

I l rullo compressore e il violino (1960), il mediometraggio che Andrej Tarkovskij portò come prova finale del corso di regia all’università, descrive l’eterna distanza fra le persone bambine e gli adulti. I due personaggi principali sono stati amici per un giorno, nonostante la differenza di età e di stile di vita, ma sarà un certo tipo di disincanto a frapporsi tra l’uno e l’altro, separandoli nell’ultima sequenza. La scena si svolge in una stanza assolata, dove un bambino di nome Saša si adopera in tutta fretta per mandare un messaggio al suo nuovo amico operaio Sergej. Sceglie un foglio rigato da pentagrammi puliti, poggiato sopra lo spartito con la partitura per violino sulla quale si era esercitato per un esame. Afferra una matita rossa e scrive “Non è colpa mia. Mia madre non mi lascia venire. Saša”. Piega il foglio a metà e porta i due lembi superiori verso il centro, formando una punta. Ora, fra le mani ha un aeroplano di carta. Si affaccia dal balcone, tentando invano di attirare l’attenzione di Sergej, in sua attesa nel cortile del palazzo. Subito dopo, lancia l’aeroplanino, che fluttua verso il basso, seguendo una diagonale quasi perfetta, diretta verso l’angolo in basso a destra dell’inquadratura.
Nell’istante esatto in cui il messaggio del bambino prende il volo, l’operaio rinuncia ad aspettarlo, volta le spalle e imbocca l’uscita buia della corte. Quando l’aeroplanino tocca terra, Sergej è ormai rassegnato: dopo una giornata trascorsa sul rullo compressore, si è fatto convinto che il suo giovane amico non abbia voluto mantenere la promessa di andare al cinema insieme a lui. Invece Saša è inerme, obbligato a rispettare un’altra promessa, ovvero quella di accogliere ospiti che si aspettano di trovarlo pulito e in ordine nel salotto dell’appartamento dove abita.
Il divario tra infanzia ed età adulta si manifesta sin dall’inizio del film, quando Saša interpreta le parti di violino e la sua insegnante tira fuori il metronomo; l’asticella che sbatte indefessa e il suo ticchettio costringono l’entusiasmo del bambino alla grammatica musicale. Riuscirà a liberarsi dalle grinfie asfittiche dell’educazione e dal cinismo degli adulti solo per un momento, esibendosi per Sergej. Alcuni degli aspetti più atroci innescati dallo scarto esistenziale dell’essere fanciulli in un mondo di adulti, sono ripresi da Tarkovskij nel suo successivo primo lungometraggio, L’infanzia di Ivan (1962). Un’altra prospettiva sulla differente natura delle bambine e dei bambini si manifesta in Stalker (1979) attraverso l’osservazione di ciò che si considera desiderio, quando il protagonista recita una preghiera. Essere duttili e indifesi come quando si nasce, secondo la poetica dell’autore, è sintomo di potenza: “Rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza. Ciò che si è irrigidito non vincerà”.
Il desiderio in Tarkovskij si configura con le tinte oniriche di un’ascesi nostalgica e inquieta verso un luogo dove non si è mai stati. Un movimento di apertura continua che nei bambini e nelle bambine si manifesta con più evidenza rispetto agli adulti.
Del desiderio e del suo movimento ascensionale, Emmanuel Lévinas descrisse con termini che sfiorano la teologia, una tensione verso l’assolutamente altro da sé. Per il filosofo, quando si parla di desiderio non si contempla la sfera dei bisogni, delle passioni o del godimento, bensì quella dell’aspirazione verso il bene metafisico, verso ciò che spinge l’umano, con disinteresse, a incontrare il volto dell’altro, senza che questo si conceda mai del tutto per essere compreso. Se il bisogno deriva da un’assenza che il soggetto può colmare, al contrario il desiderio nasce a partire dal suo oggetto, dal desiderabile. Pertanto, è mancanza che non può essere soddisfatta perché tende verso l’assoluto.
In Totalità e infinito: saggio sull’esteriorità (1961), il filosofo francese definisce la fenomenologia del desiderio come tensione infinitamente irrisolta verso l’altro, inteso come il confine tra esperienza e trascendenza. La sua ipotesi è che, seppur l’essere umano, come ogni altro essere vivente, è definito da bisogni, è anche capace di relazionarsi all’altro da sé non solamente per possederlo e sfruttarlo, ma è mosso anche da un’apertura senza ritorno, da un desiderio che non è un bisogno.
