P er usare una metafora legata al baseball, Donald Trump è una palla curva, talmente curva da sparire alla vista, ricomparire e centrare in pieno il ricevitore, buttandolo a terra. Il lanciatore e il ricevitore sono il Partito Repubblicano, che per dieci anni si sono allenati a tirare palle curve fino a perderne il controllo. L’atteggiamento scandalizzato esibito dai vari Ted Cruz, John Kasich, Ben Carson e Marco Rubio nel corso delle primarie maschera un rifiuto di riconoscere che Trump è il prodotto di almeno un decennio di retoriche populiste, aggressività nei confronti delle donne e indifferenza – quando non proprio intolleranza – verso afroamericani e minoranze etniche. Il Grand Old Party ha preparato il terreno per l’ascesa di Trump, che sostiene le stesse idee degli altri candidati ma lo fa con meno buona educazione, urlando e puntando le dita.
Era già tutto lì, in nuce. La misoginia, prima di tutto: nel 2012, l’ex membro del Congresso Todd Akin dichiarò che una donna stuprata – veramente stuprata, vittima di quello che lui chiamò “legitimate rape” – non poteva rimanere incinta a seguito dello stupro, perché il corpo femminile ha modi per impedire il concepimento in caso di violenza. Un tentativo di delegittimare l’aborto anche in caso di aggressione sessuale, e un affronto a tutte le vittime di stupro costrette a portare a termine gravidanze indesiderate. Akin non ha mai davvero ritrattato la sua affermazione. Lo stesso (ora) vicepresidente Mike Pence, si è espresso pubblicamente contro Roe vs Wade, la sentenza che protegge il diritto delle donne americane a interrompere una gravidanza, dicendo che dovrà essere “consegnata alle ceneri della storia”. Pence ha anche votato contro l’abolizione della regola Don’t Ask, Don’t Tell, che impediva ai membri dell’esercito americano di vivere apertamente il loro orientamento sessuale; ha lavorato per sottrarre i fondi alle cliniche di Planned Parenthood, che in tutta l’America rappresentano spesso l’unico accesso a contraccezione e salute riproduttiva per le donne; e ha votato contro il Lilly Ledbetter Fair Pay Act, la legge che protegge il diritto delle donne a essere pagate come gli uomini, per ben tre volte.
Il Grand Old Party ha preparato il terreno per l’ascesa di Trump, che sostiene le stesse idee degli altri candidati ma lo fa con meno buona educazione, urlando e puntando le dita.
L’omofobia che ha reso così difficile l’abolizione della regola DADT è presente anche altrove. Nel corso della sua campagna, l’ex candidato repubblicano e senatore John McCain si è speso contro i matrimoni fra persone dello stesso sesso, e in particolare ha sostenuto la Proposition 8, il referendum con cui la California rese (per poco) illegale il matrimonio paritario. Fra le testimonial della campagna contro il referendum c’erano anche Cindy e Meghan McCain, moglie e figlia del senatore. Nel 2003 Rick Santorum – allora un giovane senatore poco più che quarantenne – si espresse con vigore a favore della discriminazione contro gli omosessuali, giudicando l’omosessualità un comportamento deviante ed ergendosi a paladino delle libertà religiose e del diritto di rifiutarsi di servire una persona che si ritiene in contraddizione con le proprie idee.
Dai Repubblicani è arrivato anche il sostegno a Kim Davis, l’impiegata pubblica che rifiutò di registrare i matrimoni (a quel punto legali in tutto il paese) fra persone dello stesso sesso. Le dichiarazioni razziste sono probabilmente troppe per essere contate, ma l’ipotesi di Henry Fernandez su Salon – che Trump avrebbe “ucciso” il GOP esponendone il cuore razzista – si sono rivelate infondate. I Repubblicani, che da tempo esprimono una visione conservatrice della società americana aggrappata con tenacia all’epoca dorata delle pubblicità anni Cinquanta e di Happy Days (serie girata negli anni Settanta, e che si interrompeva prima della guerra del Vietnam) accettano volentieri fra i loro ranghi uomini e donne di colore, sempre che si mantengano entro i ranghi. All’ultima Republican National Convention, solo il 6% dei delegati era di colore, e solo 18 erano afroamericani.
La palla curva Trump ha colpito i Repubblicani buttandoli per terra, ma non ha ostacolato la loro vittoria. L’intero Congresso è a maggioranza repubblicana, ma a capo dell’esecutivo si trovano non un loro rappresentante con una storia politica che riconoscono e decenni di pacche sulle spalle a vicenda nei corridoi dei palazzi del potere, ma un completo estraneo che ne raccoglie i lati più indesiderabili e ne scoperchia l’ipocrisia, un uomo che si è sempre dichiarato al di fuori dei giochi e ora li conduce pur non avendo né l’esperienza né una visione condivisa con tutti. Ancora una volta, l’arte ci viene in soccorso per spiegare la vita: The Young Pope di Sorrentino racconta l’ascesa al soglio pontificio di un papa giovane, bello e psicopatico, la cui nomina nessuno può contrastare perché viene dallo Spirito Santo, ma che in realtà è il frutto di un calcolo errato fatto dal Cardinal Voiello (un incrocio di Giulio Andreotti e Tarcisio Bertone con cui si finisce per simpatizzare: ironia della relatività). Allo stesso modo, la legittimazione popolare mette Trump al riparo da qualsiasi attacco: ha vinto contro ogni probabilità e contro ogni previsione, anche le più pessimistiche. E ora fa quello che vuole, perché il presidente americano – a differenza dei capi di Stato e di governo italiani – ha davvero il controllo della sua azione di governo. Trump può smontare in un attimo otto anni di faticosa ripresa economica, diritti civili acquisiti e assistenza sanitaria estesa anche alle classi meno abbienti, senza offrire agli oppositori europei di Hillary Clinton alcuna garanzia su una politica estera non interventista. Trump è imprevedibile e odia perdere: dal punto di vista caratteriale è la persona meno adatta a ricoprire quel ruolo. Eppure una larga parte dell’America si è riconosciuta in lui e gli ha dato il suo sostegno.
Dal punto di vista caratteriale Trump è la persona meno adatta a ricoprire il ruolo. