Bozen /Bolzano/Bulsan, 22 giugno 2019
S ono arrivato in città da qualche giorno. “steirischer herbst”, un festival di arti visive e performative che ha luogo ogni anno a Graz, mi ha chiesto di iniziare una ricerca sul confine fra Italia e Austria. Ho deciso di lavorare sulle “opzioni”, un tema che conosco pochissimo, e che ha a che fare con il Südtirol, un territorio a maggioranza germanofona che cento anni fa venne separato dal Tirolo austriaco e annesso al Regno d’Italia, in seguito al trattato postbellico di Saint-Germain.
Conosco pochissimo questa provincia autonoma che in italiano viene chiamata Alto Adige (una discrepanza terminologica che svela due prospettive geografiche opposte). Tuttavia, più studio la vicenda delle opzioni, più mi rendo conto che la mia posizione non è neutra. Sono nato e cresciuto in Italia (in una piccola città delle Marche) e, anche senza volerlo, la mia madrelingua mi situa da una delle due “parti”. Inoltre, nonostante l’abbia studiato al liceo, parlo malissimo il tedesco. Sento che chiunque potrebbe all’improvviso pormi la domanda: “Chi sei, tu, per parlare di queste cose?”
Secondo l’accordo che Hitler e Mussolini stipularono nel 1939, gli abitanti di lingua tedesca e ladina dell’Alto Adige dovevano scegliere se restare e “italianizzarsi” o trasferirsi nei territori del Reich (dove, in teoria, avrebbero ricevuto beni e immobili equivalenti alle loro proprietà). In breve: a un’intera comunità fu chiesto di scegliere cosa abbandonare per sempre: casa e terra, oppure lingua e cultura. Nazismo o fascismo: queste erano le due “opzioni”. Nell’edizione 1948 dell’Enciclopedia Treccani trovo una breve menzione sulle opzioni:
Hitler sottoscrisse nel novembre 1938 degli accordi culturali italo-germanici, a dimostrazione del suo desiderio di intesa con l’Italia. Però li completava poco dopo con gli accordi del 23 giugno 1939, circa il trasferimento degli allogeni entro i confini del Reich, sulla base di richieste liberamente e singolarmente espresse da parte degli interessati. Per l’esame di queste domande e delle questioni connesse si istituirono pertanto a Bolzano due alti commissariati, uno italiano ed uno germanico: questo ultimo coadiuvato specialmente da optanti della zona, che svolsero un’intensa propaganda per le opzioni in favore della Germania, le quali diedero un risultato imponente. Infatti, su una popolazione presente di 253.953 ab., esclusi i 42.936 appartenenti al gruppo etnico italiano, 179.503 optarono per la Germania; 31.514 per l’Italia. Entro il termine massimo fissato per lo sgombero (31 dicembre 1942) però, soltanto 72.749 s’erano trasferiti in Germania.
Questo trafiletto d’epoca non rende giustizia al lungo e pesantissimo strascico che la vicenda delle opzioni ha lasciato in questi luoghi. Una delle prime persone che incontro a Bolzano è Ina Tartler, drammaturga di Vereinigte Bühnen Bozen, la compagnia teatrale che nel 2014 ha messo in scena Option. Letzte Spuren der Erinnerung (“Opzione. Ultime tracce di memoria”, ripreso poi quest’anno). Per preparare lo spettacolo, la compagnia ha effettuato oltre sessanta interviste con gli ultimi fra coloro che hanno vissuto in prima persona le opzioni. Una parte di questi testimoni raccontava, sul palco, la propria esperienza: alcuni erano “Optanten” (coloro che hanno “optato” per partire) e altri “Dableiber” (coloro che preferivano restare).
Ina mi racconta poi di un altro spettacolo di “teatro documentario” che Vereinigte Bühnen ha presentato nel 2016, come proseguimento di Option. Si chiamava Bombenjahre, e vedeva in scena diversi protagonisti degli “anni delle bombe” – dalla metà degli anni Cinquanta alla fine dei Sessanta –, caratterizzati dagli attentati operati dal BAS, un’organizzazione secessionista che aspirava all’autodeterminazione del Sudtirolo.
