I n Siria del Nord stanno morendo di morte violenta miliziani e civili, incluso chi soltanto qualche anno fa ha perso braccia e gambe, sorelle e fratelli per combattere l’Isis. Dopo l’invasione dell’esercito turco, appoggiato da bande jihadiste, il Rojava è tornato a essere – anzi è rimasto – il centro delle contraddizioni degli ultimi anni: un territorio dove la Nato mostra la sua inadeguatezza nell’epoca delle proxy war (le guerre per procura), sbriciolato da offensive e controffensive, alleanze improbabili e accordi di sopravvivenza, come quello pattuito tra YPG/YPJ (la forza armata curda) ed esercito siriano. Nel frattempo aumentano sensibilmente attentati e colpi ascrivibili all’Isis, che sembra ricompattarsi, mentre la Russia prende il posto degli Stati Uniti in Medioriente, riuscendo a chiudere accordi (economici, politici, strategici) anche con Iran e Arabia Saudita.
Questi accordi si prendono a parole; le parole restano invisibili fino a quando i droni e le loro bombe si allargano nel campo visivo, fino a quando i mezzi blindati alti come le case che dovrebbero proteggere si materializzano sul confine turco-siriano, e le pietre lanciate dalle vedove gli rimbalzano addosso. Qualche esempio: dieci giorni fa uno di questi veicoli ha investito e ucciso Serxwebun Ali, 25 anni. Oppure: il 29 ottobre a Dabash tre civili sono stati legati, giustiziati e abbandonati nei campi; sono emerse prove fotografiche, schiene e visi bruciati, dell’uso di fosforo bianco; i militari siriani, innocui di fronte agli armamenti pesanti che la Turchia non dovrebbe utilizzare – stando agli accordi di Sochi – vengono imprigionati, torturati e uccisi. Gli esempi sono tanti, come i morti e i feriti, ma anche lo sforzo compilatorio rischia di farsi anestetico.
Maria Edgarda Marcucci e Jacopo Bindi sono arrivati a Afrin (un villaggio nel nord-ovest siriano) lo stesso giorno del 2017, e sono tornati insieme in Italia, nove mesi dopo. Marcucci era nel ramo militare, Bindi nel civile. Li ho intervistati per capire cosa significa portare fino in fondo la necessità di prendere parte a un conflitto, in apparenza, così lontano dal nostro paese.
Un’ultima premessa: il 3 dicembre 2018 la Procura di Torino ha chiesto al Tribunale l’applicazione della sorveglianza speciale nei confronti di Marcucci, Bindi e altri tre italiani che hanno combattuto l’Isis. Secondo la pm Emanuela Pedrotta infatti la “sussistenza della pericolosità” dei cinque italiani è “ravvisabile dai recenti viaggi in Siria a sostegno delle milizie curde delle Ypg e delle Ypj”.
La sorveglianza speciale è stata introdotta nel 1931. Nata nel Ventennio ne conserva dei tratti – nella fattispecie, una certa sensibilità predittiva: consente, inoltre, il ritiro della patente, il ritiro del passaporto, il divieto di dimora, di assemblea e di partecipazione a eventi pubblici. Il 20 giugno due di loro, Davide Grasso e Fabrizio Maniero, sono stati prosciolti perché l’accusa non sussiste. Maria Edgarda Marcucci, Jacopo Bindi e Paolo Andolina sono stati sottoposti ad approfondimenti dovuti alla loro attività politica a Torino: la prossima udienza si terrà lunedì 25 novembre.
Da testimoni e parte in causa, che rapporto avete con la copertura dei media rispetto al Rojava?
Maria Edgarda Marcucci: Partiamo da un esempio positivo: Michele [Rech, alias Zerocalcare] fa sia un lavoro informativo, in cui dirada questo marasma di notizie intrecciate, una verità inafferrabile che come l’oggetto kantiano resta sempre inconoscibile, dando delle risposte mirate sulla questione, ma anche tiene insieme l’aspetto delle ragioni profonde – “perché questa faccenda è importante a livello storico?, e noi, dove ci collochiamo?”. Con i suoi lavori Michele è riuscito a proiettarsi in un orizzonte di condivisione e identificazione con le sue tribolazioni, con gli stessi complessi vissuti da una grossa fetta del paese: la precarietà, le tappe di vita – che sono ordinate, predisposte e pretese – e l’impossibilità di raggiungerle, la retorica del “se vuoi puoi”, insomma, lo scarico sulle tue spalle di questioni strutturali.
