O sservando le reazioni sovreccitate all’arrivo di Cesare Battisti in Italia, ho pensato che il Paese avrebbe un gran bisogno di riprendere le battaglie chiave dei Radicali negli anni Settanta: la lotta per il garantismo, la laicità, lo sguardo critico verso le istituzioni, l’assoluto rispetto della libertà individuale, la passione per il diritto civile. A tal proposito, fra pochi giorni cade l’anniversario di un piccolo libro che vale la pena leggere o rileggere, non fosse altro perché di Radicali e anni Settanta parla con chiarezza esemplare. Si tratta del Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse di Adelaide Aglietta, uscito per i tipi di Milano Libri nel febbraio 1979 e oggi edito da Lindau.
Maria Adelaide Aglietta fu la prima donna a ricoprire la carica di segretario di un partito politico in Italia: appunto i Radicali, nel 1976. Due anni dopo venne sorteggiata come giurata popolare al cosiddetto processo contro il “nucleo storico” delle Br, che andava svolgendosi in una Torino pesantemente militarizzata — quattromila poliziotti in assetto di guerra, novecento addetti alle scorte — e soggiogata dalla paranoia.
In precedenza il processo aveva subito continui rinvii, dovuti al rifiuto dei brigatisti di accettare difensori — con conseguente minaccia di passare all’azione violenta se il procedimento fosse andato avanti. Minaccia che fu puntualmente eseguita nel 1977, quando il presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino, l’anziano Fulvio Croce, venne ucciso cinque giorni prima della nuova udienza. (Vista la difficoltà di raccogliere dei difensori, il presidente della Corte d’assise gli aveva affidato il compito d’ufficio). Il messaggio dei terroristi era chiaro: la rivoluzione non si giudica; siamo noi a giudicare voi rappresentanti dello Stato; e chiunque si metta in mezzo rischia la vita: nel loro lessico, è il “processo guerriglia”.
Come si può immaginare, l’omicidio aveva esacerbato un clima già molto teso: nel corso dei mesi, duecentodieci avvocati rifiutarono di difendere i brigatisti. Come ricorda con amara ironia il presidente della Corte d’assise Guido Barbaro, vennero addotte “incontrollabili ragioni di salute che, sotto il termine tecnico di ‘sindrome depressiva’, mascheravano il reale stato psicologico: la paura. Del che io direttamente non ebbi dubbi quando una giovane signora cadde lunga distesa al suolo, pur se sorretta dal vigile consorte, quale segno di risposta alla convocazione nel mio ufficio”.
Ho risolto alla fine il problema adottando la formula del diario, cioè di far parlare i fatti così come li ho vissuti, del rileggere e riproporre al lettore i documenti non in appendice ma collocandoli nella narrazione, con una selezione anch’essa personale perché riflette l’importanza che hanno avuto per me in questa vicenda: non solo i fatti e i documenti processuali, ma anche quelli — personali e politici — che si svolgevano fuori del processo e che mi coinvolgevano come radicale e come segretario del partito.
Ma più dei fatti in sé è rilevante lo sguardo di Aglietta, caratterizzato da un equilibrio, una misura e un’umanità impressionanti — soprattutto in un periodo dove anche i più avvertiti si abbandonavano alle passioni del momento e al giustizialismo spiccio. Ora, le ragioni di attualità del Diario, i suoi elementi più preziosi, sono almeno sei.
Il garantismo
La fermezza del garantismo di Aglietta ha qualcosa di straordinario, anche perché durante il processo non era davvero materia accademica, bensì una realtà forgiata nella paura di ogni giorno. Più volte la radicale si preoccupa che tutto avvenga secondo le regole e che in nessun modo il procedimento venga appaltato agli umori esterni o alle forzature della politica. “La base di partenza è la presunzione della innocenza, fino a prova del contrario: su questo è indispensabile essere rigorosi, da subito”. Pone anche delle interessanti questioni legate all’autodifesa degli imputati, per evitare la sacca del “processo guerriglia”.
