N on credo e non voglio che i giochi siano fatti.” Questa frase, che ritroviamo nel volume La rivoluzione democratica, racchiude il pensiero di Cornelius Castoriadis. Per giochi si intende l’attività politica, cioè l’attività collettiva e individuale di organizzazione e riorganizzazione della realtà sociale e materiale. Per Castoriadis, essere un individuo socializzato, cioè qualcuno che può agire in un mondo sociale e materiale, presuppone che questo mondo, per quanto regolato, possa sempre essere cambiato. Cioè: non posso che credere e volere che i giochi non siano fatti, altrimenti non c’è niente da credere e da volere.
C’è un profondo ottimismo in questo pensiero, quello che forse Ernst Bloch chiamerebbe “ottimismo militante.” Ottimismo che non riposa però sugli allori dell’ingenuità, ma su quello che, secondo Castoriadis, viene praticato dagli esseri umani sotto il nome di democrazia – pratica che sarebbe essenzialmente rivoluzionaria. Castoriadis sostiene che una pratica e un pensiero che si muovono al di qua o al di là della soglia rivoluzionaria non sono democratici, e che le istituzioni democratiche si lasciano valutare solo dal punto di vista della rivoluzione. La tesi è accattivante e controversa. Andiamo per gradi.
La carriera di Castoriadis è piuttosto eterodossa: non solo filosofo, ma anche economista per l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e psicoanalista, prima nella scuola fondata da Jacques Lacan e poi più critico rispetto all’impostazione lacaniana. I tre elementi ricorrono nei suoi scritti, come emerge chiaramente in La rivoluzione democratica. Il volume è stato appena ripubblicato, dopo due decenni, per i tipi di elèuthera (curatela e nuova introduzione di Fabio Ciaramelli, traduzione di Grazia Regoli). Contiene sette contributi, sia testi isolati che sezioni di opere più ampie, tutti apparsi fra la fine degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta.
Per inquadrare al meglio il contenuto del volume, premetto che Castoriadis è un pensatore profondamente sistematico. Questo significa che il suo pensiero si sviluppa con un forte senso della sua organizzazione d’insieme – non senza un certo gusto inattuale, in anni in cui la produzione filosofica tende al frammentario, sia postmoderno che analitico, al limite dell’idiosincrasia specialistica di vocabolari, vezzi, esperimenti mentali e indovinelli. Castoriadis costruisce un approccio unitario in cui diversi campi – teoria della mente e delle istituzioni, filosofia politica, teoria economica, filosofia della storia, critica al sistema e alla teoria della produzione capitalistica – si rapportano gli uni agli altri in un’architettura organizzata. La rivoluzione democratica ha così il pregio di offrire sezioni ben ragionate di un pensiero sistematico.
Castoriadis sostiene che una pratica e un pensiero che non siano rivoluzionari non sono democratici, e che le istituzioni democratiche si lasciano valutare solo dal punto di vista della rivoluzione.
Apparentemente c’è però un contrasto fra l’intenzione filosofica di Castoriadis e il modo, sistematico appunto, in cui la affronta. Come nota Ciaramelli nell’introduzione (“Castoriadis e le potenzialità della democrazia”), il nucleo fondamentale dell’opera di Castoriadis è “l’idea di creazione storica”, intesa come “tratto specifico dell’agire umano: il suo strutturale poter-essere-altrimenti”. Come è possibile sostenere, allo stesso tempo: svilupperò un sistema, un ordine di concetti e darò ragione della capacità degli individui umani di poter sempre agire altrimenti rispetto a ogni ordine o sistema costituito? La pretesa è curiosa e, per renderle giustizia, il testo di Castoriadis si articola tutto intorno a tre termini: la mente umana, le istituzioni umane e la storia.
La mente e l’anti-determinismo sociale
Iniziamo dal primo, la mente umana. Scrive Castoriadis: “La soggettività, come istanza riflessiva e deliberante (come pensiero e volontà), è progetto storico-sociale”. Detto in altri termini: la mente umana non è una cosa che funziona occupandosi fra sé e sé di impressioni, percezioni, affetti, concetti, fini delle proprie azioni, principî logici o etici. Riflette, certamente, cioè si pone dei problemi, si fa delle domande, si chiede come meglio agire. Però questa capacità di riflessione e deliberazione non sussiste, né tantomeno si può realizzare, senza che vi sia una dimensione sociale o istituzionale. Questo significa per Castoriadis essenzialmente due cose: la mente umana è una cosa che si fa e che si diventa; e la mente umana è una cosa che si fa e si diventa sempre e solo in un mondo materiale, sociale, storicamente e geograficamente determinato.