Hannes Obermair, uno storico, mi dà appuntamento in un bar proprio di fronte al controverso Monumento alla Vittoria, l’arco marmoreo che Mussolini fece costruire per celebrare la vittoria italiana sull’Austria-Ungheria nella prima guerra mondiale (e, più in generale, per segnalare la presenza del regime fascista in Alto Adige). Progettato da Marcello Piacentini e costruito tra il 1926 ed il 1928, il monumento reca sulla facciata principale la scritta: “HIC PATRIAE FINES SISTE SIGNA / HINC CETEROS EXCOLVIMVS LINGVA LEGIBVS ARTIBVS” (Qui abbiamo posto il confine della patria. Da qui educammo gli altri con la lingua, le leggi e le arti).
Secondo Obermair, manca una rielaborazione collettiva sul tema delle opzioni, ancora sepolto in una memoria privata generazionale. “Considero questo territorio un laboratorio, un caso studio”, mi dice. “La mia esperienza come storico medievista mi ha aiutato a vedere come la zona alpina che comprende il Sudtirolo sia sempre stata di passaggio, commistione, ibridazione di diversi modelli culturali. Questo mi ha aiutato a superare l’aspetto emotivo e di rivendicazione, ad andare oltre l’asimmetria, la tendenza ad assegnare torto e ragione.”
Un elemento che mi ha colpito nella storia delle opzioni è come, in Alto Adige, la differenza fra fascismo e nazismo sia estremamente marcata. Il fascismo, infatti, era sinonimo di italianizzazione, mentre il nazismo era da molti visto come un’opportunità per mantenere il legame con il mondo germanofono. Per questo i Dableiber venivano spesso accusati dagli Optanten di essere traditori della Heimat. “In realtà, le opzioni sono una prova lampante della fortissima collaborazione fra Mussolini e Hitler”, commenta Obermair. “Si misero d’accordo: ‘Tu mi garantisci il confine del Brennero e io ti restituisco la popolazione.’ È vero però che in questo territorio la differenza fra fascismo e nazionalsocialismo viene vissuta come una polarizzazione fra il gruppo etnico italiano e quello tedesco. Ma questi schemi di appartenenza non sono mai totali. Non tutti gli italiani che hanno migrato qui negli anni Trenta erano fascisti, così come non tutti gli optanti erano nazisti. Semplicemente, all’epoca non c’erano altre opzioni.”
Ma le estreme destre di lingua tedesca e italiana sono tuttora contrapposte, qui? “È straordinario”, mi risponde Obermair. “Usano gli stessi linguaggi, eppure sono contrapposte. Questo è classico della questione sudtirolese: i gruppi di estrema destra non riescono a convergere, in quanto si scontrano sulla difesa del proprio gruppo etnico. Se non fosse per quello, sarebbero della stessa pasta.”
Prima di venire qui a Bolzano ho passato sei mesi a Innsbruck. In quanto capoluogo del Tirolo, fu una città di riferimento per tutti gli Optanten. Ho spesso consultato gli archivi della città, dove ho trovato una serie di immagini relative a una tradizione tirolese, gli Herz-Jesu Feuer. Si tratta di grandi falò che vengono accesi sui versanti delle montagne, in modo da formare scritte o figure visibili da lontano. Ho trovato la fotografia di una montagna sopra Innsbruck, con una serie di falò a comporre la scritta “BIS SALURN” (fino a Salorno). Si tratta di una rivendicazione riferita al limite meridionale del Südtirol, la città di Salorno, prima del confine col Trentino.
Ho trovato anche un poster di propaganda. Mostra un fascio littorio che taglia a metà il Tirolo.
Nel suo ufficio all’Università di Innsbruck, ho incontrato la storica sudtirolese Eva Pfanzelter. Mi ha fatto notare che il 2019 non segna solo i cento anni dell’Alto Adige in Italia, ma anche l’ottantesimo anniversario dell’accordo sulle opzioni fra Hitler e Mussolini. “Ci sono due traumi nella storia del Sudtirolo”, mi ha poi detto. “Il primo è l’imposizione della frontiera al Brennero dopo la prima guerra mondiale, quindi la separazione dal mondo germanofono. Il secondo, molto più pesante, è quello delle opzioni. Dopo l’annessione all’Italia, i sudtirolesi di lingua tedesca si erano riuniti in un popolo, e le opzioni distrussero questa unità.”