Certo non condivide il processo stesso e lo critica come una prova di forza dello Stato contro il terrorismo, uno spettacolo allestito per simulare un’energia inesistente; ma non si rifugia dietro tale convinzione per fuggire il dovere. Come osserva Sciascia nella prefazione al testo, Aglietta è divisa “tra la disobbedienza civile professata in quanto radicale e l’obbedienza alla dignità personale”: eppure riesce, caso rarissimo, a tenersi in equilibrio.
“Mi viene da chiedermi”, “mi chiedo”: sono frasi che nel Diario ricorrono spesso, e sono indice di una coscienza che frequenta il dubbio e l’umana esitazione tanto quanto l’adesione ad alcuni principi etici fondamentali. Un tratto che le è stato riconosciuto, due anni dopo la morte, dallo stesso presidente Guido Barbaro: “non manifestò affatto diffidenza ma, senza mai assumere atteggiamenti arroganti o presuntuosi, si rese disponibile a scambi di idee e a rapporti collaborativi. Subito avevo apprezzato in lei la disponibilità e il disinteressato senso di civismo”.
La sobrietà e la curiosità
Connessa al garantismo, quasi ne fosse una filiazione diretta, c’è anche una questione linguistica. Lo stile di Aglietta è limpido, piano e riflessivo anche quando descrive le situazioni più delicate; possiede una sobrietà direi quasi torinese. Davvero qui la prosa si fa manifesto delle proprie convinzioni democratiche.
Non per questo il Diario è arido o chiuso in sé stesso. In ogni pagina risplendono la volontà di dialogo di Aglietta, la sua empatia, e soprattutto la sua curiosità intellettuale. (In un passaggio di domenica 5 marzo, annota che sente il bisogno di “imparare molte cose” riguardo al processo). Ecco: Aglietta è una persona curiosa, virtù assai pregevole in un momento dove tutti diffidano di tutti e i resoconti hanno spesso toni mesti o tetri. La forza straordinaria del Diario sta invece nel combinare una misura linguistica temperata con un desiderio inesausto di raccontare il mondo umano del processo, al di là dei tecnicismi.
Così, le piccole annotazioni su avvocati, giudici, imputati — i rapporti che si creano, le gentilezze degli amici, la meschinità di alcuni giurati e la simpatia di altri — non hanno solo il sapore della vita in una vicenda di morte, ma sono anche materia di riflessione: testimoniano che tutto è molto più complesso, sofferto e delicato di quanto possa apparire a prima vista. Le resterà inoltre la curiosità di parlare con i brigatisti e conoscerne le ragioni: ma non riuscirà a soddisfarla.
La paura e l’assenza di retorica
Aglietta non si costruisce addosso un’armatura da eroina: ammette le proprie inevitabili paure e anzi si impegna a smantellare la retorica dell’audacia a tutti i costi. Poco dopo l’omicidio di Rosario Berardi, una telefonata all’Ansa comunica che la prossima vittima sarà proprio lei. Aglietta cerca di mantenere la calma, spiega alla figlia maggiore che forse è la bravata di qualcuno, che non bisogna lasciarsi prendere dal panico. Ma il momento è estremamente difficile e l’angoscia per la famiglia la perseguita per diversi giorni, segno che la violenza è diventata un fattore concreto che la riguarda di persona.
Al tempo Sciascia affermò che, “non fosse stato per il dovere di non avere paura”, avrebbe rifiutato il ruolo di giurato: sia per una ripugnanza istintiva nel giudicare gli altri, sia perché lo Stato del processo di Torino era debole e corrotto. (Per questo motivo fu accusato di codardia e gli fu ascritta la formula “né con lo Stato né con le Br”, che in realtà mai pronunciò). Calvino gli rispose comunque che sbagliava nel “credere al crollo o disfacimento o suicidio di un sistema di potere lasciato a se stesso. Se ciò avvenisse vorrebbe dire soltanto la creazione automatica di una versione peggiorata dello stesso potere, con le stesse storture, se queste storture non è la società stessa a eliminarle, una a una”.
