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T he Influencer è un reality sudcoreano trasmesso su Netflix dallo scorso agosto che mette le celebrity digitali l’una contro l’altra in un’incruenta battle royale per accaparrarsi il potere sui social media. Guardandolo, la mia attenzione è stata catturata da un’affermazione volta a giustificare tutto, anche i dislike, anche i commenti negativi, anche il fatto che non importa il come purché la visibilità si raggiunga, a ogni costo: “La cosa più spaventosa per un influencer è non ricevere affatto attenzione”.
Ci aveva già pensato Oscar Wilde con la sua affermazione, entrata come citazione nel linguaggio comune da tempo: “C’è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé”; eppure, in un contesto dove credibilità e reputazione dovrebbero essere fondamentali per, appunto, convincere e influenzare il proprio pubblico nel fare qualcosa – tendenzialmente acquistare un prodotto o servizio – questa candida ammissione richiama figure distanti, evidentemente, solo per ragioni temporali.
In The Influencer, i protagonisti si sfidano in un contesto che trasforma la loro popolarità in valuta digitale: il valore personale viene misurato in termini di branding, engagement e potenziale di vendita. Più che una semplice gara, il programma esplora in modo iperrealistico la competizione per ottenere attenzione. Diventa evidente, allora, che la costruzione dell’immagine conta più della sostanza e la verità cede il passo all’efficacia del messaggio: le dinamiche social affondano le radici non solo nella spettacolarità, ma anche nella capacità di vendere un’idea, un sogno o un prodotto, indipendentemente dalla sua autenticità.
Questo sistema richiama quello dei televenditori che, con approcci teatrali e istrionici, riuscivano a trasformare un prodotto banale in un oggetto irresistibile. Non si tratta tanto di bugie quanto di persuasione: un’abilità che accomuna i protagonisti di entrambi i mondi, basata sulla capacità di creare un bisogno, di coinvolgere emotivamente il pubblico e, soprattutto, di vendere l’illusione di un beneficio. Quello che conta non è il valore del prodotto, ma la narrazione che lo circonda.
Il valore personale viene misurato in termini di branding, engagement e potenziale di vendita.
La televendita è morta, viva la televendita
È difficile spiegare, oggi, alle nuove generazioni quello che era la televisione con cui siamo cresciuti noi, figli di tardivi anni Ottanta o primi anni Novanta. È difficile raccontare quel che resta di un patrimonio culturale delle televisioni locali di quegli anni, che come unico metodo di sopravvivenza avevano quello della cessione degli spazi: un pagamento, dunque, per ricevere in cambio cameramen, studio, luci, regia e tutto l’occorrente a mettere in piedi una trasmissione televisiva che, a sua volta, nella maggior parte dei casi, aveva come scopo quello di generare profitto.
Le TV locali di fine secolo scorso hanno rappresentato una svolta epocale nell’ambito del marketing, diventando rappresentazione di una terra di opportunità prima impensabili e inarrivabili, dove, a fronte di un investimento iniziale, si poteva televendere praticamente qualsiasi cosa. L’America, appunto. Una terra del riscatto per venditori, maghi, cartomanti, soggetti opinabili, per lo più improponibili, che, comunque, ancora oggi restano. Un circo mediatico che innegabilmente continua a far parte della nostra cultura, dal documentario biografico Wanna ideato da Alessandro Garramone, del 2022, per Netflix, sulla parabola di Wanna Marchi e della figlia Stefania Nobile, alla campagna social operazione nostalgia di SiVola con Roberto Da Crema ‒ il Baffo, per chi sarà in grado di ricondurre sempre e solo a lui ogni rantolo asmatico a cui assisterà nella vita ‒ come protagonista parlante. O, ancora, dalla citazione di Famoso Iole nel brano Burattino senza fichi di Elio e le storie tese a Francesco Boni, colonna portante di Telemarket agli inizi degli anni Ottanta, con il suo stile sempre euforico e la erre moscia, modello del personaggio del televenditore di Corrado Guzzanti nel programma L’ottavo nano.