C’è un’idea di Heidegger che a me è sempre apparsa molto chiara ed esprime un pensiero simile: un calzolaio non è identico a una scarpa, non è la stessa cosa di una scarpa, ma riflette, decide, si muove nel mondo a partire da una scarpa. Similmente, Castoriadis pensa che la psiche umana non è un insieme innato di facoltà mentali, né qualcosa che accade nelle sinapsi e nei cervelli. Al contrario, essa si sviluppa e si realizza sempre in rapporto a e tramite riti e costumi sociali, leggi, istituzioni, pratiche e linguaggi cui una determinata comunità di individui ha imparato a rispondere, che una determinata comunità sanziona come corrette o scorrette e che tramanda tramite l’insegnamento o l’imposizione. La psiche umana è una cosa che si fa, a essere umani si impara e si insegna in un mondo sociale condiviso.
A questo punto, Castoriadis – ma chiunque – non può che confrontarsi con un problema. Cioè: stiamo forse sostenendo che non si può essere individui umani in un modo diverso da come la comunità cui si appartiene stabilisce e riconosce? Detto altrimenti: se ho imparato a essere un individuo umano, diciamo, esprimendo le mie opinioni in una struttura di soggetto e predicato, usando le forchette da pesce, vendendo la mia attività come lavoro salariale, dicendo grazie, prego, buongiorno e buonasera, espropriando plusvalore, essendo prete o schiavo, allora la mia psiche non potrà mai comportarsi altrimenti, comprendersi altrimenti, volere e desiderare altrimenti? Per ovviare a questo problema, Castoriadis introduce l’ipotesi che la psiche umana è sì, per un verso, regolamentata socialmente, e si realizza solo in questa regolamentazione; ma che, per l’altro, è caratterizzata anche da un aspetto idiosincratico, individuale e resistente a ogni regolamentazione. Scrive: “l’essere proprio e irriducibile della psiche singola si manifesta sempre: come sogno, malattia ‘psichica’, trasgressione, contestazione e querulomania, ma anche come contributo singolo, nelle società tradizionali raramente attribuibile, alla lentissima alterazione dei modi sociali del fare e del rappresentare”. .
Come è possibile sviluppare un sistema e allo stesso tempo dare ragione della capacità degli individui umani di poter sempre agire altrimenti rispetto a ogni sistema costituito?
L’idea si può formulare con chiarezza da un punto di vista negativo. Ammettiamo di avere a disposizione una conoscenza capillare su tutto ciò che una comunità umana prescrive, tramite leggi, costumi, consuetudini, riti, linguaggi, eccetera. Pur possedendo questa conoscenza, non sarebbe possibile dedurre da questa conoscenza il comportamento o il contenuto di una psiche individuale, secondo Castoriadis, e questa impossibilità si fonda su alcune proprietà intrinseche della psiche.
L’individuo umano, insomma, se non vogliamo pensarlo come una roccia che cade per via dell’immutabile gravità, o come un organismo che agisce esclusivamente secondo predisposizioni istintuali, dispone sempre della capacità di agire altrimenti da come la sua comunità prescrive. Si potrebbe anche ragionare, sottolineo, in senso inverso: le istituzioni e norme umane sono tali, e non leggi naturali, perché regolano il comportamento di individui presupponendone la capacità di agire altrimenti, cioè attribuendo loro la capacità e la responsabilità di scegliere e agire diversamente da come è prescritto (ragione per cui il diritto penale non è un compendio di fisica meccanica).
Le istituzioni e le norme modificabili
Passiamo ora al secondo punto, cioè le istituzioni. In questa costellazione concettuale – una psiche umana sempre capace di idiosincrasia, ma che sussiste solo nelle istituzioni di una comunità – si apre a questo punto un bivio fondamentale, che Castoriadis indica con il binomio eteronomia/autonomia. Abbiamo detto: un individuo umano è sempre capace di agire altrimenti da come le norme della sua comunità prescrivono. Tuttavia, si tratta di stabilire se il mio agire, le mie opinioni, le mie pretese e i miei desideri, possano avere un effetto non solo sul mio comportamento, ma anche sulle norme e le leggi che organizzano la comunità in cui vivo.