Nel momento in cui c’è questo passaggio di identificazione e di empatia, in cui vedo questo tizio che vive i miei stessi problemi e ha la capacità di proiettarli e di dirmi che esiste qualcosa di altro, un altro che gli parla, proprio a lui, a lui che è fatto come me…
Le nostre esperienze personali sono davvero una goccia nel mare, di per sé non sono così interessanti, sono però un punto d’accesso più facile, rispetto a qualcosa che presenta così tanti livelli, perché di fatto Jacopo Bindi e Maria Edgarda Marcucci non sono persone così diverse da Tizio o Caio. Sì, siamo No-Tav, abbiamo fatto dei passaggi nella nostra vita, ma non sono esperienze marginali, ci sono tante persone nel nostro Paese che hanno questa sensibilità. Raccontiamo quindi la nostra esperienza non perché è l’Esperienza definitiva, ma è solo una delle tante possibili: siamo due tra milioni di persone che hanno in potenza questo bisogno. Non ci siamo accontentati di capire una precisa situazione, ma abbiamo deciso di farne parte.
Le piazze italiane sono state vuote per anni fino a quando non è arrivato il movimento transfemminista, Non Una Di Meno. Non c’erano tutti in piazza con loro, è vero, ma quanti stanno uscendo di casa comunque per i FridaysForFuture? Una società che mette al centro la questione della parità di genere e dell’ecologia, che lo si voglia riconoscere o no, sta parlando a qualcuno.
Noi andavamo in una zona di guerra, ed eravamo predisposti a ricevere lutto, morte, miseria e fame, poco altro. Sì, la resistenza… però, almeno per quanto mi riguarda, ero partita con questo quadro psicologico. Quello che ho trovato è senz’altro un territorio devastato dalla guerra, ci si trovano lutto, devastazione e fame. Ma nel momento in cui la guerra non mordeva più i fianchi, almeno in maniera così stringente, perché magari la linea del fronte si era spostata magari da appena una settimana – ecco che fioriva una vitalità, una coesione che all’inizio avevo collegato all’emergenza, quel senso di “ogni giorno potrebbe essere l’ultimo e si vive tutto intensamente”, e invece la lego a quello che di immanente e permanente si sta costruendo e prendendo in considerazione laggiù.
Jacopo Bindi: In un panorama in cui fino all’anno scorso l’informazione sulla Siria stava quasi a zero, e in particolare su quello che succedeva nella Siria del Nord, su quali sono i processi politici che sta innescando, quali sono le difficoltà… in questo panorama di silenzio da anni Zerocalcare è riuscito a essere una delle poche voci che raccontava questa realtà, e a farlo in maniera molto efficace. È incredibile che per tutti questi anni ci fosse poca informazione, e molto confusa, che non lasciava capire cosa stesse succedendo. Si mescolavano dei generici “ribelli” all’esercito di Assad, nomi e riferimenti sparsi, vaghi.
Invece su quel territorio ci sono delle opzioni politiche radicalmente differenti e in contrasto tra di loro: quella di Assad è un’oligarchia che ha l’obiettivo di tenere in piedi il suo clientelismo, poi ci sono i cosiddetti Ribelli, che in realtà sono delle bande jihadiste variegate che, certo, vogliono battere Assad ma per imporre uno stato islamico; l’Isis era una di queste, semplicemente la più potente. Dal punto di vista ideologico ha molti omologhi, come quelle bande che ora sono alleate alla Turchia. Dall’altra parte c’è la rivoluzione confederale, che non è mai stata coperta adeguatamente dai media, nonostante i messaggi importanti e il contributo fondamentale che ha dato nella guerra contro l’Isis.