Se, a partire da Lévinas, ci si spinge al di là della teologia, si può presumere che il desiderio abbia a che fare con l’etica. Allora, ci si potrebbe chiedere cosa comporti stare nella contraddizione di chi crede di desiderare ciò che è bene per sé assecondando valori conformi al neoliberismo, nonostante le condizioni per adeguarvisi siano debilitanti. La prospettiva di uno stile di vita validato dalla società, ovvero il desiderio di normatività, presuppone il sottostare all’obbligo di un’opprimente scalata sociale, ripida e impervia, che risulta di ostacolo al soddisfacimento del desiderio stesso. In Ottimismo crudele (2024, ed. or. 2011), Lauren Berlant definiva la causa di questa propensione alla “good life”, come l’ottimismo crudele dal quale, nella società dei consumi, sono orientati sia i bisogni, sia i desideri.
Se il bisogno deriva da un’assenza che il soggetto può colmare, al contrario il desiderio nasce a partire dal suo oggetto, dal desiderabile. Pertanto, è mancanza che non può essere soddisfatta perché tende verso l’assoluto.
I confini di questa fantasia sono quelli della staccionata che separa il giardino di casa dai vicini. Nel primo capitolo del saggio, Berlant li descrive a partire da una poesia di John Ashbery, “sogno borghese in rima”, riflettendo su come
vediamo i nostri vicini quando vogliamo vederli, quando sbrighiamo faccende all’aperto, o magari al ristorante, e in ogni caso il piacere da loro provocato deriva da una relativa distanza, dal loro essere paralleli, e non interni alla proprietà, che è suddivisa in zone “comunali”, del narratore, che vi accumula e gode i suoi svaghi agiati, come in una vigna in campagna, dove le intrusioni dei vicini curiosi, o del Super-io, interromperebbero la proiezione di felicità che si spande a partire dall’impero del giardino sul retro.
La condizione di possibilità per il sogno americano e la relazione di ottimismo crudele con ciò che promette possono essere ricondotte anche alla ripetizione ossessiva di un presente continuo, che Max Horkheimer e Theodor W. Adorno rintracciarono perfino nel jazz. In Dialettica dell’illuminismo (1947) definiscono questo genere musicale come espressione e sintomo della “vita nel tardo capitalismo”, cadenzata da “un rito di iniziazione permanente” per il quale “Ognuno deve mostrare che si identifica senza riserve col potere che lo batte. Ognuno può essere come la società onnipotente, ognuno può diventare felice, purché sia disposto a concedersi corpo e anima e a rassegnare la sua pretesa alla felicità”.
Rispetto all’interpretazione di Lévinas sul desiderio, comparandola alla lettura di Horkheimer e Adorno sull’identificazione col potere, è possibile dedurre che il capitalismo funzioni perché ricalca la dinamica ritualizzata dell’ascensione, tendente all’infinito, propria della fede nelle religioni abramitiche. Al contempo, pur presupponendo il sacrificio e l’accettazione, elimina ogni legame con l’etica o con la dimensione contemplativa del sacro, lasciando che la promessa di un’ascesi verso una vita migliore governi ogni ambito dell’esistenza, dettando il ritmo delle giornate. Così, nel mondo contemporaneo il desiderio di normatività resta attraente anche se, per il soggetto, le condizioni di vita ordinaria sono logoranti. Non si tratta di utopia, ma di promettere una vita migliore a seguito di una di penitenze.
Tornando a Berlant, per l’autrice la volontà di adeguarsi al modello di normatività, incoraggiata dalla società neoliberista, è alimentata dal sistema egemonico su più fronti. Uno di questi è la messa a punto di “tecnologie della pazienza”, ideate per indirizzare il propendere al futuro con ottimismo e, allo stesso tempo, per sospendere il giudizio sulla crudeltà del presente. Il desiderio di conformità è rafforzato anche dalla stigmatizzazione di ogni tentativo di lateral agency, intesa come la volontà di abbrutimento, lo scivolare nella morte lenta, in opposizione all’agentività sovrana del soggetto neoliberista, che costruisce ed estende l’io con intenzionalità propulsiva. Di contro, l’azione laterale interrompe il ritmo della produzione capitalistica e sospende il movimento in avanti dell’io. L’agentività laterale è quindi, sia una forma di ciò che Berlant chiama “morte lenta”, sia un modo per sopravvivere alle incessanti richieste del lavoro professionale, domestico e affettivo.
Il desiderio di conformità è rafforzato anche dalla stigmatizzazione di ogni tentativo di lateral agency, intesa come la volontà di abbrutimento, lo scivolare nella morte lenta, in opposizione all’agentività sovrana del soggetto neoliberista.
