A ll’indomani degli attentati in Francia del 13 novembre del 2015, quelli del massacro del Bataclan e dell’attacco allo Stade de France, il presidente francese Francois Hollande in un discorso al parlamento ha annunciato la volontà di togliere la cittadinanza francese a chi viene condannato per terrorismo. “Sono stati dei francesi ad aver ucciso altri francesi”, e anche per questa ragione, ha spiegato Hollande, sono necessarie misure straordinarie. “Non possiamo rendere gli individui apatridi – ha aggiunto il presidente a Versailles davanti ai parlamentari riuniti in seduta comune – ma dobbiamo poter fare in modo che una persona condannata per atti di terrorismo, anche se è nata in Francia, se ha un’altra nazionalità possa perdere quella francese”.
Una “misura simbolica”, come l’ha definita l’ex primo ministro Manuel Valls, che puntava a modificare l’articolo 2 della Costituzione francese, quello che regola la cittadinanza, alla quale però il governo è stato costretto a rinunciare. Nel marzo del 2016 il presidente Hollande, dopo mesi di accese polemiche e le dimissioni del ministro della Giustizia Christiane Taubira, ha deciso di abbandonare il progetto di riforma costituzionale perché un compromesso appariva “irraggiungibile”. Secondo gli oppositori la norma avrebbe introdotto due tipi di cittadini con diversi diritti.
Diritti di cui si è ricominciato a discutere anche in Italia, dove da qualche settimana sono stati accesi i riflettori sulla riforma della cittadinanza, ferma in commissione Affari Costituzionali del Senato da più di 15 mesi. Nel nostro Paese la norma si fonda su lo ius sanguinis, il diritto di sangue, e non prevede lo ius soli, il diritto che si acquisisce per nascita sul suolo italiano indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. Un requisito che in Francia, ad esempio, è accettato sin dal lontano 1515, seppur nel corso del tempo si sia attenuato progressivamente.
L’accesso alla cittadinanza agli stranieri nati in Italia o a coloro che ci arrivano in giovane età è da sempre terreno di scontro sotto molteplici punti di vista e uno di questi ha a che fare proprio con il terrorismo. In molti, infatti, sostengono che tra i punti di forza del nostro sistema di prevenzione ci sia la possibilità di espellere velocemente i sospettati. Strategia che non è attuabile in paesi come la Francia dove i possibili attentatori, ne sono una dimostrazione gli ultimi episodi, sono spesso cittadini francesi di seconda o terza generazione. Ma cosa prevede nello specifico il disegno di legge 2092?
L’accesso alla cittadinanza agli stranieri nati in Italia o a chi arriva in giovane età è da sempre terreno di scontro sotto molteplici punti di vista: uno di questi ha a che fare con il terrorismo.
In Italia la cittadinanza viene disciplinata dalla legge numero 91 del 5 febbraio 1992 e l’obiettivo della riforma ferma in Senato è quello di introdurre due nuovi canali per diventare cittadini italiani. Il primo, definito ius soli temperato, consente ai genitori di un nato in Italia, di cui almeno uno è in possesso del permesso di soggiorno europeo per soggiornanti di lungo periodo, di chiedere che il bambino acquisisca direttamente la cittadinanza. Il secondo, invece, prevede che si possa fare domanda per i minori che non sono nati in Italia (arrivati però entro il dodicesimo anno di età) ma che hanno concluso almeno un ciclo scolastico nel nostro Paese. Motivo per il quale viene definito ius culturae.
Il disegno di legge è stato approvato alla Camera il 13 ottobre 2015 con 301 voti favorevoli, provenienti dalle fila di Pd, Scelta Civica, Ncd e Sel, mentre Lega Nord e Forza Italia si sono espresse contro e il Movimento Cinque Stelle si è astenuto. Da allora il provvedimento è fermo in commissione Affari Costituzionali al Senato, dove la Lega ha presentato oltre 7.000 emendamenti. Qualche settimana fa, però, il presidente del Partito democratico, Matteo Orfini, ha dichiarato che ci sono delle priorità che il governo deve portare avanti e che se necessario si può pensare ad aiutare l’approvazione dello ius soli con la fiducia.