Afferma Sergio De Luca, CEO di SiVola: “Lavorare con un volto storico della TV come Roberto Da Crema ci ha permesso di creare uno spot d’impatto che rimanda subito ai momenti più iconici della televisione italiana, in grado così di rimanere impresso in chi guarda”. Eppure, il Baffo, re delle televendite italiane, al pari di Wanna Marchi, loro regina, è rimasto vittima di sé stesso, in particolare nei confronti della legge, così come è difficile immaginare che, nell’epoca dell’intelligenza artificiale generativa e di avanzamenti tecnologici al di là di ogni aspettativa, la maggior parte della popolazione possa realmente credere ai maghi e fattucchiere che tanto hanno, invece, fatturato nel periodo d’oro delle televendite.
Le TV locali di fine secolo hanno rappresentato una svolta epocale nell’ambito del marketing, diventando rappresentazione di una terra di opportunità prima impensabili e inarrivabili, dove, a fronte di un investimento iniziale, si poteva televendere praticamente qualsiasi cosa.
I televenditori: genesi degli influencer contemporanei
I televenditori hanno ottenuto la celebrità grazie al proprio ineguagliabile e distintivo “urlo”, fosse esso il “d’accordo?” stridulo di Wanna Marchi, la voce roca e sincopata di Roberto Da Crema o il “quindi?” di Alessandro Orlando, che li ha resi protagonisti di meme e scherni ma, allo stesso tempo, caratterizzati per sempre assicurando loro un posto fisso all’interno della cultura trash/pop italiana.
Perché se c’è un’arma efficace appannaggio di brand, aziende o personaggi che hanno come obiettivo quello di vendere è il sapersi distinguere, il configurarsi come qualcosa di diverso rispetto agli altri, non solo come area di expertise, ma proprio come tono di voce, come modo di porsi, come modalità di storytelling e, se il canale rimane lo stesso per tutti – la televisione prima, i social media oggi – quelli che possiamo considerare asset distintivi restano l’elemento fondamentale per cementarsi all’interno della mente di un potenziale acquirente e, soprattutto, per venire in mente il più rapidamente e facilmente possibile nel momento in cui qualcuno si trovi a pensare alla categoria per realizzare un acquisto o un’opzione di utilizzo. Il compito più arduo per chi si occupa di pubblicità, non è mai quello di promuovere il prodotto, bensì quello di rendere la comunicazione memorabile, capace di imprimersi nella testa dello spettatore.
Al rappresentare qualcosa di diverso e riconoscibile, va sommato l’essere stati i primi, veri trend-setter, reali progenitori di tutto quello che sarebbe venuto dopo. Ecco che la figura del teleimbonitore, contrapposta all’impostazione imbalsamata, formale e rigida della televisione pubblica, ha rappresentato il primato nel portare l’altoparlante dell’arrotino oppure la voce amplificata del fruttivendolo, del pescivendolo di provincia dentro alla televisione, consacrando e santificando la figura del venditore comune in qualcosa di più, in qualcuno di più autorevole solo per il fatto di comparire all’interno di uno schermo, per essere, in qualche modo stato scelto rispetto a qualcun altro (anche se sappiamo che le motivazioni erano prettamente legate ai guadagni e non certo di merito): una TV in cui basta raccontare qualcosa per diventare automaticamente credibili e degni di fiducia.
Perché i teleimbonitori stanno rivivendo un processo di iconicizzazione nazionale? Si tratta solo di nostalgia oppure le leve di marketing che hanno utilizzato sono più che mai attuali e ci permettono di leggere la contemporaneità sotto un’altra lente?
Influencer: from zero to hero – and back to zero
“La gente compra me, non compra quello che vendo”, così un lucidissimo Alessandro Orlando spiega perché alla base del proprio successo ci sia stato un rapporto franco, un rapporto umano uno a uno tra venditore e spettatore. Seguendo le stesse logiche, sono nati, poi, gli influencer che sono stati capaci, prim’ancora di vendere e rappresentare un vantaggio per i brand che li avessero ingaggiati, di creare la propria community in grado di scambiare informazioni e, soprattutto, stabilire relazioni con la celebrity e gli altri membri della stessa comunità digitale, grazie all’instaurarsi di un rapporto di fiducia costruito sul rapporto umano e non su prodotti e industry specifiche.