Intorno a questo dibattito, e in particolare dopo il rapimento Moro, l’arco istituzionale si espresse con toni veementi e infiammati, una retorica che lo stesso Sciascia stigmatizzerà nel’Affaire Moro. E allora suonano ancora più alte e discrete le parole di Aglietta nella conferenza stampa dell’accettazione, fissata per farsi conoscere “non come simbolo, bensì come persona”:
Non ho quindi avuto esitazioni nel comprendere quel che dovevo fare. Come tutti, come donna, come madre, ho avuto e potrò avere momenti di dubbio e di paura per me, per le mie figlie, per i miei compagni, per gli altri. Penso che il coraggio consista nel superare la paura, non nel non provarla. Penso che il coraggio della paura è meritevole e doveroso dinanzi alla morte che una società sempre più basata sull’equilibrio instabile del terrore militare e nucleare prepara e impone: come dinanzi ad ogni morte. Anche per questo per noi e per me la vita è sacra, a cominciare da quella degli altri, così come la libertà e la giustizia.
L’informazione
La lotta per un’informazione più corretta è fra i temi che tornano qui e là nelle pagine del Diario. Ancor prima di essere sorteggiata, Aglietta lamenta la disparità di trattamento dei Radicali, accusati da stampa e televisione di vittimismo, ma poi condannati a tacere di fronte alle infinite dichiarazioni dei partiti — queste invece debitamente raccolte — così come ai comunicati delle Br pubblicati per intero.
In seguito denuncerà i modi con cui alcuni quotidiani riportano la notizia dell’accettazione: alcuni “speculano sul brivido di un possibile fatto di sangue”, altri insinuano la connivenza della radicale con le Brigate Rosse; altri ancora parlano di generico coraggio ignorando “lo spirito costituzionale della mia accettazione, la nonviolenza come necessità esistenziale e politica tutt’altro che passiva o disarmata, l’appello a spezzare la spirale della paura e della violenza a Torino riappropriandosi serenamente delle strade della città, il rifiuto della scorta come garanzia e il pacifico rigetto di qualsiasi ipotesi di coartazione — dettato dalla paura — della propria coscienza”. Allora come oggi, la questione della stampa e della gestione delle notizie appare cruciale.
La questione femminile
Come ho già ricordato, Aglietta fu la prima segretaria di partito della storia repubblicana. Qui e là nel testo il tema femminile fa capolino: sono interessanti le osservazioni di sfuggita sulle altre giurate, sui modi in cui una di loro si dimostra influenzabile dai dati di “sapere” e “potere” maschili; ma più ancora lo sono tre fatti.
Il primo. Al momento della richiesta delle pene da parte del P.M., Aglietta prova indignazione quando sente che “per le donne (in particolare per Nadia Mantovani), in quanto ritenute pedine minori coinvolte nella vicenda solo per il legame con i rispettivi compagni, sono chieste pene minori. Neppure la dignità delle «proprie» idee!”.
Il secondo. Durante il processo l’autrice comincia uno sciopero della fame; quando un giorno deve allontanarsi dall’aula, il brigatista Semeria esclama che forse è andata a mangiarsi un panino. L’udienza viene sospesa. Al suo ritorno, Aglietta nota che gli avvocati disapprovano il fatto con battute maschiliste, “cui anche il presidente non si sottrae”.
E il terzo, che apre uno squarcio sull’Italia fuori dalla caserma e dal processo, l’Italia alle prese — fra l’altro — con il referendum sull’aborto. Un giovane carabiniere avvicina Aglietta fuori dall’aula e le chiede, timidamente, dove può far interrompere la gravidanza alla sua fidanzata. La segretaria radicale gli abbassa la canna del mitra che lui le aveva rivolto contro involontariamente, e lo aiuta.
La critica della violenza
Stretta fra la repressione dello Stato e gli spari delle Brigate Rosse, Aglietta comprende che la strada dei Radicali — ma non solo: la strada faticosamente percorsa dal meglio del movimento di quegli anni — si fa sempre più angusta e ostile. E ciò nonostante non smette di ragionare. Non smette di provare ripulsa nei confronti dei metodi brigatisti, così come non smette di criticare il loro linguaggio (“sintesi di stalinismo e di cattolicesimo, con una visione dei rapporti umani e sociali basata sull’intolleranza e sull’indisponibilità al dialogo”). Altrettanto stimolanti sono le sue considerazioni sul metodo non-violento, sopra il quale non c’è mai stato autentico dibattito e che troppo spesso viene liquidato come generico rifiuto dell’uso della forza o forma indebolita di ricatto morale.