Prendiamo anche l’etichetta di “curdi”: in realtà nella Siria del Nord la diversità etnica ha un suo ruolo, è un territorio in effetti a maggioranza curda, ma che non coinvolge solo loro e non è pensato solo per loro: include decine di componenti politiche, religiose, linguistiche, a partire da arabi, turkmeni, circassi, assiri, yazidi, siriaci… è un mosaico di popolazioni. Una soluzione nazionalista, o comunque centrata su una unica identità linguistica o religiosa o etnica non è la soluzione, non può esserlo. Di questo la rivoluzione confederale si è resa conto ormai da anni, e ha lavorato per proporre qualcos’altro, dove tutte queste identità potessero convivere pacificamente insieme.
Considerando la diversità etnica del nord della Siria, come facevate a comunicare in un territorio così vario? Che cosa significa imparare il curdo ad Afrin?
MEM: È come imparare l’italiano in un nostro comune che ha meno di 300.000 abitanti, in comunità dove il dialetto è ancora vivo. Bisogna immaginarsi un Erasmus che si trova a imparare l’italiano in un paesino bergamasco, o campano, siciliano.
Il curdo ha diversi rami, c’è il Kurmanji, il Sorani, lo Zazaki, l’Hawrami… il Kurmanji è il dialetto più parlato in Siria, mentre già nella zona di Bakur e di Tersim parlano tutti Zazaki, in Iraq parlano tutti Sorani, eccetera.
Ci sono vari livelli: uno è il discorso dell’assimilazione, dell’annientamento culturale, che fa sì che il curdo sia una lingua estremamente orale, sopravvissuta solo ribaltando l’esclusione sociale. Le donne che arrivavano nel Kurdistan turco, non scolarizzate, escluse e dimenticate da tutto e tutti hanno continuato a parlare curdo perché non frequentavano i luoghi di vita pubblica che includevano il turco. Niente scuola, uffici… ecco che nei loro quartieri e villaggi si continuava a parlare curdo. I figli magari imparano il turco, così se gli serve chiedono a loro, e sono a posto. Mettendo questi soggetti al centro, cioè coloro che in quel momento stavano tenendo in piedi la comunità curda de facto e culturalmente, si è ribaltato tutto. Da “ultimi giapponesi nell’isola” sono diventate il fulcro di un progetto di riscoperta della lingua, che è stata codificata, è stata stampata una grammatica… Una comunità di donne è diventata un baluardo culturale.
Tornando in Italia: parliamo della sorveglianza speciale. La prossima udienza quindi è stata fissata per il 25 novembre. Come state vivendo queste settimane?
JB: Inizio dal contesto. La sorveglianza speciale è una misura preventiva che è stata formalizzata nel codice Rocco del ‘31 ed è sopravvissuta nell’ordinamento italiano fino a oggi, nonostante ci siano state delle condanne della Corte Costituzionale Europea; è strano che un paese di diritto liberale non preveda un’accusa specifica riguardante dei fatti che abbiamo commesso, ma si basa su un giudizio prognostico delle azioni o delle intenzioni che potremmo avere nel futuro. La cosa incredibile è come parte della Procura di Torino e della Questura abbiano voluto tentare questa strada: prendere cinque persone che sono state in Siria per sostenere le YPG e YPJ, in alcuni casi combattendo direttamente contro lo Stato Islamico, e accusarle di essere potenzialmente pericolose per la società.
A giugno il Collegio Giudicante ha deciso per due persone che avere fatto parte delle YPG non è di per sé indice di pericolosità sociale, ma le tre restanti [cioè Bindi stesso, Maria Edgarda Marcucci, Paolo Andolina] sono ancora sotto giudizio perché al ritorno dalla Siria hanno partecipato ad attività politiche in Italia, e ci sono segnalazioni della polizia a riguardo, incluso un episodio che coinvolge proprio noi due, Eddi e io: un presidio musicale di fronte a un locale qui vicino in cui denunciavamo la situazione di mancato pagamento di un dipendente. I padroni del locale erano in arretrato da mesi con il pagamento dello stipendio dovuto al loro dipendente, e al presidio non si sono verificati fatti rilevanti, se non il volantinaggio e la musica. La Digos di Torino ha sporto denuncia, e partendo da questo episodio i giudici hanno deciso di approfondire la nostra posizione.