Ho chiesto a Pfanzelter se anche i “Bombenjahre” sono stati un trauma per la popolazione locale. “I Bombenjahre non sono stati tempi belli per il Südtirol, o per l’Italia in generale. Era un periodo in cui tutto poteva succedere. Ci si deve sempre chiedere perché mai il Südtirol non sia diventato un territorio terroristico come l’Irlanda del Nord. Però, l’idea di usare le bombe per far valere i propri diritti era appoggiata solo da una parte del popolo germanofono. Poi, dagli anni Sessanta l’economia migliora, ci sono più posti di lavoro. Nel 1972 viene ratificata l’autonomia, e in generale la gente si riappacifica.”
Ho infine chiesto a Pfanzelter cosa costituisce, oggi, l’identità sudtirolese. “Ci sono tante cose che costituiscono un’identità”, mi risponde. “La lingua, la cultura, l’educazione… Quando chiedo ai miei studenti sudtirolesi di definire la loro identità, finiscono sempre per riferirsi all’Italia: si definiscono come ‘non italiani’. In effetti, possiamo dire che l’identità si definisce molto più facilmente rispetto all’altro: è difficile dire cosa significa essere sudtirolese; molto più facile è dire cosa non si è. In questo senso potrebbe rivelarsi molto produttivo ciò che sta accadendo oggi con i migranti. In Sudtirolo, come nel resto d’Italia, la situazione sta diventando più complessa: tutto viene rimescolato, e ormai non ci sono più soltanto due possibili appartenenze identitarie.”
Bozen/Bolzano/Bulsan, 25 luglio 2019
Sono a Bolzano da più di un mese. Erica, una mia amica dai tempi dell’università, mi lascia usare una stanza nel suo appartamento. L’edificio è sul pendio di una collina, in un quartiere che si chiama Haslach/Aslago. Mi hanno detto che fu costruito per i cosiddetti “Rücksiedler”, ovvero gli Optanten che avevano deciso di tornare in Südtirol dopo la guerra.
Ogni giorno vado in centro in bicicletta. Passo lungo il fiume, osservo la gente che si incontra per parlare, fare sport, bere birra. Nei primi giorni cercavo di indovinare chi fossero i germanofoni e chi gli italianofoni. Poi mi sono accorto che molti parlano altre lingue: africane, est-europee, asiatiche… Molti dei giovani che incontro non fanno troppa distinzione fra i due “gruppi linguistici”. C’è un ragazzo curdo, ad esempio, che è arrivato a Bolzano da piccolo con la sua famiglia, e in seguito ha imparato sia l’italiano che il tedesco. C’è un ragazzo di famiglia senegalese, che parla benissimo l’italiano ma frequenta le scuole tedesche (in Alto Adige non esistono scuole interamente bilingui).
E poi, ovviamente, ci sono le “coppie miste”, composte cioè da persone di madrelingue diverse. È una sorta di topos letterario, visto che ricorre in diversi romanzi ambientati in Südtirol, come L’”italiana” (“Die Walsche”, 1982), dello scrittore sudtirolese Joseph Zoderer, o Eva dorme (2010), della scrittrice italiana Francesca Melandri.
Incontro la curatrice Lisa Mazza. Sua madre viene da una classica famiglia sudtirolese di madrelingua tedesca. Suo padre è nato in Calabria, cresciuto in Campania ed è poi emigrato in Alto Adige, dove ha fondato la scuola di lingue Alpha Beta e la casa editrice bilingue Edizioni Alpha Beta Verlag. Lisa mi racconta che il rapporto fra suo padre e suo nonno “tedesco” è sempre rimasto piuttosto freddo, per via del risentimento verso gli italiani radicato nella comunità germanofona.
La figlia di Lisa frequenta una scuola in lingua tedesca, in cui circa un terzo degli alunni vengono da famiglie “tedesche”, un terzo da famiglie “italiane”, e un terzo da famiglie migranti di prima o seconda generazione. Lisa mi spiega che molti dei migranti che negli ultimi anni sono arrivati in Alto Adige volevano, in realtà, procedere verso il nord attraversando l’Austria, ma sono stati fermati alla frontiera del Brennero. Prima di salutarci, Lisa mi dice che il Südtirol è attraversato dalla cosiddetta “linea insubrica”, una faglia geologica che divide la gigantesca placca eurasiatica dalla piccola placca adriatica (che si staccò dalla placca tettonica africana nel periodo Cretaceo). In altre parole, questa provincia comprende una geosutura, causata dalla collisione in atto tra la placca tettonica europea e quella africana.