La dichiarazione di Orfini ha riacceso subito la polemica politica intorno alla questione, causando una vera e propria alzata di scudi. Il senatore di Forza Italia e membro della commissione Affari Costituzionali Lucio Malan spiega a il Tascabile che porre la fiducia su un tema così importante sarebbe estremamente grave perché “la Costituzione prevede che la sovranità appartenga al popolo e decidere chi può ottenere la cittadinanza fa parte delle regole del gioco di cui è necessario discutere”. Una discussione che è stata finora impedita dall’ostruzionismo messo in atto dalla Lega con i 7.000 emendamenti presentati in commissione, anche se, secondo il senatore, “in tutto questo tempo di quelle modifiche non ne è stata esaminata nemmeno una, tutti gli emendamenti giacciono inevasi, ed è stata una scelta premeditata del Pd perché sanno che più si discute del provvedimento e più gli italiani si indignano”.
Secondo il senatore, l’approvazione del disegno di legge, che consentirebbe una “cittadinanza facile”, provocherebbe un ulteriore incentivo all’immigrazione, già a livelli record, aumentando il peso sul sistema sanitario e sulla previdenza. “Senza bisogno di ius soli, già nel 2015 ben 158.000 stranieri hanno acquisito la cittadinanza italiana, un numero ragguardevole che rende l’idea di quanto non sia assolutamente necessaria una maggiore apertura, soprattutto in un momento in cui tra gli italiani cresce il timore legato a disoccupazione e terrorismo”. Proprio la sicurezza nazionale, per Malan, sarebbe uno degli aspetti che risentirebbe di più della approvazione di questa norma: “Oggi se c’è uno straniero sospettato può essere espulso, senza troppe difficoltà, mentre è ovvio che se diventa cittadino italiano non si può attuare il provvedimento e te lo devi tenere finché non muore. Rischiamo – spiega il senatore – di andare incontro ai problemi che adesso hanno in Francia e Germania”.
Lo scorso 27 febbraio, durante la presentazione a Palazzo Chigi della Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza, il capo dell’intelligence, il prefetto Alessandro Pansa, ha confermato come i principali profili di criticità in Italia continuino a provenire dalla possibile attivazione di elementi auto-radicalizzati. E che, allo stesso tempo, non esistono indicazioni che facciano pensare a una connessione tra i flussi migratori e la strategia jihadista per infiltrare combattenti in Europa. Elementi che confermano come gli aspiranti terroristi decidano di diventare tali quando sono già arrivati nel Vecchio Continente o addirittura quando ci sono nati e cresciuti.
“Il terrorismo si combatte anche, se non soprattutto, con un’integrazione effettiva che non può non passare attraverso la concessione della cittadinanza.” Ne è convinto Filippo Miraglia, vice presidente dell’Arci e portavoce della campagna “L’Italia sono anch’io”, l’iniziativa che ha permesso di raccogliere oltre 200.000 firme per una legge di iniziativa popolare, da cui è nato l’attuale ddl 2092. “Sul disegno che è fermo al Senato – spiega Miraglia a il Tascabile – abbiamo espresso un parere articolato perché non è il nostro testo, e non ci piace nemmeno particolarmente perché interviene solo sui minori escludendo gli adulti, ma rappresenta sicuramente un passo avanti indispensabile”. Secondo il vice presidente dell’Arci si tratta, infatti, di “fare giustizia” e di garantire un “diritto sacrosanto” a centinaia di migliaia di bambini e di famiglie che hanno tutta l’intenzione di essere italiani, e che di fatto già lo sono.
Il capo dell’intelligence ha confermato che non esistono indicazioni che facciano pensare a una connessione tra i flussi migratori e la strategia jihadista per infiltrare combattenti in Europa.
