L a lega» è una famosa canzone popolare, socialista e padana, della fine dell’Ottocento, diventata presto appannaggio delle mondine. Inizia dicendo: «Sebben che siamo donne, paura non abbiamo». Poi c’è un verso che dice: «La libertà non viene perché non c’è l’unione / Crumiri col padrone, son tutti da ammazzar». Nei cortei della seconda ondata femminista in Italia, che la recuperano negli anni Settanta, questo verso diventa «i maschi col padrone». Perché questa modifica? Proprio nel momento in cui la lotta di classe era diventata un tema trasversale a tutta la società, le donne avevano scoperto che, come recitava un altro slogan di quegli anni: «Nella famiglia l’uomo è borghese, la donna proletaria». Era diventato fondamentale operare una frattura con il maschile, da un lato, e dall’altro unire il fronte delle donne, identificare due fronti, due lati della barricata, e farli coincidere con due poli (maschi contro femmine).
Ho passato tanto tempo a chiedermi se il discorso di genere potesse essere mutuato da quello di classe. Il discorso del conflitto di classe è semplicistico fino al parossismo. C’è una scena raccontata in I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed che riporto dalla trasposizione cinematografica di Bondarčuk del 1983. Sono appunto i giorni della Rivoluzione d’ottobre, un intellettuale è alla stazione e incontra dei bolscevichi che vengono dalle campagne. Uno di questi sta ribadendo un concetto chiave della guerra civile in corso: «Per me, ci sono solo due classi: il proletariato e la borghesia, non c’è altro». L’intellettuale lo accusa di «ripetere a pappagallo» degli slogan senza sapere cosa significhino. «Voi siete un uomo istruito», concede il bolscevico, «io sono una persona semplice, sì insomma sono uno che parla come mangia». L’intellettuale introduce vari argomenti più «complessi», come la democrazia russa e la presenza di un altro nemico, quello nazionale (i tedeschi), ma anche quello della sua autorevolezza di intellettuale: «Non hai mai sentito parlare di me?», chiede autenticamente stupito mentre l’altro fa spallucce girandosi con calma una sigaretta. Nonostante tutti questi distinguo e sottigliezze, il bolscevico è sicuro: «La cosa è chiara. Gliel’ho detto, sono ignorante. E allora il discorso si riduce a questo: che ci sono sempre due classi. Il proletariato, e la borghesia». Mentre parla, a essere inquadrato è il reporter, Reed, interpretato da Franco Nero, che ha assistito a tutta la scena, e che nel sentire la fermezza composta e irriducibile del bolscevico alza la testa dal taccuino e sorride ammirato. «Io divento pazzo se non cambi musica!», esplode invece l’intellettuale, che si alza il bavero ed esce di scena. La macchina da presa stringe sul bolscevico, che conclude, tra sé, lo sguardo rivolto al futuro più che all’interlocutore ormai lontano: «Ci sono solo due classi, e chi sceglie di stare con una, è nemico dell’altra». L’apparente semplificazione, spiega magistralmente questa scena, è stata necessaria per la rivoluzione, per includere potenzialmente tutti, a prescindere dalla loro istruzione e dal loro potere pregresso. Se guardiamo meglio a questo dialogo, però, troviamo delle complicazioni alla tesi molto semplice del bolscevico, complicazioni molto più radicali e insieme sottili di quelle fintamente sofisticate dell’intellettuale, che nel suo discorso sulla democrazia in realtà sta infilando il nazionalismo. «Tu credi davvero che Lenin sia amico del proletariato?», chiede provocatorio al bolscevico, e non ha neanche tutti i torti, perché Lenin è non solo un intellettuale e non certo un contadino, ma soprattutto, per origine, è un borghese, proprio come lo erano anche Marx e soprattutto Engels, figlio di un magnate dell’industria tessile e imprenditore a sua volta. Il bolscevico non si scompone: «Lenin dice delle cose che a me stanno bene, e a tutti quelli come me lo stesso».
Dalla radice, dalla causa della differenza di classe, si passa a quella della formazione di una classe in vista di un obiettivo che è la società senza classi: riportare l’umanità a uno stadio di uguaglianza che si indica come ideale, a uno stato che probabilmente non è mai esistito ma che è nell’interesse di tutti. Borghesia e proletariato sono due categorie puramente sociali. Sono costruite dalla storia, dall’uomo. Non è scritto in nessun codice genetico che uno nasca borghese o proletario. L’appartenenza di classe si fonda solo nella storia dell’uomo, sullo sfruttamento di una classe sull’altra. Eliminare questa differenza non vuole dire perdere qualcosa, perché questa differenza di classe non rappresenta un valore aggiunto, una diversità che arricchisce la nostra esperienza del mondo. Eliminarla significa piuttosto ripristinare una condizione di uguaglianza che si ipotizza come necessaria al dischiudersi della libertà autentica, intesa come un proliferare di differenze. Ho usato il verbo «ripristinare», ma non occorre ritrovare questa condizione in nessun passato mitico, basta pensarla in senso spaziale più che storico o cronologico: è l’utopia, un luogo più che un tempo. Dunque, proprio perché la differenza di classe è falsa da un punto di vista ontologico, ed è vera solo contingentemente, storicamente, occorre non prenderla sul serio, superarla già nel momento della lotta, porsi cioè come utopia realizzata per contrapporsi allo status quo che si vuole sovvertire.