Chi, come me, arriva in questa provincia senza saperne molto, può sorprendersi delle forti distinzioni fra i “gruppi linguistici”. Eppure, tali distinzioni sono insite nella politica di autonomia dell’Alto Adige. Esiste, qui, uno strumento amministrativo che in tedesco ha un nome lunghissimo: Sprachgruppenzugehörigkeitserklärung. Vuol dire, letteralmente, “dichiarazione di appartenenza al gruppo linguistico”. Ogni residente nella provincia, per poter lavorare nel pubblico impiego o, ad esempio, accedere all’edilizia agevolata, deve firmare una dichiarazione di appartenenza a uno dei tre gruppi: tedesco, italiano o ladino. È una dichiarazione libera, che non dipende cioè da esami linguistici o discendenza familiare. E, ovviamente, è costante motivo di dubbi per i figli di famiglie miste, o per persone di altre madrelingue.
Questa dichiarazione è funzionale anche alla cosiddetta “ethnische Proporz”: una normativa legale che si applica in Südtirol nella ripartizione di impieghi pubblici e nella composizione di organi ed enti pubblici locali. La “proporzionale etnica” regola inoltre la distribuzione di fondi provinciali ai tre gruppi linguistici legalmente riconosciuti, la cui entità è determinata dalla loro rispettiva forza numerica, censita ogni dieci anni. Nel 2011, il 69,41% degli abitanti apparteneva al gruppo linguistico tedesco, il 26,06% al gruppo italiano e il 4,53% al gruppo ladino.
L’uso della parola “etnico” mi ha sorpreso, visto che sembra implicare una distinzione non solamente linguistica. Nel 1981 Sebastiano Vassalli pubblicò con Einaudi Sangue e suolo. Viaggio fra gli italiani trasparenti, un libro-reportage sul Sudtirolo in cui denunciava la politica di divisione fra i gruppi linguistici operata in quegli anni dalla SVP (Südtiroler Volkspartei), il partito germanofono da sempre a capo della giunta provinciale. Il libro attacca duramente l’uso della parola “etnia” in Alto Adige:
I vantaggi della nuova parola vengono dal fatto che è pulita, non essendo implicata in genocidi o in altre atrocità del passato; che partecipa, un po’ alla lontana, della dignità dei gerghi scientifici; che si usa solamente per l’uomo e non per cani o polli. Ma, gratta gratta, la sostanza è la stessa della parola maledetta (razza); o quanto meno è lo stesso l’uso che si può fare dell’etnia come della razza per contrapporre e dividere, per creare gerarchie e rivendicare privilegi, per alzare fili spinati e selezionare le specie…
Quando pedalo al lato del fiume, passo sempre davanti al moderno edificio dell’EURAC, un centro europeo per la ricerca applicata e la formazione scientifica. Lì incontro lo storico tedesco/irlandese Georg Grote. “Quando studi il Südtirol”, mi dice, “puoi osservare l’intero spettro della storia europea in un piccolo territorio: dal nazionalismo storico al regionalismo moderno; dallo stato-nazione all’UE, dall’auto-organizzazione delle minoranze alla formazione di identità collettive”. Poi Grote mi dà un suggerimento: “Prova a confrontare le copertine dei due giornali locali, Dolomiten e Alto Adige. È come se vivessi in due paesi diversi. L’Alto Adige guarda a sud, verso l’Italia; il Dolomiten a nord, verso il mondo di lingua tedesca.” Nei giorni seguenti inizio a fotografare l’edicola davanti casa. È vero: le copertine parlano sempre di cose diverse. Scopro però che Athesia, la storica casa editrice del Dolomiten, ha recentemente acquistato l’Alto Adige.