Il 15 ottobre ci siamo trovati di nuovo in udienza, e intorno a noi abbiamo potuto sentire molta attenzione; le persone di Torino hanno riempito l’aula, e c’erano diversi giornalisti. La nostra vicenda non si può separare da ciò che sta accadendo in Siria… e alla fine la nostra udienza è stata rinviata.
La Pm Pedrotta, per corroborare la sua posizione, ha citato dei contenuti che avete pubblicato su riviste, libri e social network, affermando: “costoro non possono difendere la società occidentale, perché affermano di essere contro il capitalismo”. Ma che cosa ha citato, nello specifico? E cosa significava vedere esposte le vostre opinioni in quella situazione?
JB: Ognuno di noi che abbia prodotto del materiale informativo se l’è ritrovato lì, tra gli atti dell’inchiesta. Quando ero ad Afrin, sotto l’attacco delle stesse forze che ora stanno attaccando il resto della Siria del Nord – cioè l’esercito turco e diverse bande jihadiste – ho scritto degli articoli per il Manifesto, e questi facevano parte degli atti. Davide [Grasso] ha scritto un libro sulla sua esperienza, e il libro era incluso negli atti.
MEM: Poi dichiarazioni di incontri pubblici, che sono state verbalizzate e riportate. C’era un aspetto di farsa, ma quel tipo di farsa che ti lascia molto turbato. Il sillogismo della Pm Pedrotta era questo: “hanno fatto questa scelta anche in nome della società, siriana e italiana, e l’hanno detto dichiarandosi anti-capitalisti; ergo, il sotteso taciuto, ma di fatto molto esplicito, è stato capitalismo = società. E quindi: oppressione = società“. Questo può essere vero solo per qualcuno che fa coincidere completamente l’ordine sociale, insieme all’ordinamento economico-politico, con la società stessa.
Poi c’è l’altra questione: secondo la Pm il contorno che circonda gli eventi è già chiaro e definito, “abbiamo tutte le annotazioni [di polizia] che ci servono, di cos’altro potremmo avere bisogno?”.
Allora metto insieme che a) la Pm Pedrotta, e quindi la Magistratura, parla della società nei termini di chi la governa, di chi detiene i termini di organizzarla e fa un’omologia del tutto supposta, tra il potere che stringe tra le mani e la legittimità del mondo di esistere. In più, b) il suo ruolo dovrebbe garantire liberi dibattimenti e un certo tipo di giustizia, però può andare in aula di tribunale e dire ad alta voce che sono sufficienti le carte della polizia, e che la voce dei testimoni e il processo non servono a niente. Ecco spiegata la farsa perturbante.
Vi sentite isolati, una minoranza?
JB: La situazione è kafkiana. C’è da dire però che in tutti questi mesi non ci siamo mai sentiti isolati; ovunque siamo andati per raccontare la situazione in Siria abbiamo trovato tantissime persone interessate che mostravano supporto, simpatia. Anche in questa situazione abbiamo trovato tanto sostegno da tante persone. Ci sono stati anche alcuni momenti in cui si vedeva una parte significativa della società italiana vivere questa situazione come assurda, ingiusta e imbarazzante. Ci sono state moltissime dimostrazioni di solidarietà, a Torino e non solo, in tutta Italia.
Giriamo l’Italia per fare conferenze e dibattiti su quello che succede in Siria. Il tema della sorveglianza speciale emerge spesso e le persone ci mostrano, appunto, il loro sostegno e la loro empatia. Se dovesse passare questa sorveglianza sociale, tra le tante limitazioni della nostra libertà individuale – senza avere commesso un reato – non potremmo più incontrare più di due persone contemporaneamente, parlare in pubblico, partecipare a eventi e manifestazioni, eccetera. Tutto questo lavoro di testimonianza diventerebbe impossibile.