Cosa dire dunque delle differenze di genere? Anche in questo caso si tratta di una differenza che non esiste sul piano ontologico. Nessuno nasce maschio o femmina. La maggior parte di noi nasce ovviamente con caratteristiche anatomiche maschili o femminili, ma è il nostro sistema socioculturale che legge come determinante questa differenza e ci incasella in queste due categorie, con tutto il corredo di prescrizioni di adesione a un ruolo sociale che ben conosciamo. In questo senso anche il genere, come la classe, è un falso ontologico, quindi far coincidere la polarizzazione del conflitto di classe e quella di genere ha avuto un senso strategico, nell’obiettivo di ottenere la dittatura del proletariato «privato» (la donna, proletaria nella famiglia come dicevamo). Ma questa dittatura del femminile era intesa come uno stadio intermedio in vista dell’abolizione del genere? A guardare la corrente maggioritaria e mainstream di oggi, sembrerebbe di no. Si rivendica una differenza che non si vuole eliminare, e la si va a fondare in quello che è l’esatto opposto della differenza, ovvero l’identità, reiterando quell’appartenenza al genere che De Beauvoir indica come una gabbia.
Poi c’è un altro problema: se, come dicevamo sopra, abolire le classi non implica nessuna perdita, si può dire lo stesso della differenza di genere? Sì e no. Eliminarne il portato sociale e prescrittivo è un progetto politico determinato e condivisibile, un obiettivo minimo. Tuttavia c’è un campo in cui la differenza di genere continuerebbe a ripresentarsi, anche nel caso si riuscisse finalmente a raggiungere questo obiettivo minimo, e quello è il sesso. Non certo perché la differenza (e in particolare il binarismo) sia naturale o ontologicamente fondata. Anzi, deve essere molto chiaro che parlare di differenza di genere non vuol dire parlare di femmine o maschi biologici. Il fatto è che quando si tratta di sesso, ci troviamo davanti a un primo conflitto tra soggetto e oggetto, due posizioni, due lati della barricata, che nella visione tradizionale abbiamo chiamato maschile e femminile pensando che fossero due principi ontologici. Invece non si tratta di due principi che esistono in natura, ma di due posizioni che vengono prodotte dal conflitto che si origina nel desiderio.
È questo quello che io chiamo desiderio: quell’esperienza che crea un conflitto, una cesura tra soggetto e oggetto. Questo rapporto tra soggetto e oggetto è un rapporto che esiste tra persone, tra persone e cose, e soprattutto all’interno delle persone stesse. È il rapporto che intercorre tra il sé e l’altro – laddove anche il sé è molto spesso un altro per noi. Il desiderio, anzi, è proprio quello che ci svela di non essere un tutto conchiuso, un individuo isolato. È quello che ci fa scoprire che ci sono delle cose che non dipendono da noi, che non possiamo decidere a priori. Cose che semplicemente ci accadono, proprio come ci accade di sentirci attratti da qualcuno, di desiderare qualcosa. Si può sperare che questo conflitto resti confinato esclusivamente all’ambito privato dell’esistenza umana? Sarebbe un obiettivo politico utile? O è piuttosto il fatto che questo conflitto esondi dal sessuale, e si riversi anche sulla società tutta, ad avere un valore politico?
Prima di provare a rispondere voglio specificare meglio la sovrapposizione maschile/soggetto e femminile/oggetto. Torniamo al video di Cynthia Nixon. […Nel momento in cui scrivo gira in rete un video della campagna elettorale [della] ex attrice di Sex and the City in lizza per diventare sindaco di New York, intitolato «Be a Lady, They Said» («Sii una signora, dicevano»). Mentre scorrono immagini femminili tratte da film, moda e attualità, Nixon recita un testo dell’attivista Camille Rainvillee che elenca i messaggi contraddittori che vengono di continuo rivolti alle donne, riassumibili principalmente in «sii sexy, ma non fare la troia» e «mangia, ma dimagrisci»…] Guardandolo ho riprovato la rabbia che provavo quando ero più giovane. Allora mi sentivo anch’io schiacciata da tutti questi diktat contraddittori. Questa volta quella rabbia ho cercato di scacciarla pensando: «D’accordo, alle donne viene detto fai questo e fai quello, ma a loro alla fine cosa gliene frega?» Non basterebbe insomma ignorare queste prescrizioni schizofreniche? Probabilmente sì, ma una donna lo vuole fare davvero? È questo il senso della sua emancipazione? Il punto è che il danno non sta tanto nella quantità di condizionamenti contraddittori che le donne ricevono nel corso della loro esistenza, quanto nel peso spropositato che questi condizionamenti assumono nello sviluppo della soggettività femminile. Il punto (e il problema) è che non è detto che il desiderio femminile sia quello di sbarazzarsene. I nostri desideri non nascono nel vuoto, sono frutto della società e delle relazioni in cui viviamo, per quanto possa sembrare paradossale leggerlo in un libro che si intitola Ripartire dal desiderio. Il desiderio però è precisamente quella cosa che lega la nostra soggettività al mondo fuori, da cui è condizionato (ed è per questo che allo stesso tempo può ribaltarne le sorti).