Quando parlo della mia ricerca, quasi tutti mi suggeriscono di incontrare Leopold Steurer, grande esperto di opzioni e di storia altoatesina in generale. Il suo primo libro è uscito nel 1980: Südtirol zwischen Rom und Berlin 1919-1939 (Monaco di Baviera: Europa Verlag). Il Prof. Steurer accetta di vedermi; ci sediamo sul balcone della sua casa a Merano. Mi racconta di come, all’inizio degli anni Ottanta, la ricerca storica sulle opzioni non fosse ben vista da una parte della popolazione locale, che non voleva “rivangare”.
Steurer ha collaborato con l’alpinista sudtirolese Reinhold Messner, con cui nel 1989 ha curato il volume Die Option. 1939 stimmten 86% der Südtiroler für das Aufgeben ihrer Heimat. Warum? (“L’opzione. Nel 1939, l’86% dei sudtirolesi votò per abbandonare la propria Heimat. Perché?”). Il libro nacque dalla controversia causata da una dichiarazione televisiva di Messner, che nel 1981 denunciò l’abuso del concetto di Heimat “da parte di un popolo che, come nessun altro, ha anche tradito la propria Heimat, quando nel 1939 a stragrande maggioranza ha optato per la Germania, disponendosi a lasciare la propria terra”.
Steurer mi mostra un documento che ha scovato a Berlino. Si tratta di un volantino pieghevole uscito nel luglio del 1939. È piegato in modo che, da fuori, sembri un depliant turistico per promuovere le bellezze delle Dolomiti.
All’interno, il pieghevole nasconde un testo contro le opzioni, intitolato Deutsche! Hitler verkauft euch! (“Tedeschi” Hitler vi sta vendendo!”). È una chiamata alla resistenza contro il regime nazista, firmata dallo scrittore Heinrich Mann (autore de L’angelo azzurro, nonché fratello maggiore di Thomas), che la scrisse dal suo esilio in Provenza.
Bozen/Bolzano/Bulsan, 20 agosto 2019
Questi sono i miei ultimi giorni in Sudtirolo. Vado a San Martin de Tor, in Val Badia, dove i segnali stradali sono scritti in tre lingue. Incontro lo scrittore, giornalista e cantautore ladino Iaco Rigo, caporedattore di La Usc di Ladins (“La voce dei ladini”), il principale giornale in lingua ladina. Nonostante il fatto che in Alto Adige si parli sempre della distinzione fra italianofoni e germanofoni, il linguaggio più antico parlato in queste aree è il ladino, il cui “gruppo linguistico”, oggi, ammonta a più del 4% della popolazione. Rigo mi spiega che il ladino è una lingua romanza, parlata principalmente in quattro valli dolomitiche. Due di esse sono in Südtirol: la Val Gardena e la Val Badia.
Quando confido a Rigo che questa provincia mi sembra ancora difficile da comprendere, lui sorride e mi dice che anche all’interno della sola comunità ladina ci sono divisioni. Mentre la Val Badia è, storicamente, più legata al mondo italiano, la Val Gardena è più vicina a quello tedesco. Gli abitanti delle due valli, infatti, votarono in modo diametralmente opposto durante le opzioni del 1939.
Di ritorno a Bolzano, incontro l’artista Nicolò Degiorgis. Conosco Nicolò da molto tempo, ma non ero mai andato a trovarlo nel suo studio, sede della sua casa editrice Rorhof. Nato e cresciuto in questa città, Nicolò è totalmente bilingue: viene da una famiglia italiana, ma ha svolto il suo percorso scolastico in scuole tedesche. È uno dei giovani artisti più importanti dell’Alto Adige, e qualche anno fa è entrato nella Südtiroler Künstlerbund, l’associazione di artisti sudtirolesi fondata nel 1946. Nicolò è stato il primo artista “italiano” ad essere ammesso: in quanto istituzione germanofona, infatti, la Künstlerbund comprendeva solo membri di lingua tedesca.
Dopo aver bevuto un bicchiere di vino nel suo giardino, Nicolò mi mette in mano tre o quattro libri, dicendomi: “Non puoi andare via dal Sudtirolo senza aver letto Langer”. Non so praticamente nulla del politico e intellettuale sudtirolese Alexander Langer (1946-1995); porto con me i libri, per leggerli con calma.