Ma c’è di più. Ad atterrire Aglietta non è tanto la minaccia fisica, bensì la brutale indifferenza che essa veicola: la riduzione di qualsiasi confronto a uno scontro senza mediazioni. La colpisce un’affermazione ripetuta più volte dai brigatisti, per cui l’unico rapporto possibile fra loro e i membri del processo è di “spararci in faccia”. A questa visione rispondono le righe più alte del diario, quando Aglietta ragiona sulla presunta minaccia di morte che la riguarda:
L’angoscia sta invece invadendo me: mi fermo mentre scendo in città (da dove abitano le bambine la si vede tutta) e penso che là in mezzo c’è qualcuno che ha deciso di ammazzarmi. Ciò che più mi angoscia non è la cosa in sé, ma il fatto di non poter parlare con questo o con questi, il fatto che lo abbiano deciso senza conoscermi, senza saper nulla della mia storia, delle mie motivazioni; è la negazione del dialogo, del confronto. È questa la vera violenza, peggiore di quella fisica.Troppo spesso, senza rendercene conto, nei nostri rapporti di tutti i giorni siamo colpevoli di questa violenza, quella che deriva dall’omettere — per vigliaccheria, per presunzione, per timidezza, per pigrizia — di parlarsi, di dirsi le cose, di ascoltare quello che ci viene detto. Questo sentirmi muta e mutilata dei miei pensieri e di quelli altrui mi far star male.
Non c’è critica più profonda, e più amara, della violenza quale unico metro di valutazione delle relazioni sociali. E aggiungerei che vale per ogni atto di violenza. Perché all’epoca non fu patrimonio della sola sinistra estrema, anzi. Per le stragi di innocenti da piazza Fontana in avanti i responsabili accertati sono pochissimi: il terrorismo neofascista, che fu per alcuni una spinta a scegliere la lotta armata, resta ancora impunito, avallato come fu da una parte dello Stato con depistaggi, omertà e nefandezze di ogni sorta. Non è benaltrismo né un modo per giustificare gli attentati brigatisti; è una verità che troppi dimenticano, per primi gli uomini del potere. Se giustizia e critica della violenza devono esserci, non possono conoscere limitazioni di comodo.
E con questo torniamo al presente. L’accoglienza riservata al rientro di Battisti in Italia è stata un segnale del modo in cui questo Stato intende la giustizia e ne fa uso per ragioni propagandistiche. Adriano Sofri si è chiesto quale effetto possano avere parole come “marcire in galera” sugli agenti penitenziari; quale cultura della vendetta veicolino. E un osservatore equilibrato come Luigi Ferrarella, sul Corriere, ha criticato con nettezza quel rituale cinico, irrispettoso in primo luogo nei confronti delle vittime.
Se dunque si desidera riflettere sugli anni Settanta senza cedere a pulsioni forcaiole, e comprendere cosa significhino ancora oggi, il Diario è uno strumento prezioso. Rileggendolo ci si accorge che quell’epoca ha certo a che fare con molto dolore, ma fermarsi al dato emotivo o giuridico non è sufficiente: altrettanto grave è stata l’incapacità di risolvere politicamente il conflitto sociale.
Quarant’anni dopo non è cambiato molto: si esibisce una forza di facciata, sempre più volgare e incattivita, e nient’altro. Vale per i protagonisti di quella lontana stagione, vale per il dissenso e la disobbedienza che anima la parte migliore della nostra società. Ma il Diario di Aglietta ci consegna anche armi non-violente per combattere lo stato di cose. Sono sempre le stesse, disponibili allora come oggi per chi abbia il coraggio di usarle: intelligenza, empatia, rigore etico e capacità di discernimento.