Capitalismo, società, oppressione… sono parole che usiamo con una certa disinvoltura anche se occupano molto volume, e prendono i significati più vari. A volte come abbiamo visto, con altrettanta disinvoltura, una viene identificata all’altra. Eppure in qualche modo sono alla radice delle vostre scelte, altrimenti perché andare proprio in Siria? Forse lì queste identificazioni prendono un altro senso, si fanno evidenti?
JB: Sicuramente in un territorio che soffre una guerra le contraddizioni e le sofferenze causate dal sistema economico a cui siamo soggetti si vedono in maniera molto più brutale, le parole si trasformano in cadaveri, donne e uomini in fuga, bombardamenti… Però, per quanto mi riguarda, c’è un altro aspetto cruciale dietro al motivo per cui sono partito e ho vissuto in Siria: nel Rojava non c’è solo questo, c’è anche un tentativo di trovare una soluzione a questa violenza. C’è un tentativo che è stato costruito negli anni dal movimento rivoluzionario, che propone una società basata sulla convivenza pacifica, sulla libertà delle donne, sulla democrazia dal basso, su un’economia cooperativa e sull’ecologia.
Un modello in cui cinque milioni di persone hanno vissuto negli ultimi anni, quindi realizzabile, che vuole essere una soluzione – nello specifico, della guerra civile siriana – ma anche per tutto il Medioriente. E sicuramente offre una alternativa ideale anche per noi, parla dei problemi che abbiamo noi, qui, a migliaia di chilometri di distanza.
Certo, non è esattamente quello che si fa nel Rojava quello di cui abbiamo bisogno, ma di sicuro contano i principi, l’idea che si possa trovare una soluzione riguardo a temi che toccano anche l’occidente, per esempio l’ecologia e l’uguaglianza di genere, temi che troviamo sui giornali tutti i giorni e che sembrano insolubili.
Quando parlate di ecologia di cosa parlate? Quali sono le politiche ecologiche a cui avete potuto testimoniare?
MEM: Partiamo da un presupposto: quando parliamo di ecologia non parliamo certo di raccolta differenziata, di biologico, green economy, ma della ridefinizione del rapporto con il territorio. Per esempio: Jinwar, il villaggio delle donne, è stato costruito con la tecnica antica di costruzione delle case. Ovvero: mattoni, paglia e fango. Perché? Anzitutto, coinvolge molte persone nel processo di costruzione, è una competenza distribuita, in tanti sanno prenderne parte. Secondo, risponde a delle esigenze pratiche: stare al fresco mentre picchia il sole, ripararti quando piove e fa freddo d’inverno; di fatto quel materiale trattiene il calore e lo disperde a seconda di come lo si utilizza – permettendo di risparmiare sul legno, sul gasolio, eccetera. Il cemento non è in grado di regolare allo stesso modo la sua temperatura. (E come è ovvio, soprattutto in una zona come la Siria del nord, martoriata dalle bombe e dalla guerra da quasi dieci anni, anche il cemento sarebbe comodo: ma quel territorio è sotto embargo, e il cemento non glielo fanno arrivare).
Un’ecologia insomma che riprende un sapere che è funzionale a oggi, non per amor primitivista o altre cose del genere; ma perché l’esproprio che abbiamo subìto – senza mai problematizzarlo – della capacità di costruire, non è successo solo per comodità, ma affinché anche quella capacità fosse monopolizzabile, fosse indirizzabile, organizzabile e controllabile.
Nel Rojava insomma, l’ecologia è ricostruzione, e coinvolge tutti i cittadini.
Vi è rimasta la voglia di tornare in Siria del Nord?
JB: Per noi è un territorio, un progetto politico, anzi sono delle persone con cui abbiamo stretto una relazione forte, persone con cui e per cui abbiamo rischiato di perdere la vita, non sono cose che uno può cancellare come un’esperienza tra le altre. In questo momento abbiamo tanto da fare qui, per sostenere le persone che abbiamo conosciuto in Siria del Nord. Il desiderio, certo, è quello di tornare.