Nel pieno centro di Bolzano c’è una mostra, chiamata BAS – Opfer für die Freiheit (“BAS – Sacrificio per la libertà”), che ripercorre la storia del BAS (Befreiungsausschuss Südtirol – Comitato per la liberazione del Sudtirolo). Definiti, a seconda della prospettiva degli storici, come attivisti, terroristi o “Freiheitskämpfer” (combattenti per la libertà), i membri del BAS usarono bombe e attentati per rivendicare i diritti della popolazione germanofona nei confronti dello stato italiano, con l’obiettivo della secessione del Südtirol dall’Italia.
La mostra ripercorre la storia del BAS attraverso documenti, volantini, giornali e oggetti d’epoca, fra cui bombe e ordigni per la lotta armata; si apre con un pannello che ricorda le 35 vittime del “conflitto sudtirolese”.
Un capitolo della mostra è dedicato alla cosiddetta “Feuernacht” (Notte dei fuochi), ovvero la notte tra l’11 e il 12 giugno 1961, quando il BAS fece saltare in aria circa quaranta tralicci dell’alta tensione in tutta la provincia di Bolzano, per attirare l’attenzione mondiale sulla “questione sudtirolese”. La mattina seguente Giovanni Postal, addetto alla manutenzione stradale, morì a Salorno nel tentativo di rimuovere una bomba posta dal BAS su un albero. Fu la prima vittima dei “Bombenjahre”.
Un altro momento cruciale nella storia del BAS avvenne tre anni dopo. In un fienile della Val Passiria, l’austriaco Christian Kerbler, probabilmente al soldo dei servizi segreti italiani, uccise nel sonno Luis Amplatz e ferì gravemente Georg Klotz, entrambi attivisti del BAS. Klotz riuscì a fuggire oltre il confine con l’Austria, dove in seguito fu messo sotto sorveglianza dalla polizia e arrestato diverse volte. Per il suo coinvolgimento nelle attività del BAS, il tribunale di Milano lo condannò in contumacia a 52 anni di detenzione, ma non fu mai estradato dall’Austria, dove morì nel 1976.
Sua figlia, Eva Klotz, è oggi una delle più iconiche figure della politica sudtirolese. Leader del movimento Süd-Tiroler Freiheit (Libertà sudtirolese), ha fatto parte per più di trent’anni del consiglio provinciale di Bolzano. Il suo obiettivo politico è, da sempre, l’autodeterminazione (Selbstbestimmung) per la popolazione del Sudtirolo.
Incontro Eva Klotz nel suo ufficio, situato giusto a lato della mostra sul BAS. Le chiedo di parlarmi della figura di suo padre. Mi risponde che, come molti Optanten, suo padre si arruolò nella Wehrmacht perché “pensava fosse un modo per liberare il Sudtirolo dal fascismo, che stava operando una vera e propria pulizia etnica”. Eva Klotz mi racconta poi che “dopo la guerra molti fascisti, con un cappottino democratico, erano rimasti ai loro posti e continuavano, sempre in modi violenti, a cercare di trasformare i sudtirolesi in buoni italiani. Mio padre allora entrò nel BAS. Lo chiamavano ‘terrorista’, anche se le sue azioni non sono paragonabili con il terrorismo che conosciamo oggi. Però, in effetti, quello che faceva era mettere paura, in modo che i soldati italiani abbandonassero questa terra. Avrebbe potuto fare una strage ogni giorno, perché conosceva benissimo il territorio e aveva sempre con sé il mitra. Però, assieme ad altri membri del BAS, fece il voto di non ferire o uccidere persone.”
Le chiedo se suo padre sarebbe soddisfatto dell’autonomia odierna del Südtirol. “No, non si sarebbe mai accontentato”, mi risponde. “Lui era per l’autodeterminazione. Questa che abbiamo ora non è autonomia, sono solo ‘atti di decentramento’. Il mio riferimento sono le isole Åland, che appartengono politicamente alla Finlandia ma etnicamente sono svedesi. Lì, lo statuto di autonomia è stato attuato al 100%. Qui, invece, chi vuole esercitare i propri diritti deve lottare.”
