viva l’evasione scolastica” (2016). Pare che nessuno, invece, voglia mettere mano a spazi, tempi, modi didattici, relazioni, gerarchie di saperi. Cosicché ancora oggi, a distanza di anni dalle intuizioni della pedagogia nuova, non si contano tutti i momenti e gli aspetti “di mortificazione, di sforzo non motivato da un interesse, di indottrinamento, di acquisizione mnemonica e meccanica” (De Bartolomeis, Cos’è la scuola attiva, 1975).
Di fronte alla differenza, la scuola è sempre oscillante tra due posizioni: una pietistica, una, invece, disciplinare. A seconda se siano poveri docili o poveri indocili, la risposta cambia.
Gli effetti sono che all’allievo, applicando metodi sbagliati, è paradossalmente impedito di apprendere e crescere. Con la pretesa di annientare l’ignoranza e la maleducazione, si finisce per annientare il desiderio autonomo del ragazzo. Gli si intima una norma inadatta cosicché l’immagine di sé ne esce irrimediabilmente compromessa per la continua disistima di cui è oggetto. Con il tempo la scuola non può che apparirgli penosa e mortifera. Non saprebbe dirlo espressamente, perché gli studenti riottosi non sono né intellettuali né rivoluzionari, ma con ogni suo gesto ci parla di quel che non va. Egli è il “sintomo della malattia delle istituzioni”. In un certo senso, il disperso scolastico è stato sapientemente “prodotto”. Occorre allora intendere il “rifiuto di adattarsi” quale un “segno di sanità nel ragazzo che rifiuta quella menzogna mutilatrice in cui la frequenza scolastica lo imprigiona”, per usare ancora le parole di Mannoni.
Fino ad oggi la scuola ha proposto una grande simulazione statica della vita, cercando di raccontare la realtà o a voce o per iscritto, dentro aule chiuse; ha fatto ricorso a rapporti disciplinari, sospensioni e prediche moralistiche per disconfermare gli inevitabili comportamenti oppositivi degli studenti (soprattutto quelli proletari). Oggi, allora, occorre trasformare modi, tempi, luoghi ed esperienze scolastiche affinché queste contemplino il corpo, il movimento, il personale, il ludico e molto altro, che è poi il modo per destrutturare l’assetto verbocentrico e sedentario che è corrente. Se si smantella l’apparato stigmatizzante, si può smantellare anche la forma-scuola. Se si smantella la forma-scuola si può smantellare anche l’apparato stigmatizzante.
La sfida che questi ragazzi ci pongono è allora quella di una modifica radicale dell’istituzione: i corpi degli studenti in dispersione chiedono un sistema diverso. Come insegnanti ed educatori siamo chiamati a interpretare la dialettica conflittuale che essi ci propongono, per trarne le dovute conseguenze su cosa non va nel nostro modo di fare. La loro “devianza” ci dice moltissimo su di noi. Essi non sono dei semplici ribelli, ma persone che cercano di esprimere la propria soggettività nella società mentre questo gli viene continuamente impedito. Hanno bisogno di esprimere la propria personalità, cioè di avere un potere e una responsabilità nella gestione del proprio ambiente di vita: è così che si diviene soggetti adulti.
I corpi degli studenti in dispersione chiedono un sistema diverso.
Occorre, allora, creare un ambiente educativo nel quale sia possibile fare e lavorare (dunque attivarsi) ma anche appartenere e decidere (dunque prendere parola).
Fare e lavorare perché sono queste esigenze primarie dell’essere umano e che deve usare la sua natura creativa o rassegnarsi ad essere infelice e miserabile. Il che implica, a scuola e non solo, “un programma rivoluzionario per restituire all’uomo i suoi strumenti”, come scriveva nel 1971 Paul Goodman in La gioventù assurda. La scuola è il luogo in cui il ragazzo è infantilizzato e spossessato della sua capacità creativa, della sua possibilità di azione. La scuola è il luogo in cui il ragazzo viene passivizzato. Se davvero si capisce il danno che tutto questo produce, si può cominciare a innescare alcune trasformazioni sostanziali, di cui la storia dei metodi “attivi”, le mille pedagogie, montessoriane, freinetiane, decrolyane, deweyane, e successive che sono ricchissimi di esempi.
Appartenere e decidere perché ognuno possa partecipare di un potere di decisione sullo spazio in cui vive, sentendosene parte. La classe è un luogo nel quale ci si trova a vivere per sorte con persone molto diverse da noi e che non ci siamo scelti. Allora, essa non può che configurarsi come un organismo vivo nel quale la soggettività di ciascuno sia tenuta in debito conto e concorra alla costruzione del gruppo-classe. Come si sta in questo spazio? Quali regole vigono? Lo si decide insieme. Questo implica una nuova identità per il docente: non vanno cambiati i rapporti umani, ma vanno rivoluzionati i rapporti sociali tra insegnanti e studenti, tra borghesi e classi popolari, tra persone che hanno il potere e persone che non lo hanno. Eliminare l’alto e il basso, smetterla di credere che ci sia un polo positivo e un polo negativo. Così facendo si ridà potere agli adolescenti subalterni, il che equivale a ridare potere ai subalterni in generale.
A quel punto l’insegnante può abbandonare il centro della scena, smettere di essere contemporaneamente portatore assoluto del sapere e garante dell’ordine. Può divenire facilitatore sia nella costruzione della conoscenza sia nella costruzione della comunità di convivenza e apprendimento. Egli deve riconoscere la differenza costitutiva della propria posizione (insegnante, generalmente bianco, di classe media e buona cultura, integrato) che non è lì per instaurare il proprio sapere e un regime di muta ubbidienza ma per dare vita insieme ai suoi studenti a uno spazio a un tempo di confronto e costruzione del sapere. Non deve più tentare di imporre il suo modello di condotta e la sua verità ma piuttosto avviare uno scambio relazionale e discorsivo che possa smuovere veramente qualcosa nell’animo dei ragazzi.
Potrebbe apparire paradossale, ma è solo a partire dall’accettazione del ragazzo con cui si entra in relazione che si apre una possibilità per il suo cambiamento. È nel dialogo tra parti che avviene la trasformazione, ma solo se si è disposti a farsi trasformare. Lo studente “poco di buono” potrà aprirsi e cambiare se troverà un docente che lo farà sentire accettato così com’è; si chiuderà in se stesso e nelle sue convinzioni, invece, se si sentirà giudicato o punito per il suo modo di essere. “Nella mancata accettazione, nella disconferma, nel disprezzo più o meno velato nei confronti del modo di essere degli studenti (e delle loro famiglie) va con ogni probabilità cercata la ragione del diffuso insuccesso scolastico di studenti provenienti dai ceti meno abbienti” scrive Vigilante in Ecologia del potere.
Per queste ragioni la didattica inclusiva appare come grimaldello per destrutturare e ristrutturare la scuola. Fare spazio a tutti e a ciascuno, perché non ci sia più un “noi” e un “loro”. Smetterla di marchiare gli studenti “quello che disturba”, “quello che dorme”, e via dicendo. Verrà il giorno in cui gli adolescenti avranno davvero voce in capitolo nella costruzione del sapere e nella costruzione della comunità scolastica. Quel giorno, la loro vita tornerà ad appartenergli e saranno liberi oltre ogni potere.
Estratto da Alfabeto della scuola democratica, a cura di Christian Raimo, Laterza, 2024. L’autore e il curatore presenteranno il volume insieme ad Anna Fava presso lo Scugnizzo Liberato a Napoli venerdì 6 dicembre 2024 alle ore 18.