Il paradosso dell’ottimismo crudele sta nel fatto che perfino la fantasia assume forme conservative: immaginare alternative di vita migliore a quella stabilita dal sistema egemonico risulta ancora più complesso per chi, dallo stesso sistema, è oppresso. Complementariamente, per gli emarginati l’unico capitale che è possibile trasmettere con certezza alle nuove generazioni è la fantasia, il sogno americano o il desiderio di una vita normale. In uno dei capitoli cruciali del saggio, Berlant osserva il manifestarsi di tali dissonanze sotto la lente di due film di Jean-Pierre e Luc Dardenne: Rosetta (1999) e La promesse (1996). Al centro di entrambi i lavori, la filosofa individua il contrasto fra il mondo degenerato degli adulti e il tentativo degli adolescenti di uscire dal destino occludente del ceto popolare, rimosso dalle istituzioni e dalle narrazioni neoliberiste.
Rosetta è la protagonista dell’omonimo film. Vive insieme alla madre in una roulotte, al di là della strada che separa la città belga di Liegi dal campeggio Grand Canyon. Ogni volta che, intrufolandosi, forza la recinzione, dopo aver attraversato il boschetto umido, ripete sempre gli stessi identici gesti sia prima, sia dopo aver dovuto attraversare il confine asfaltato. L’unica parvenza di quotidianità è data dal ripetere schemi collaudati per sopravvivere ai margini dei sogni degli altri. Agisce in allerta, nasconde le scarpe buone, il suo lasciapassare per arrivare nell’altro mondo possibile. Al privilegio dell’ordinarietà, è costretta ad arrivarci attraverso una serie di gesti ripetitivi, ma non routinari: togliere i gambali di plastica e indossare gli stivaletti stringati o viceversa; pescare lungo il fiume con una trappola ricavata da una bottiglia e nascondere le trappola sotto terra; non dare mai confidenza a nessuno e cercare continuamente lavoro. Scalpita nel tentativo di mettersi in salvo senza concedersi alcun sogno se non quello di vivere un’esistenza normale, dove i giorni si ripetono sempre uguali.
Nell’immaginario di un adolescente ai margini, la riproduzione del desiderio diviene espressione di una volontà collettiva, incarnata da un soggetto solitario, intenzionato a ottenere la buona vita promessa dalla cultura capitalista. Andando in questa direzione, Berlant sostiene: “È come se i bambini, non conoscendo nulla tranne questo indice di felicità proiettata, siano spinti a ripetere l’attaccamento alle stesse forme il cui fallimento nel garantire le dignità di base dell’esistenza ordinaria è centrale per la riproduzione della difficoltà delle loro singole storie e dei disagi vissuti sul fondo della società classista”.
Rosetta non conosce reciprocità: ogni forma di intimità le è preclusa. I fratelli Dardenne, alla stregua di un western o in un film di guerra, spesso inquadrano la ragazza di spalle. L’incontro con l’altro avviene prevalentemente in scontri corpo a corpo, come quando viene licenziata nella sequenza iniziale, cadenzata da porte che si sbattono. Sono colluttazioni accese dall’impossibilità di accettare alcun rifiuto da parte della società neoliberista in crisi, opponendosi con violenza alla realtà alla quale è predestinata. Aggredisce e ripudia il corpo corrotto della madre, in ogni scena dedicata alla narrazione del loro rapporto. Perfino quando le viene proposto un nuovo lavoro, respinge per istinto la visita del collega Riquet, azzuffandosi con l’unico personaggio che tenta di esserle d’aiuto, prima ancora di dargli ascolto.
L’amicizia con il suo collega apre a Rosetta la possibilità di relazionarsi con l’altro in uno scambio reciproco di affetto e di cura. A casa di Riquet, riconosce e sigilla il momento in cui può tirare fiato, pensando di aver trovato un posto dove restare per riposarsi e prega, fra sé e sé, prima di chiudere gli occhi: “Tu ti chiami Rosetta, io mi chiamo Rosetta. Tu hai trovato un lavoro, io ho trovato un lavoro. Tu hai trovato un amico, io ho trovato un amico. Tu hai una vita normale, io ho una vita normale. Tu non finirai in un buco nero nero, io non finirò in un buco nero. Buonanotte. Buonanotte”. La relazione con Riquet insegna a Rosetta cosa significhi quotidianità, ma per proteggere ciò che ha appena conquistato a fatica, mette in pratica quello che ha imparato dal mondo degli adulti e tradisce il suo unico amico.
Il paradosso dell’ottimismo crudele sta nel fatto che perfino la fantasia assume forme conservative: immaginare alternative di vita migliore a quella stabilita dal sistema egemonico risulta ancora più complesso per chi, dallo stesso sistema, è oppresso.