Chiedo a Eva Klotz di darmi una definizione di “Heimat”, una parola onnipresente in Sudtirolo. “È un concetto difficile da precisare”, mi risponde. “È ciò in cui ci si sente a casa. Nasce nella famiglia, nella ‘Stube’ [un altro concetto tipicamente tirolese: la stanza della stufa – il cuore della casa], per poi estendersi al villaggio in cui si vive. Nel nostro caso, si estende poi al Südtirol, e all’intero Tirolo. La mia ‘kulturelle Heimat‘’ si estende poi all’intera area linguistica tedesca, poi all’Europa, e infine, a tutto il mondo. È un concetto molto più importante di ‘Vaterland’ [patria]. Ad esempio, l’Austria ormai non è più ufficialmente il nostro ‘Vaterland’, e l’Italia non lo diventerà mai, perché non tutela i nostri diritti.”
Al bar del Parkhotel Laurin, uno storico hotel di Bolzano, incontro Meinrad Berger, uno dei leader della Südtiroler Heimatbund, l’associazione nata nel 1974 a sostegno dei membri del BAS nelle prigioni italiane. Berger mi parla degli Schützen, di cui fa parte. Questi “bersaglieri tirolesi” furono una milizia volontaria per la difesa del Tirolo asburgico fin dal Cinquecento. Vennero sciolti in seguito allo smembramento dell’impero austro-ungarico e, oggi, esistono come associazioni folkloristiche in tutto il Tirolo storico (Trentino compreso), di cui auspicano la riunificazione.
Chiedo a Berger come si immagina la relazione fra i gruppi linguistici. Secondo lui, ognuno dovrebbe poter parlare la propria lingua, ma riuscire a capire la lingua dell’altro. Mi spiega anche la parola “Walschn”, usata in Südtirol per indicare spregiativamente gli italiani. Infine, dopo avermi offerto il caffè, Berger mi racconta un episodio che gli è accaduto recentemente. Era in una funivia che saliva in alta montagna. Nella stessa cabina, un anziano turista italiano chiedeva a sua figlia: “Non capisco perché qui continuano a parlare tedesco. Non sono italiani?” Il signor Berger si intromise nella conversazione: “Mi scusi. Io potrò anche avere la cittadinanza italiana, ma non sono italiano, e non lo sarò mai.” Al ché, l’anziano turista rispose, indispettito: “Ma noi abbiamo vinto la guerra…” Un altro turista – un giovane friulano – lo interruppe subito e, indicando il signor Berger, affermò: “Io dò ragione a lui. Se qui comandassero gli italiani, questa regione sarebbe un casino, come il resto d’Italia”.
La sera prendo in mano i libri di Langer che Nicolò Degiorgis mi ha dato. Alexander Langer, nato nel 1946 a Vipiteno, è stato politico, pacifista, scrittore, giornalista, ambientalista, traduttore e docente. Scopro che fin da giovane denuncia la divisione “etnica” della società sudtirolese, proponendo forme di dialogo e convivenza. Dopo un’educazione cattolica nelle scuole tedesche di Bolzano, Langer va all’università a Firenze e milita in Lotta Continua. Torna in Alto Adige nel 1978 e fonda la lista interetnica Neue Linke/Nuova Sinistra. Nel 1989 viene eletto per la prima volta al Parlamento Europeo, diventando il primo presidente del neo-costituito Gruppo Verde.
“Noi giovani dobbiamo – è un imperativo di coscienza! – essere bilingui. […] Occorre che tutti sappiamo parlare e scrivere non solo la nostra, ma anche la lingua dell’altro gruppo etnico” scrive nell’articolo “Conoscerci,” pubblicato in italiano nella rivista studentesca BiZeta 58 nel dicembre 1964.
E ancora, in “Cari studenti tedeschi: qualcuno ci chiamerà perfino traditori,” pubblicato in tedesco su BiZeta 58 nel dicembre 1964 (pezzo poi incluso in Il viaggiatore leggero):
Ancora oggi portiamo i segni di ciò che il fascismo ha significato per la nostra terra. E forse è proprio perché questa paura continuamo a sentirla nelle ossa, che ancora oggi spesso ci rifiutiamo di avvicinarci agli italiani. Penso che si tratti di uno dei fallimenti più grandi che dobbiamo attribuire a noi stessi e del quale dobbiamo, se siamo onesti, sentirci colpevoli. […] L’isolamento e il rifiuto del dialogo non possono che nuocerci, in tutti i sensi. […] Dobbiamo impegnarci perché si crei in Sudtirolo una società nuova; dobbiamo persino avere il coraggio di accettare di essere chiamati «traditori».
