C on un mazzo di legnetti e una pistola di colla a caldo i bambini di Ponticelli hanno costruito una pista di biglie. La pallina si muove ovunque, a sinistra, a destra, sopra, sotto, attraverso. È una biglia libera di andare dove vuole, dicono, mentre loro per attraversare il quartiere devono procedere a zig zag, schivando incroci, strade, aiuole e isolati dove non sono graditi. Ponticelli, periferia est di Napoli, confina con San Giovanni e Barra: la città industriale, la culla della Cirio, la patria di Oreste Bordiga, un gomitolo di strade in altri tempi animate da operai, anarchici, socialisti, comunisti… poi la crisi, lo smantellamento delle fabbriche, la chiusura di cantieri storici come quello che realizzò il primo piroscafo nel Mediterraneo, primo anche ad attraversare l’Oceano Atlantico. Nel giro di una manciata di decenni i primati diventeranno altri: la camorra, il degrado, la delinquenza, la disoccupazione.
Ponticelli oggi è una periferia isolata, si raggiunge con la Circumvesuviana, un treno che circa ogni mezzora parte dalla stazione centrale, ci salgo un lunedì mattina qualsiasi, è quasi deserto. Scendo alla fermata Bartolo Romeo e imbocco via Curzio Malaparte, tra palazzacci piantonati da guardie giurate e palazzoni che chiamano lotti. Mi chiedo cosa oggi ne avrebbe scritto lui, Malaparte, della sua stessa strada. Qui negli anni Ottanta del secolo scorso il Comune costruisce un fabbricato di lamiera e cartongesso rosso e grigio, una scuola elementare in vista del boom demografico e della conseguente impennata delle iscrizioni, ma le previsioni sbagliano, la Napoli orientale si spopola, in molti lasciano i quartieri e la città, le nascite calano e l’edificio rosso e grigio ospiterà pochi studenti, negli anni sempre meno, fino ad essere frequentato da solo una quarantina di bambini.
Nel 2020 in Italia si è calcolata una dispersione esplicita del 13,1%, diversi punti percentuali in più rispetto alla media europea.
La scuola chiude, il tetto si sgretola in più punti, l’acqua filtra nelle aule, nel refettorio, nel bagno, nell’anfiteatro, le piante conquistano cortili e sentieri esterni. Nel 2019, dopo una dura battaglia, l’associazione Maestri di strada, attiva nelle scuole di Napoli est da quasi venti anni, ottiene la gestione dell’istituto, paga un affitto in cambio di un colabrodo, un colabrodo che diventa presto un luogo di aggregazione che durante la pandemia permette a centinaia di bambini e ragazzi di non perdere totalmente la bussola. La scuola cambia nome, d’ora in avanti si chiamerà Ciro Colonna, in memoria di un ragazzo del quartiere, vittima della camorra, ucciso a colpi di pistola a diciannove anni, solo perché si trovava nel luogo sbagliato al momento sbagliato. In una delle aule incontro Ornella, operatrice e capofila del laboratorio Co-costruire, sta preparando i banchi, le sedie e gli strumenti per quegli stessi bambini che nei mesi passati hanno costruito una pista di biglie. Con un pulmino, casa per casa, ogni settimana Ornella raccoglie i piccoli e li conduce nel laboratorio. Per quasi tutti è la loro unica attività pomeridiana, in un territorio in cui nelle scuole non esiste quasi mai il tempo pieno. Da quando è iniziata la pandemia Ornella ha intensificato i suoi laboratori, fuori e dentro le scuole, ha continuato a cercare i ragazzi in un continuo porta a porta, ha citofonato agli studenti che non vedeva più frequentare. Chiedeva loro di scendere, facevano una passeggiata, gli chiedeva come stavano, e spesso tanto bastava per farli rientrare in classe.
“Come stai?” È la prima domanda che Nicola chiede ai ragazzi del suo laboratorio di teatro. Si siedono in cerchio. “Ci sono novità?” Sembrano domande banali, eppure troppo spesso nelle classi scolastiche nessuno si premura di porle. Nicola conduce un laboratorio di teatro, con questi semplici punti interrogativi apre mondi e fiumi di parole. Lo incontro in un’altra delle tante aule della scuola di via Malaparte, attraversando lunghi corridoi in cantiere, al suo fianco una stufa a gas, alle sue spalle un piccolo palco in legno chiaro. Non c’è stato momento in cui il contatto con i suoi ragazzi è venuto a mancare, nel lockdown più duro insieme agli altri maestri di strada ha consegnato nelle case dei ragazzi i “pacchi educativi”, generi di sussistenza per la mente: penne, matite, pennarelli, acquarelli, tablet per chi ne aveva necessità. Nella stessa scuola dove stiamo seduti a parlare, sin dalle prime settimane di pandemia studenti e studentesse si sono incontrati per seguire la Dad, distanziati ma vicini, in un luogo sicuro e in un’atmosfera diversa da quella delle quattro mura di casa.