Le società eteronome, secondo Castoriadis, sono quelle società in cui la fonte delle istituzioni e norme sociali è esterna alla società stessa e che, perciò, non riconosce agli individui la capacità autoriale di cambiare le norme cui sono sottomessi. Nelle società autonome è vero l’opposto, l’autorialità delle norme collettive è interna alla collettività che esse regolano. Le società autonome sono quelle società che istituiscono delle procedure tramite le quali gli individui che si obbligano a determinate norme possiedono anche la capacità di modificare le norme cui rispondono. Per esempio: una partita a scacchi non è un affare democratico, perché non posso, giocando a scacchi, modificare le regole che seguo giocando. Una democrazia è tale, al contrario, quando permette agli individui che rispondono alle sue norme anche di modificarle.
Una democrazia è tale quando permette agli individui che rispondono alle sue norme anche di modificarle.
Questo concetto – la modificabilità e capacità di modificare le norme del mondo condiviso cui ci si sottomette – è fondamentale. Ed è fondamentale non solo per l’agire e la psiche individuale così come per le istituzioni pubbliche e collettive. Per Castoriadis, si tratta piuttosto di identificare più in generale una caratteristica determinante del pensiero razionale, cioè della capacità umana di stabilire ciò che è vero e ciò che è falso e di incidere, così, sul sapere condiviso. Se sostengo che la terra gira intorno al sole contrariamente a un’opinione diffusa, la mia pretesa è quella di modificare l’opinione diffusa, cioè ritenuta vera, secondo cui il sole girerebbe intorno alla terra.
È allora in questo punto – la modificazione e trasformazione di sapere e norme condivise – che pratica filosofica, istituzione democratica e agire politico convergerebbero, sotto la stella dell’autonomia o della libertà sociale. Scrive Castoriadis: Il germe dell’autonomia spunta non appena sboccia l’interrogazione esplicita e illimitata […]. Momento di creazione, che inaugura sia un nuovo tipo di società che un nuovo tipo di individui. Parlo proprio di
germe, perché l’autonomia, sociale come individuale, è un progetto. Il sorgere dell’interrogazione illimitata crea un eidos storico nuovo: la riflessività nel senso pieno, o autoriflessività, e l’individuo che la incarna e le istituzioni in cui essa si stipula. Sul piano sociale ci si chiede: le nostre leggi sono buone? Sono giuste? Quali leggi dobbiamo fare? E sul piano individuale: ciò che penso è vero? Posso sapere se è vero? E come? […] Il momento della nascita della democrazia, e della politica, non è il regno della legge o del diritto, né quello dei ‘diritti dell’uomo’, e neanche dell’uguaglianza dei cittadini in quanto tale, ma è l’emergere della messa in discussione della legge nel fare effettivo della collettività.E ancora: “Posso dire che stabilisco la mia legge, quando vivo necessariamente sotto la legge della società? Sì, in un unico caso: se posso dire, riflessivamente e lucidamente, che questa legge è anche la mia”.
Vorrei che si capisse, al netto di questi passaggi, un’idea fondamentale di Castoriadis, che credo di importanza capitale. Pensiamo a tutti i dibattiti degli ultimi anni – sia giornalistici che, purtroppo, specialistici – in merito alla verità scientifica, al fact checking, al debunking, alla legittimità di parola nello spazio pubblico, che hanno spesso opposto sapere esperto, vero e razionale (in quanto accede alla razionalità dei fatti), all’irrazionalità della massa che alla realtà dei fatti non sa arrivare. Pseudo argomenti che hanno spesso preso forme antidemocratiche: addirittura si è sentito dire che la scienza non sarebbe democratica. Castoriadis ha su queste discussioni una posizione decisa: la razionalità del sapere non è un affare di cronaca, di sapere cosa realmente accade. È un affare di giustificazione collettiva, di capacità di incidere autorialmente sul sapere condiviso, in una comunità che accetti o riconosca tale incisione e che abbia, possibilmente, protocolli e istituzioni per farlo. Detto altrimenti, l’interrogazione scientifica e razionale del sapere prestabilito o delle credenze ha immediatamente a che fare con la pretesa dei propri concetti e delle proprie asserzioni di cambiare le regole di validità e correttezza di una comunità umana determinata. Questo non è in opposizione, ma è analogo a ciò che accade nella pratica politica e nelle istituzioni democratiche.
La capacità individuale di poter asserire qualcosa di vero e di fare qualcosa di giusto va di pari passo con la capacità di una comunità di rivedere le proprie norme su ciò che vale come vero e giusto. O detto ancora altrimenti e in un senso più ampio: la razionalità umana, nella sua capacità di interrogarsi su ciò che è giusto e ingiusto, vero e falso, non si rapporta per caso e contingenza alla democrazia, alla politica e all’autonomia, cioè all’organizzazione collettiva della vita sociale, ma essenzialmente. Una comunità umana che non si permette, cioè che non permette agli individui che la abitano e che essa norma, di rivedere le proprie norme è profondamente antirazionale. Mente umana e pratica democratica si presuppongono a vicenda sotto la cifra della autotrasformazione di una società.