“Abbiamo stimato – spiega Miraglia – che ogni anno nascono in Italia circa 70.000 bambini e bambine figlie di genitori non italiani”. Minori che, una volta raggiunta la maggiore età, rischiano “di non vedersi riconosciuta la cittadinanza e addirittura di essere espulsi se non ottengono un regolare permesso di soggiorno. Con la legge attuale –aggiunge Miraglia – ragazzi che non sono mai stati nel paese di origine dei genitori e che parlano solo italiano corrono il pericolo di essere rimandati in uno stato che non è il loro”. Per questa ragione, secondo il vice presidente dell’Arci è importante che lo Stato mandi un segnale forte a questi giovani, invitandoli a investire il loro futuro e le loro competenze nel Paese che li ha cresciuti. Sebbene la stragrande maggioranza di questi ragazzi non abbia nulla a che fare con il terrorismo, è innegabile infatti che “scavare un fossato con le nuove generazioni di origine straniera, invece di stringerci legami, sia molto rischioso. Se questi giovani sentono l’Italia come casa propria – aggiunge Miraglia – è più facile che maturino gli anticorpi per non lasciarsi attrarre da eventuali sollecitazioni negative.”
Solo nei primi due mesi del 2017, in Italia, sono state eseguite 15 espulsioni con accompagnamento alla frontiera di soggetti gravitanti in ambienti dell’estremismo religioso. Le ultime, ha fatto sapere il Viminale lo scorso 25 febbraio, hanno interessato due tunisini, uno dei quali figurava tra i contatti dell’attentatore di Berlino, Anis Amri. In totale, dal gennaio 2015, “per motivi di sicurezza dello Stato” è stato adottato questo provvedimento nei confronti di 147 persone. Una misura che non sembra convincere Miraglia: “Quello delle espulsioni preventive è un argomento che ritengo fastidioso. Se un soggetto è ritenuto sufficientemente pericoloso da essere un potenziale terrorista bisognerebbe rinchiuderlo in carcere, non espellerlo.” Soprattutto perché, secondo il vice presidente dell’Arci, le indagini alle volte possono essere depistate. “Può accadere che all’interno di una moschea ci siano delle antipatie e che alla questura arrivino delle segnalazioni ‘interessate’ che portano all’espulsione di soggetti che magari vivono in Italia da vent’anni e all’improvviso sono costretti a lasciare lavoro e famiglia. Troppo spesso l’espulsione viene considerata la soluzione ‘più comoda’”.
Non sempre, però, è possibile tenere sotto controllo un numero elevato di sospettati o ci sono elementi sufficienti per una condanna. “In Francia ad esempio – spiega a il Tascabile Stefano Dambruoso, questore della Camera dei Deputati ed esponente del gruppo parlamentare Civici e Innovatori – ci sono almeno 300-400 soggetti, perlopiù di origine maghrebina, che sono considerati pericolosi ma non arrestabili per mancanza di indizi gravi.” Essendo cittadini francesi non possono essere espulsi e quindi vengono tenuti sotto controllo, ma quando il numero dei sospettati è così ingente “è impossibile monitorarli tutti 24 ore su 24”. Per Dambruoso, inserito nel 2003 dal settimanale Time nella lista degli “eroi moderni” per il suo impegno da magistrato nelle indagini sulla rete di Al-qaida, questa tipologia di problemi che stanno incontrando paesi come Francia e Germania, nel giro di due decenni diventerà concreta anche in Italia: «I flussi migratori continueranno a crescere, incrementando le comunità arabe e musulmane sul nostro territorio, alle quali prima o poi verrà concessa la cittadinanza. È un percorso irreversibile, un fatto storico».
Per questa ragione, secondo il deputato, che alla Camera ha espresso parere favorevole alla modifica della legge sulla cittadinanza, accanto alle attività di indagine è necessario concentrarsi sull’aspetto preventivo. «Il decreto anti-terrorismo approvato nel 2015 ha messo a disposizione delle forze dell’ordine e dell’intelligence tutte le misure necessarie per la repressione del fenomeno jihadista, e i risultati si vedono. Ora però è necessario affiancare provvedimenti che sappiano prevenire la radicalizzazione di questi soggetti». Per riuscirci Dambruoso ha presentato una proposta di legge (in corso di approvazione alla Camera dei Deputati) insieme al deputato del Pd Andrea Manciulli che punta all’istituzione di programmi che mirino a combattere ogni tipo di indottrinamento, anche sul web. «La norma – spiega Dambruoso – prevede investimenti nelle scuole e novità per le carceri, dove il rischio di radicalizzazione è elevato, e ha l’obiettivo di instaurare un dialogo interculturale e interreligioso efficace che possa promuovere l’inclusione sociale di queste comunità». E chissà che questo dialogo non cominci proprio dalla concessione di un diritto.