“Mi alzavo dal letto, mi vestivo e scendevo qui, invece a casa dormivo, anche quando il professore parlava, chiudevo la telecamera, mi mettevo a letto e dormivo.” F. frequenta un istituto alberghiero e ormai da anni conosce i maestri di strada, partecipa al laboratorio di teatro e i primi di marzo insieme ai suoi compagni ha portato in scena al piccolo Bellini di Napoli un’inconsueta versione di Romeo e Giulietta, due ragazzi di Ponticelli con gli ormoni impazziti e le endorfine in subbuglio. Dall’inizio di quest’anno scolastico in classe di F. già due studenti hanno abbandonato gli studi, otto in totale negli ultimi quattro anni. Lo chiamano abbandono scolastico, o dispersione, “ma dispersione è quando un rubinetto goccia, qui il rubinetto si è rotto del tutto!”. Cesare Moreno da anni frequenta le scuole, gestisce progetti di prevenzione, dialoga con gli operatori, parla con i ragazzi. La sua biblioteca di famiglia, migliaia di libri di ogni epoca e genere, oggi è esposta su scaffali di ferro lungo i corridoi della Ciro Colonna, la sua sala da pranzo è la stanza con i tavolini bassi e le piccole sedie che accoglie i ragazzi prima che inizino i laboratori. Mangia un panino al prosciutto e sorseggia un bicchiere di vino, tra un morso e l’altro si indigna. “Non ci sono dati chiari, il Ministero dell’istruzione non li può pubblicare, perché se dicesse la verità, se dicesse che un terzo dei ragazzi abbandona la scuola, dovrebbe ammettere che si tratta di un’impresa in fallimento”.
Alcuni dati in realtà ci sono, anche se ancora non tengono conto delle conseguenze del COVID. Marco Rossi Doria, già ministro dell’Istruzione, prevede che le prime cifre sulle assenze relative ai due anni di pandemia non saranno pronte prima della metà del 2023, mentre i dati relativi alla perdita delle competenze saranno disponibili solo tra due o tre tornate di prove Invalsi. Per ora si può ragionare sui dati empirici, ma comunque molto significativi. Le testimonianze di chi lavora con e per la scuola dipingono una duplice situazione: da un lato è evidente che la pandemia ha aumentato la forbice delle disuguaglianze e che sono ancora una volta gli studenti più fragili a farne le spese – quelli dei quartieri difficili, delle aree interne, con bisogni educativi speciali, gli ottocentomila ragazzi stranieri che hanno necessità di una mediazione linguistica o semplicemente gli studenti che frequentano un istituto con una dirigenza assente o incerta. Dall’altro lato c’è stata una massiccia attivazione di realtà che si sono mobilitate creando nuove alleanze, rendendo evidente che la scuola da sola non ce la può fare ma che ha bisogno di una comunità educante che dovrà essere sostenuta e finanziata dal decisore pubblico in maniera sempre più strutturale.
La fondazione Openpolis ha pubblicato una delle ricerche più aggiornate e accurate sul fenomeno della dispersione scolastica. Nel 2020 in Italia si è calcolata una dispersione esplicita del 13,1%, diversi punti percentuali in più rispetto alla media europea, con picchi che sfiorano il 20% in Campania e in Sicilia. Si tratta di dispersione esplicita, di quei ragazzi che a scuola non vanno proprio più, persone tra i 18 e i 24 anni che hanno rinunciato a un diploma, a questa si affianca il fenomeno della dispersione implicita: studenti che il diploma lo hanno conseguito, ma frequentando poco e male e senza raggiungere le competenze attese alla fine del ciclo scolastico; per misurare la dispersione implicita ci si basa soprattutto sulle prove Invalsi e il quadro che ne esce non solo non è roseo, ma sembra peggiorare nettamente nel tempo, aggravato dal deterioramento delle condizioni psicologiche degli studenti e delle studentesse che nei mesi della pandemia hanno consolidato una frattura già molto diffusa tra scuola e vita quotidiana.
L’associazione Laudes, attiva a Roma da quasi dieci anni, negli ultimi mesi ha registrato un’impennata di richieste di famiglie che chiedono sostegno perché i figli hanno deciso di non uscire più dalla loro stanza. La prima volta è stata una sorpresa, dice Michelangelo, poi quasi un’abitudine. Gli insegnanti della Laudes offrono il loro aiuto attraverso un pc o parlando di fronte a una porta chiusa, il loro ruolo, con i ragazzi chiusi nelle stanze e con tutti gli altri che si rivolgono all’associazione, è quello di sostenerli nel loro percorso di crescita, facilitarli nella relazione con la scuola, affiancarli nei compiti quotidiani. Come i maestri di strada, anche gli insegnanti di Laudes nei mesi del COVID hanno rafforzato il loro lavoro e le loro sedi: in due diverse periferie di Roma, sono diventati un presidio sicuro e una luce nella nebbia per le tante e i tanti studenti che rischiavano di perdersi tra continue chiusure e aperture, regole confuse, obiettivi incerti.