Nella speranza di ottenere una buona vita, una vita normale, la ragazza adotta una postura moralmente rigida, incorruttibile nemmeno davanti ai crampi della fame. Rifiuta di mangiare il cibo che sua madre è riuscita a procurare in cambio di prestazioni sessuali; vuole un posto nella società regolamentata da un’economia riconosciuta come lecita. Non accetta la sua condizione di marginalità, né le scappatoie per uscirne. Piuttosto, preferirebbe morire. Andando in senso contrario, nello sviluppo drammaturgico del protagonista in La promesse, Igor passa dall’essere complice senza scrupoli delle atrocità commesse dal padre, al dare ascolto alla sua capacità di provare empatia, fino ad avvertire il peso della slealtà e della difficoltà di agire nel rispetto di ciò che è giusto piuttosto che di ciò che conviene.
Per il ragazzo, seguire la condotta morale che sente di dover applicare, significa opporsi radicalmente all’educazione paterna e alle sue regole. L’occasione per redimersi gli viene offerta da Hamidou. L’uomo è un immigrato clandestino che lavora per Roger. Poco prima di morire fra i calcinacci del cantiere, in fin di vita chiede a Igor di promettergli che si prenderà cura di sua moglie e suo figlio. Da quel momento, mantenendo la promessa suggellata con il padre di un altro bambino, il ragazzo tradirà il suo. Igor onora l’impegno preso un poco alla volta, accettando compromessi sempre più complessi e intricati, fino alla rottura di un vero e proprio sigillo. Quando al compro-oro una tronchese taglia in due il grande anello identico a quello di Roger, i soldi racimolati sono offerti da Igor alla moglie di Hamidou, la donna della quale suo padre si vuole liberare a tutti i costi.
Secondo Berlant, dai film dei fratelli Dardenne emerge come “il riconoscimento e la reciprocità possono assumere molte forme, alcune delle quali mimano l’uguaglianza sotto forma di collaborazione, altre producono contesti di fiducia nell’interdipendenza, altre sono forzate o strategiche, e tutte quante sono profondamente ambigue, compromesse e instabili”. In questo scenario, ciò che si considera reciprocità è opacizzato da altri significati, in ogni classe economica e a qualsiasi livello di socialità. Pertanto, in contrapposizione a un certo sguardo del femminismo accademico, la filosofa sostiene che nella società odierna “l’amore è solo leggermente meno contingente del lavoro”.
Oltre all’analisi delle condizioni di possibilità che rendono persistente il desiderio di normatività nelle soggettività più fragili, in Ottimismo crudele si dedica attenzione anche a La vita pischica del potere. Teorie del soggetto (2005, ed. or. 1997) e a Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza (2004), due testi in cui Judith Butler teorizza come le disuguaglianze sociali siano fortificate dalle contraddizioni dei legami di potere all’interno dei nuclei famigliari. In breve, Butler considera centrali le capacità empatiche del soggetto, come le forme di solidarietà, ma sostiene anche che l’esperienza di sovranità sia una reazione formativa: rispetto alle figure genitoriali, alla dipendenza infantile si reagisce desiderando di assoggettarsi a quella medesima forma di potere che in quel momento si subisce. Da qui si muove la critica di Berlant, ovvero dal presupposto che, tenendo insieme soggettività personale e politica, Butler “equipara la dipendenza infantile agli attaccamenti normativi” e gli attaccamenti normativi a potere e privilegio. La fase della dipendenza infantile agli attaccamenti normativi, dovrebbe giustificare l’attaccamento al sistema di potere, fondato sul dominio.
Butler considera centrali le capacità empatiche del soggetto, come le forme di solidarietà, ma sostiene anche che l’esperienza di sovranità sia una reazione formativa.
Anche l’impossibilità di fermarsi a riflettere ha un ruolo nella reiterazione del desiderio di normatività e di conformità alla società dei consumi. Nell’accezione di Walter Benjamin, dopo la rivoluzione industriale, ovvero dal superamento della “prima tecnica” nella “seconda tecnica”, l’essere umano si emancipa del tutto dalla natura, producendone storicamente un’altra, una seconda natura. Di conseguenza, la seconda tecnica ha come paradigma l’autonomia, o meglio l’automa, ciò che ha in sé il principio del suo movimento, la sua causa e il suo scopo. Ripetitività e riproducibilità sono i processi che caratterizzano la produttività della seconda tecnica nell’era del capitale, in grado di superare la casualità del divenire in una artificiosa necessità, prevedibile e calcolabile. Qui risiede il pericolo distruttivo della seconda tecnica, in un mondo regolato dalla logica del profitto. Il suo procedere per automatismo è ben diverso da quello propriamente casuale della natura.
Rispetto alla volontà di raggiungere l’oggetto del desiderio, cioè di invertire a proprio favore la relazione di subalternità, l’amore ai tempi del tardo capitalismo è contingente, accidentale e non necessario, quasi quanto il lavoro.