Una comunità umana che non si permette di rivedere le proprie norme è profondamente antirazionale.
La storia e la trasformazione del mondo
Passo così al terzo e ultimo cardine cui accennavo prima, cioè alla storia. La storia è il campo in cui il pensiero di Castoriadis si fa più succoso e il testo si fa più divertente. Le bordate (peraltro condivisibili) non si contano: Chomsky diventa un pensatore con “una metafisica della storia greve e primitiva”, Rawls sarebbe accecato dal suo “provincialismo storico” e Hayek sarebbe “un hegeliano della specie più volgare”.
La storia non può che essere, a questo punto, il campo in cui mente umana, istituzione democratica e pratica politica della trasformazione di un mondo si realizzano. Per Castoriadis non c’è una misura extra-storica di quello che è giusto, vero o buono. E questo non perché l’essere umano sia misura di ciò che è giusto, vero o buono. Quanto piuttosto perché chiedersi: cosa è vero, cosa è giusto, cosa è buono?, ha senso solo se ciò che proponiamo come giusto, vero e buono ha valore e può determinare una prassi umana collettiva, un sapere umano collettivo. Fuori dalla trasformazione storica non c’è niente che ci interessi, perché è nella trasformazione storica che ciò che ci può interessare si articola.
Ora, per avvicinare la questione della storia riflettiamo sul criterio che Castoriadis ci offre per stabilire cos’è il progetto della libertà, o dell’autonomia sociale umana. Una società storica è libera e democratica se e solo se sa trasformarsi e lasciarsi informare dalle pretese di cambiamento che gli individui che la abitano articolano, propongono, propugnano. A tirare insieme i fili della riflessione di Castoriadis arriviamo così al teorema cui avevo accennato all’inizio, così come alla massima pratica che lo accompagna. La razionalità umana si realizza storicamente come pratica rivoluzionaria, cioè come quell’azione collettiva capace di cambiare il mondo e le regole in cui vive (o, detto altrimenti e con Marx, di abolire lo stato di cose presente). Una razionalità che non è all’altezza della rivoluzione è una contraddizione in termini, una democrazia che non è all’altezza della rivoluzione è una contraddizione in termini, una storia che non è all’altezza della rivoluzione è preistorica.
Di primo acchito potrebbe sembrare che Castoriadis si impegni in una sorta di elogio sperticato della democrazia, per come essa è praticata e realizzata in Europa e nell’occidente globalizzato. Come a dire: votiamo democraticamente, dunque facciamo pratica rivoluzionaria – e andiamocene a casa con una certa soddisfazione. In realtà, il testo procede nel senso opposto: non misura la rivoluzione storica e sociale sulle democrazie del nostro mondo, ma misura (e impietosamente) società e democrazie attuali sulla loro capacità rivoluzionaria. In effetti, il giudizio di Castoriadis sulle democrazie occidentali neoliberali e sul sistema di produzione post-fordista o tardo-capitalistico che esse sostengono e che le parassita è perentorio.
Non c’è una misura extra-storica di quello che è giusto, vero o buono.
Castoriadis scrive, parliamo del 1990: “Può essere utile ricordare che, già da quattro o cinque anni, con l’evoluzione dell’America latina, ma soprattutto con il crollo del comunismo nell’Est europeo dopo l’autunno 1989, non solo i giornalisti ma anche alcuni autori attendibili hanno cominciato a parlare del trionfo della democrazia, della marcia irresistibile della democrazia sul pianeta, e di altre banalità dello stesso stampo. Quale democrazia?”, si chiede il pensatore. La risposta è chiara: nessuna democrazia che sia all’altezza della sua prassi e del suo concetto, cioè a una “uguale possibilità per tutti, effettiva e non teorica, di partecipare al potere”. Al contrario, per Castoriadis, le democrazie neoliberali occidentali sono piuttosto “regimi di oligarchia liberale: oligarchia, perché un ceto determinato domina la società; liberale, perché tale ceto lascia ai cittadini un certo numero di libertà negative o difensive”).