Non è solo il centro e sud Italia a dovere fare i conti con il fenomeno della dispersione e dell’abbandono scolastico. Prima della pandemia la Regione Emilia Romagna aveva raccolto un dato allarmante: uno studente maschio straniero con reddito basso su due non arrivava all’ultimo anno delle superiori. Nei mesi successivi all’inizio della pandemia si è affermata una dispersione diversa, da ritiro sociale, anche i ragazzi più insospettabili, provenienti da famiglie che credono nella scuola, smettono di fare sport, di uscire con gli amici, e chiudono il loro orizzonte. Laura Belvedere, pedagogista, lavora in un centro di formazione professionale di Bologna, da dieci anni si occupa di dispersione scolastica e orientamento. Ogni giorno entra nelle scuole secondarie di Bologna e provincia per incontrare gli studenti, parlare con loro, prevenire l’abbandono scolastico. “Negli anni il Comune ha aumentato le risorse contro la dispersione scolastica. Adesso sono le scuole che segnalano le situazioni di abbandono, di dispersione e di ri-orientamento”. Chi fa un certo numero di assenze viene segnalato al servizio educativo del Comune, che prevede percorsi per riappropriarsi della vita scolastica, laboratori individualizzati, colloqui, attività parallele, li definiscono servizi di riaggancio scolastico. “Prima della pandemia mi chiamavano per lavorare con i ragazzi che andavano male a scuola, ma che comunque ci andavano, oggi mi chiamano perché gli studenti sono sopraffatti dall’ansia, non vogliono frequentare più, e a questo punto la questione dell’orientamento è secondaria, è difficile lavorare su cosa vogliono fare, perché se si sta male non si ha voglia di fare niente. In questi casi è necessario in primis un lavoro di presa di coscienza di sé”.
Nonostante l’obbligo scolastico sia fino ai sedici anni, chi decide di non frequentare più la scuola lo può fare senza particolari conseguenze immediate, formalmente dovrebbe partire una segnalazione ai servizi educativi e sociali, però non esiste nessuna sanzione per le famiglie. Anche Laura Belvedere mi conferma che non è facile reperire i macro-dati sul tema della dispersione e orientarsi tra le cifre. “Guardando ai dati nazionali, l’Emilia Romagna fa sempre un figurone, in realtà la percezione, da dentro, è che ci sia un aumento di dispersi”. Banalmente: se i fenomeni non si osservano in modo analitico e i dati non si raccolgono in base a criteri precisi, è difficile fotografare la situazione. Probabilmente nei prossimi mesi le cose cambieranno per Bologna: da circa un anno il Comune ha creato un protocollo a cui partecipano tutte le scuole, un documento che detta indicazioni molto precise su come segnalare la dispersione, e già ora la situazione appare molto più chiara. “Stanno arrivando moltissime segnalazioni da scuole che prima sembravano virtuose. Per l’aggancio scolastico negli anni scorsi avevamo circa sessanta segnalazioni l’anno, quest’anno in due settimane ne abbiamo avute 101!”.
“Siamo in meno a scendere in piazza rispetto al ’68 perché siamo in meno in assoluto, ma la nostra voce è tornata a farsi sentire forte e chiara”, mi spiega al telefono Tommaso Biancuzzi. Tommaso è il portavoce della Rete degli studenti medi, sindacato dei ragazzi delle scuole secondarie di secondo grado che oggi conta oltre diecimila iscritti. Negli ultimi due anni il sindacato ha ampliato le fila, aperto nuove sezioni in molte città, coinvolto studenti di seconda, terza, quarta generazione. La legge sull’alternanza scuola-lavoro, l’esame di maturità, le riforme sperate o inattese, i temi che i ragazzi stanno portando in piazza sono tanti e diversi. La pandemia sembra avere esaltato la funzione sociale della scuola e il suo fondamentale ruolo trasformativo, ma allo stesso tempo ha anche amplificato le distanze, portando in piazza sempre più liceali e sempre meno studenti degli istituti professionali, lasciando fuori le aree interne e i quartieri difficili, isolando i disabili e gli stranieri.
La pandemia sembra avere esplicitato la funzione sociale della scuola, ma allo stesso tempo ha anche amplificato le distanze, portando in piazza sempre più liceali e sempre meno studenti degli istituti professionali, lasciando fuori i quartieri difficili, isolando i disabili e gli stranieri.
“C’è stato un divorzio”, mi dice Cesare Moreno dopo più di un’ora di racconti e parole, “una separazione netta tra adulti e ragazzi, gli studenti non contano più nella scuola perché non credono nelle persone che la alimentano, non hanno stima nei professori: la prima cosa che dobbiamo fare, per ricucire questa ferita gigante, è darle un nome, individuarla, rendersene conto, per poi capire insieme come suturarla. Il COVID”, dice guardandomi serio negli occhi, “ci ha insegnato una cosa tra tutte: che Leopardi aveva ragione, che quel grande poeta non era un pessimista, ma era anzi un amante della vita che ha detto in versi a tutto il mondo che l’unica ricetta di fronte alla potenza della natura è la solidarietà, abbracciarci e vivere insieme felici ogni singolo momento.” La prima cosa da fare oggi, allora, nelle aule di scuola, è leggere insieme La ginestra, e godere del suo respiro vitale.