Più di vent’anni dopo, in un dialogo con Adriano Sofri, Langer riflette sulla sua educazione bilingue: “si è tante volte uomini quante lingue (e dialetti) si conoscono; è una spinta a relativizzare, a cogliere le differenze, e, ancora meglio, a cogliere certe finezze, certe sfumature che non soffrono la traduzione. Dove c’è una vocazione plurilingue latente, si deve coltivarla con cura. Tanto più in un’Europa in cui si moltiplicano i rifugiati, gli immigrati…”
Mi colpisce un altro frammento, una feroce autocritica della cultura tirolese:
C’è un’infausta costante che attraversa la storia tirolese. Innovazioni, progressi, aperture, riforme non scaturiscono più dalla forza propria del popolo tirolese, ma provengono ormai solo dall’esterno. […] Grazie alla circostanza che le idee nuove vengono sempre da fuori, sarà agevole diffamarle e isolarle. Di converso diventerà dovere civico, quasi patriottico, dei tirolesi, assumere posizioni conservatrici quando non reazionarie. Una sola volta, nel tempo recente, un’idea nuova ed «esterna» ha trovato adesione nel Tirolo, nonostante l’opposizione di buona parte del clero: era il caso del nazismo, che non è stato smascherato e combattuto come «corpo estraneo», ma invece venne accolto dalla gran parte dei tirolesi come il più adeguato antidoto all’infezione socialista e repubblicana (nel Nordtirolo) ed all’oppressione nazionalista italiana (nel Sudtirolo).
Nel 1981 Langer mette insieme un movimento che rifiuta di dichiarare il proprio gruppo etnico durante il censimento provinciale. Riunisce “5000 apolidi etnici” che rifiutano “di schierarsi con il gruppo tedesco, italiano o ladino, perché non vogliono o non possono riconoscersi in alcuna delle tre gabbie etniche predisposte.” Con questo pretesto viene escluso nel 1995 dalla candidatura a sindaco di Bolzano. Due mesi dopo si suicida nei pressi di Firenze, impiccandosi a un albero di albicocche.
Torno a guardare le foto che ho fatto quattro mesi fa negli archivi di Innsbruck. Mi imbatto in questa immagine, tratta da un libro del giornalista e scrittore Hans Karl Peterlini:
La fotografia mostra le conseguenze dell’attentato dinamitardo del 1986 alla stazione di Lana-Burgstall, rivendicato dall’organizzazione terroristica Ein Tirol (attiva in Alto Adige fra il 1986 e il 1988). Sul muro dell’edificio c’è un messaggio scritto a spray: “Alexander Langer Sau Walsche”. Quando avevo visto questa foto per la prima volta, non avevo i riferimenti per interpretarla. Non sapevo cosa volesse dire “Walsche” (italiano, spregiativamente) o “Sau” (porco); non conoscevo Alexander Langer. Ora, invece, la violenza dell’immagine mi colpisce in pieno.
C’è un ulteriore frammento di Langer che leggo e rileggo, ripensando a questi mesi in Alto Adige/Südtirol, a questa ricerca, a tutte le persone che ho incontrato:
C’è una forte convinzione che mi sorregge: leggo nella situazione sudtirolese una quantità di insegnamenti ed esperienze generalizzabili ben oltre un piccolo «caso» provinciale. Essere minoranza, senza per questo chiudersi in lamentele e nostalgie; coltivare le proprie peculiarità, senza per questo scegliere il «ghetto» e finire nel razzismo; sperimentale le potenzialità di una convivenza pluri-culturale e pluri-etnica…
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Ringrazio le persone che mi hanno dedicato il loro tempo durante la mia ricerca, e non ho ancora fatto in tempo a citare, fra cui: Riccardo Dello Sbarba, Hannes Egger, Maurizio Ferrandi, Franz Haller, Hans Heiss, Albert Mayr, Giorgio Mezzalira, Georg Mischì, Renate Mumelter, Günther Pallaver, Verena Rastner, Carlo Romeo, Hilary Solly, Carolina Valencia Caicedo, Martha Verdorfer.