Eccoci, allora, catapultati nell’epoca dei social media, con un pubblico alla ricerca di qualcosa di diverso e nuovo rispetto ai media tradizionali. Come i televenditori, gli influencer sono stati in grado di colmare buchi proponendo contenuti autentici, freschi, capaci di catalizzare l’interesse di una nicchia di pubblico e diventando la fonte di informazione preferita, nonché di ispirazione, per molti consumatori, specialmente appartenenti alle generazioni più giovani, che hanno attestato loro la propria fiducia più che nei confronti di celebrity o esperti.
Rappresentano anche loro, come i sopracitati teleimbonitori, ma in maniera più contemporanea, raffinata e attendibile, storie di riscatto della provincia italiana che, grazie a una nuova e più ampia democratizzazione, potevano finalmente emanciparsi, riuscendo anche a influenzare effettivamente la propensione all’acquisto di un prodotto piuttosto che di un altro. Due sono state le evoluzioni più comuni: diventare essi stessi un prodotto, mercificati e venduti al miglior brand offerente desideroso di promuovere i propri prodotti, inseguendo conversioni in vendita assicurate su nicchie di consumatori oppure diventare imprenditori, percorso premiante sia dal punto di vista dei profitti che della credibilità per la propria community. Basti pensare a casi italiani di successo come Cristina Fogazzi (l’Estetistica cinica), di Clio Zammatteo (ClioMakeUp) oppure, impossibile non prenderla in considerazione, Chiara Ferragni, arrivata per prima, eppure emblema di una sconfitta della categoria e drammaticamente vicina alla parabola discendente dei televenditori più noti a causa di problemi legali amplificati proprio dalla notorietà del personaggio.
Come i televenditori, gli influencer sono stati in grado di proporre contenuti capaci di catalizzare l’interesse di una nicchia di pubblico diventando la fonte di informazione preferita, nonché di ispirazione, per molti consumatori.
L’eterno ritorno di catodici dei
Da un lato i brand stanno spostando i propri investimenti dalle grandi figure con decine di milioni di follower verso micro- e nano-creator (sempre influencer, ma della porta accanto, più verticali, più tematici, più autentici, con una minore esposizione a rischi reputazionali e persino più economici) con obiettivi di middle funnel, quindi il miglioramento dell’engagement e il raggiungimento di nuovi segmenti di consumatori, mentre l’AI generativa sta diventando chiave per l’ideazione di contenuti di campagne di comunicazione. Dall’altro l’intervista riparatrice (?) di Chiara Ferragni da Fabio Fazio registra tre milioni di spettatori, Wanna Marchi è protagonista di una docuserie Netflix candidata al Nastro d’Argento, Roberto Da Crema approda come volto della campagna di SiVola sui social. Stiamo, quindi, assistendo a un riciclo di volti indelebili che hanno perso qualsiasi autorità ottenuta precedentemente, in favore di un’evoluzione in grado di mettere in atto, per chi già c’era, una non troppo sofisticata operazione nostalgia ‒ che nella pubblicità, come Don Draper pontifica, ha sempre successo ‒e, per chi è nato dopo, di prendere ancora di più le distanze, attraverso risate e derisione, dalle generazioni precedenti, autodeterminandosi per distanziamento e differenziazione; se ne sono accorti, infatti, anche i brand che il format delle televendite continua a funzionare, seppur con una logica sottostante profondamente diversa, con esempi illustri che vengono dall’alta moda, da Stella McCartney a Gucci. Se, davvero, la cosa peggiore per un influencer è non ricevere attenzione, quale che sia, a distanza di anni, possiamo dire che i teleimbonitori ci sono riusciti e sono tornati. Viene da domandarsi se il trucco riuscirà anche alla progenie dei prodotti social media o se gli dei del tubo catodico avranno sempre e comunque la meglio perché sono stati i primi, se li sono inventati loro il personal branding, l’e-commerce e l’influencer marketing.