Se la soggettività si sviluppa a partire dal desiderio, il problema nasce col fatto che quella femminile si costituisce come oggettuale: il dramma, con queste istruzioni così confuse e opposte su come adeguarsi allo sguardo altrui, è che io, come donna, non voglio trasgredire, voglio conformarmi a queste regole perché voglio essere desiderata, ma non so come fare! Come posso corrispondere a tutte queste aspettative contraddittorie?
«Essere femmina è essere un oggetto», scrive Andrea Long Chu in Femmine, un libro in cui racconta come mai ha deciso di cambiare genere e diventare donna. Secondo Long Chu, da questa tautologia non segue però che si debba «dare per scontato che l’essere femmina sia una condizione riservata alle donne». La condizione di oggetto è quella di cui tutti, maschi e femmine, fanno esperienza quando desiderano qualcuno, perché desiderare è quella condizione in cui ci si autodetermina diventando passivi. E la passività genera quella vergogna, quell’umiliazione di cui parlavamo a proposito di Schiavo d’amore: la passività femminilizza. Il desiderio è imbarazzante, come disse a un mio amico la sua analista. E lo è perché è sempre il desiderio dell’altro. È una formula lacaniana citata spesso, e vale in entrambi i sensi del genitivo. Nel primo si intende che, quando desidero, desidero sempre qualcosa: il desiderio ha un oggetto, non è indiscriminato, voglio qualcosa e (dunque) non voglio qualcos’altro. Allo stesso tempo non voglio niente in particolare io come soggetto, voglio che il mio oggetto (l’oggetto del mio desiderio) si faccia soggetto e voglia me.
Questa dimensione oggettuale è il piano su cui si struttura l’identità femminile all’interno del sesso. Sull’altro piano, quello della società, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, il femminile si costituisce in base alla divisione del lavoro: gli uomini producono, le donne riproducono la forza lavoro. Ora, un marxista ortodosso (molto più rigido di quanto fosse Marx, che non era così schematico come lo si è letto a posteriori) direbbe che il piano reale è quello della società, dei rapporti materiali di produzione. Lacan invece direbbe che il Reale è proprio il contrario di quanto è dato (sia esso natura o cultura, o società): il piano del Reale è proprio quell’abisso di senso, quello che manca, la riserva di negatività che sta sotto, dietro… oltre, insomma, la realtà. Il residuo inaccessibile di insensatezza che viene prodotto insieme al senso. E al Reale si «accede» attraverso il godimento: quell’eccesso, quel surplus che slega la sessualità umana in senso ampio dalla mera riproduzione, dalla sua presunta naturalità.
Quando parliamo di questione di genere oggi dobbiamo provare a muoverci su tutti e due questi piani, quello della realtà materiale della società e quello del Reale del sesso, sapendo che non sono due piani distinti, che dovrebbero restare separati e a quel punto tutto andrà bene. Tenerli distinti, secondo quello che la femminista Rosemary Hennessy ha chiamato «percezione borghese», vorrebbe dire reiterare quella frammentazione della vita sociale in pubblico e privato su cui si sono retti la segregazione delle donne e il binarismo di genere. Bisogna invece provare a tenere insieme i due piani e andare a vedere come uno incide sull’altro. Capire come i condizionamenti sociali incidono sul sesso e come il sesso incide sulla società. Il primo di questi due movimenti gode di ottima salute in questi anni: il femminismo contemporaneo si sta occupando ampiamente di smascherare i condizionamenti sociali: finalmente si sta sdoganando la sessualità femminile, si stanno demistificando a colpi di divulgazione scientifica e pedagogica tanti «misteri» della sua fisiologia e decostruendo i pregiudizi sul suo diritto a essere riconosciuto. È la dinamica della «liberazione», del diritto (appunto) al piacere. Peccato che pensare al sesso come a un campo che necessita di essere sgombrato dai pregiudizi e i condizionamenti vuol dire pensare che sia possibile accedere a una condizione in cui i condizionamenti esterni non influiranno più sulla sfera privata delle soggettività, cioè in fondo pensare ancora che privato e politico siano due categorie distinte, mentre le cose sono più complesse di così, e questo presenta delle possibilità emancipative molto più radicali.