MEM: Intanto per me c’è una differenza forte che è giusto ricordare, tra noi qui in Italia e chi sta in Siria, cioè che in un posto cadono le bombe e nell’altro no. Lo rimarco perché non vorrei che si confondessero i due piani, quello della solidarietà di chi si sente partecipe, e di chi prende davvero parte in una guerra… che è un impegno diverso, ecco.
Però da quando sono tornata il qui e lì per me è molto cambiato. Non mi è mai stato così chiaro che il destino di quel popolo e quello del mio sono intrecciati, che il nostro avvenire sarà determinato da cosa accade ora in quella parte di mondo. Non perché io sono molto intelligente e sono in grado di vedere delle connessioni che agli altri mortali sfuggono, ma per dati oggettivi: se l’Italia non interviene in questo conflitto, in questo momento, come faremo ad aprire bocca quando torneranno episodi terroristici rivendicati dall’Isis?
Questa ondata di solidarietà degli ultimi tempi ha tanto anche di questo, magari qualcosa di non razionalizzato, giustificabile come un’attenta analisi geopolitica, ma nasce dalla comprensione che chi sta ignorando i siriani sta ignorando me, cittadino italiano.
Questa sensazione, la consapevolezza di come le trasformazioni a livello globale siano interconnesse e arrivino al nostro quotidiano, mi sembra caratterizzare la fase storica che stiamo vivendo. Prendiamo FridaysForFuture, il fatto che si consideri il mondo come uno è un elemento rilevante, particolare, segnala che il mondo globalizzato oggi non viene più soltanto subìto, non è qualcosa che ti disorienta per quanto complesso e ineffabile; il messaggio viene ribaltato, “quello che accade lì – dietro casa, dall’altra parte del mondo – è la mia forza”.
Prima di oggi, pensando alla vostra esperienza e alla vostra posizione, un pezzo di me era convinto che avrei incontrato due ragazzi in parte spaesati, alienati rispetto alle persone che li circondano per strada, al ristorante, in tram. Mentre guardandovi in faccia e ascoltandovi mi sembra che la realtà non sia questa, anzi: come avete vissuto il ritorno in Italia, il rapporto con i vostri amici e con gli altri?
JB: Su certe cose c’è un livello di distanza e alienazione – almeno, per come l’ho vissuta io. Ritrovarsi vicini a persone che non hanno mai conosciuto la guerra, per esempio, crea delle difficoltà comunicative. Perché magari non hai nemmeno le parole per farti capire; allo stesso tempo, dall’altra parte, c’è qualcuno che l’ha vista solo nelle immagini che scorrono in televisione, nei telegiornali…
Dall’altra parte c’è anche la difficoltà di trovare il coraggio di fare certe domande.
JB: Sì, e di riuscire a capirle. Come anche probabilmente l’idea che lì ci sia il tentativo concreto di cambiare il modo in cui viviamo, i principi della società in cui viviamo la vita di tutti i giorni. Qui sembra impensabile, ormai siamo abituati che il modo in cui viviamo magari è ingiusto, magari ci fa soffrire, ci fa arrabbiare perché guadagni poco e spendi tanto, sei sempre di corsa, chiuso nel tuo individualismo. Insomma, la cornice che abbiamo intorno sembra qualcosa di ovvio, di naturale.
Sono aspetti che creano una certa difficoltà di comunicazione.
MEM: C’è una frase che ho sentito quando sono arrivata in Siria, e mi è rimasta impressa da quel giorno: “nulla cresce lontano dalle proprie radici”. Siamo tornati anche perché siamo partiti come due giovani che abitavano in Italia, e pensavano che le cose in Italia e nel mondo non andassero bene, e siamo tornati perché al problema che ci portavamo dietro da prima c’è la possibilità – non facilmente, non gratis, senza sacrificio – di trovare una soluzione. Non posso pensare un orizzonte di cambiamento che non sia insieme alla mia gente.
Chi è la tua gente?