È insomma alla prova della realizzazione storica del progetto democratico (e della razionalità umana) che le democrazie neoliberali e l’attuale sistema di produzione economica fanno acqua da tutte le parti: l’autonomia individuale, in parte salvaguardata, ha tuttavia nessuna o quasi nessuna incisività sull’organizzazione della vita collettiva. La vita collettiva è, al contrario, determinata dalla classe dominante, cioè dalla classe che possiede la stragrande maggioranza della ricchezza sulla terra, dei mezzi di produzione e dei mezzi di comunicazione – mentre la stragrande maggioranza della popolazione del pianeta arranca in lavori precari, affama, migra, viene crivellata. In poche parole, la stragrande maggioranza della popolazione del pianeta non partecipa da autrice alle leggi, norme, regole, consuetudini cui è più o meno violentemente sottomessa.
Da questo punto di vista, con Castoriadis, autonomia individuale e civile e autonomia collettiva e sociale (e corrispettivi diritti) non sono di necessità divergenti (e affermarne la divergenza per necessità è squallido cinismo e disfattismo a buon mercato), ma si devono informare e sostenere a vicenda, anche al netto di conflitti e contraddizioni da risolvere collettivamente. Assicurare previdenza e protezione sociali allora non è questione di pauperismo o paternalismo, ma va di pari passo con l’assicurare a ogni individuo umano la capacità di vivere in una comunità politica, cioè di partecipare e di poter modificare le leggi cui si sottomette. Redistribuzione della ricchezza, riduzione dell’orario di lavoro, giustizia economica sono necessarie anche per l’uguaglianza formale e per i diritti civili, perché un individuo è cittadino della propria comunità se e solo se è messo nelle condizioni materiali di poterla trasformare. Ed è difficile trasformare il nostro mondo se dobbiamo trascorrere le nostre giornate fra lavori sottopagati in modo offensivo e contratti precari.
Il panorama storico, per tornare al testo, che viene dipinto da Castoriadis e che è il nostro, non è roseo: lo sfruttamento e l’oppressione in cui viviamo, a oggi, sono diffusi e pervasivi e hanno i mezzi e le armi per dissimularsi. E tuttavia – e torno qui a all’ottimismo di cui scrivevo all’inizio – è fondamentale, per poter continuare ad agire da esseri umani o razionali, agire come se anche questo sistema oppressivo possa trapassare e impegnarsi affinché trapassi (nella speranza che lo faccia prima dell’ultimo individuo umano o razionale sulla terra). “Non credo e non voglio che i giochi siano fatti” – questa proposizione è essenziale all’essere individui umani o razionali perché, lasciata andare, ogni ombra di azione umana o razionale scompare.
Per Castoriadis, le democrazie neoliberali occidentali sono “regimi di oligarchia liberale”.
Come scrive Castoriadis in L’institution imaginaire de la société (1975):Ho il desiderio, e sento il bisogno, per vivere, di un’
altra società di quella che mi circonda […]. Desidero, ed esigo, che innanzitutto il mio lavoro abbia un senso, che io ne approvi i mezzi e il modo in cui è fatto, che mi ci possa dedicare e che mi permetta di usare le mie capacità per migliorare e svilupparmi. […] Non accetto che la mia sorte sia decisa, giorno dopo giorno, da individui i cui progetti mi sono ostili o semplicemente ignoti e per i quali non siamo, io come tutti gli altri, che numeri in una tabella o pedoni su una scacchiera e che, in ultima analisi, la mia vita e la mia morte siano fra le mani d’individui che so essere necessariamente ciechi. Desidero poter incontrare un’altra persona come uguale e assolutamente diversa da me […]. Desidero poterla vedere, e che mi possa vedere, come un altro essere umano, che i nostri rapporti non siano un luogo d’espressione dell’aggressività, che la nostra competizione resti nei limiti del gioco, che i nostri conflitti, nella misura in cui non possono essere risolti o superati, riguardino problemi e questioni reali […]. Desidero che gli altri siano liberi, perché la mia libertà comincia dove comincia la libertà degli altri e perché, da solo, posso al massimo essere virtuoso nella disgrazia […]. So naturalmente che questo desiderio non può essere realizzato oggi; e che, se pure la rivoluzione dovesse avvenire domani, non potrà essere realizzato integralmente nel corso della mia vita. So però che un giorno vivranno degli esseri umani per cui non esisterà più neanche il ricordo dei problemi che oggi ci angosciano […]. Avendo questo desiderio che è il mio, non posso che lavorare alla sua realizzazione. E già in questa scelta, che faccio, dell’interesse principale della mia vita; nel lavoro che vi dedico, per me pieno di significato (pure incontrando, e li accetto, fallimenti parziali, ritardi, deviazioni, compiti che in sé non hanno significato); nella partecipazione a una collettività di individui rivoluzionari che tenta di superare i rapporti reificati e alienati della società presente, sono in grado di realizzare in parte questo desiderio.