Il percorso inverso, quello che si propone di capire quanto il desiderio e il sesso possano incidere sulla società, sul mondo fuori, è un percorso molto meno battuto, perché se andiamo a vedere dove ci porta, scopriamo che ha delle conseguenze apparentemente rischiosissime e potenzialmente disastrose. Prendiamo il tema del consenso. «Safe, sane and consensual» è una formula mutuata dal mondo ipernormato del bdsm. Le pratiche sessuali del bondage o del sadomaso possono essere oggettivamente pericolose per la salute. Eppure per i tanti che le praticano sono anche molto piacevoli. Coerentemente con quest’epoca nella quale le proprie attività sessuali non vengono più vissute di nascosto con imbarazzo, segretezza e vergogna, bensì rivendicate (complice un capitalismo che vede in qualsiasi gusto e inclinazione individuale la possibilità di colonizzare e di espandere i mercati), le pratiche bdsm sono diventate glamour. Letteratura e film come Cinquanta sfumature di grigio sono diventati mainstream ed è sorto un dibattito sulla liceità di propagandare pratiche che sono in sé pericolose e che erotizzano umiliazione e sottomissione, molto spesso a spese delle donne. La risposta della comunità di amatori del genere nata su internet è stata quella di stabilire una serie di norme che sancissero una separazione molto precisa tra quello che succede fuori, nel mondo, nella società, e quello che succede dentro a quelle norme rassicuranti pattuite prima: safe word, contratti, comunicazione chiara per stipulare scientemente dei confini rigidi e così via. Quello che facciamo, dicono queste norme, lo facciamo solo qui, e lo facciamo in piena coscienza, per libera scelta, previo contratto siglato da tutte le parti in causa.
Riconoscere che il personale è politico, come ci ha insegnato il femminismo, invece, vuol dire ammettere che non è così, che quello che facciamo in camera da letto ha il potenziale di distruggere ogni nostra convinzione politica illuminata e ogni nostro dogma umanista, e viceversa che non c’è niente di quello che facciamo a letto che non ci siamo portati da fuori, dal mondo della società in cui veniamo al mondo e cresciamo.
È un rapporto analogo a quello che c’è tra soggetto (attivo) e oggetto (passivo). Si tende a pensare che questi due principi siano destinati a essere complementari ed equilibrarsi. Ma non è affatto così. Il sesso non è il luogo della conciliazione e dell’armonia, anzi: è quello che fa problema, è il luogo del conflitto, ed è per questo che quel conflitto, quella differenza, diventa una ricchezza, una possibilità. Nel suo libro Che cosa è il sesso, la psicoanalista Alenka Zupančič, scrive che «il vero femminismo è quello che ha posto la differenza sessuale come problema politico all’interno degli antagonismi sociali e delle lotte per l’emancipazione. Il femminismo non è nato dall’affermazione dell’alterità dell’identità femminile e dei suoi diritti», nel senso in cui si tratterebbe di riaffermare un ordine già dato, più o meno gerarchico. Non esiste cioè un femminile ontologico, astorico e immutabile, a cui si tratta di concedere lo spazio che si merita. Viceversa, commenta Giacomo Croci recensendo il libro sul Tascabile, «non si tratta neanche di dirci che ci sono molteplici identità di genere e sessuali, ciascuna a coltivare il suo giardinetto, con la pressante preoccupazione di non pestare il prato alle identità vicine». Secondo Zupančič, il momento politico del femminismo consiste nel «fatto che circa una metà degli esseri umani, che di solito chiamiamo “donne”, non esistevano dal punto di vista politico. È questa inesistenza e invisibilità politica, che ha avuto la funzione concreta di omogeneizzare lo spazio politico, che il femminismo ha trasformato in una separazione e in una rottura che riguarda tutti».Il femminismo quindi segna l’ingresso di un nuovo soggetto politico sulla scena che non può coincidere tout court con il femminile. Quello esisteva già: la storia aveva già prodotto questa semantizzazione binaria. Il femminismo è storicamente l’arrivo di un terzo soggetto che non è né il maschile né il femminile per come li intendevamo tradizionalmente. E questo terzo non è andato banalmente ad aggiungersi al binarismo, non ha creato un ordine, né una contiguità, bensì una differenza, una rottura che riarticola lo spazio sociale, e si fa quindi promessa di possibilità autenticamente rivoluzionarie. Per come lo intendo io, il femminismo è questa cosa che porta il sesso al centro del discorso, e per questo porta scompiglio.
Un estratto da Ripartire dal desiderio di Elisa Cuter (minimum fax, 2020).