MEM: Chiaro, siamo internazionalisti, questa gente è in tutto il mondo. Ma è anche quella che si è nutrita delle stesse cose da quando siamo piccoli, che condivide una storia, quella di questo paese in mezzo al mare che è stato attraversato da chiunque e che vive una differenza interna che si può vedere ogni giorno. Se la diversità è ricchezza, e questo lo credo, l’Italia è un paese molto ricco.
Allora tornare qui, e saldare questa prospettiva, vivere secondo questa visione, mi ha dato anche l’amore e la voglia di coinvolgere le persone che ho intorno. Se tu parti da dei valori unificanti più profondi di un inno, valori che parlano alla realtà delle persone – la realtà individuale che ci distingue, uomini, donne, etnie e altro – allora vedi che l’unità si fa più profonda. Io e Jacopo, per esempio, abbiamo avuto modo di vederla ad Afrin.
La guerra è una situazione in cui tante maschere cadono, dell’individuo e della collettività. Vedere il livello di solidarietà raggiunto ad Afrin, il fatto che ogni minimo gesto di quella resistenza andava in un flusso, e tanti erano fatti da persone molto diverse, con identità molto diverse, tutti però tenuti insieme da qualcosa di molto semplice e determinante: o si salvano tutti, o non si salva nessuno. Se si salvano solo alcuni non si salva nessuno.
Non è facile parlare con chi ha vissuto la guerra, entra una forma di autocensura, di rimozione… è facile scadere nella raccolta di dettagli pornografici, morbosi. Sento però che dietro alle vostre parole ci sono delle immagini e delle persone che abbiamo faticato a tirare fuori. Ci sono degli episodi, o delle persone, che volete ricordare?
MEM: Quando siamo arrivati sul fronte di Afrin ogni unità ha preso postazione. Eravamo la mia unità e quella della base accanto alla nostra, avevamo preso le distanze di sicurezza a cui si ricorre in caso di attacco aereo – così anche se il bombardamento centra l’obiettivo non tutto il fronte viene spezzato. In un’unità c’ero io, nell’altra Hêlîn (Anna Campbell). Di queste due donne internazionaliste una, Hêlîn, è caduta nell’operazione di bombardamento (insieme ad altre due persone, un’altra invece è rimasta gravemente ferita).
Quando abbiamo raggiunto la linea c’erano ancora civili, eravamo unità giovani, quindi all’inizio eravamo stati utilizzati in una unità di difesa. Appena arrivati abbiamo iniziato a prendere contatto con il territorio, ci presentavamo ai civili rimasti – che poi erano quelli del villaggio precedente, costretti a ripiegare – e ricordo che una signora ha chiesto al comandante dell’unità di Hêlîn cosa avrebbe dovuto fare, se andare o restare. Lui [Serhildan, ndA] le rispose che fino a quando non c’era un comando esplicito che richiedesse l’evacuazione dei civili la scelta stava a loro, potevano restare dove preferivano, se li avrebbe fatti stare meglio. “È un momento difficile ed è importante che almeno ognuno sia a suo agio, se volete restare qui finché sarà permesso, non c’è problema. Può stare tranquilla perché questa terra la difenderemo. Piuttosto di darla al nemico noi ci moriamo”. E questa persona poi è caduta, su quel fronte.
Resta in mente vedere che cosa vale, quella parola. In quella parola c’era il sacrificio di tutti gli altri. E tutto questo costruisce una credibilità, una verità che non può essere negata. Quelle parole sono vere, ci sono undicimila caduti che le dicono. Che fino all’ultimo secondo hanno fatto questo, difeso la loro terra. E la frase che quella signora si è sentita dire era tutto quello che voleva sentirsi dire: era vero, e lo sapeva.
Uno dei problemi che viviamo qui, da noi, è che uno può dire una cosa e farne un’altra, è una pratica istituzionalizzata, nessuno pensa di doverne pagare le conseguenze. Lì, tra di noi, quello che viene detto viene fatto, dalla cosa più piccola a quella più tragica. Non è istinto di morte: è sapere che quella è la cosa giusta, e per quanto tu possa averne paura, è comunque la cosa giusta. E insieme si supera anche quella paura.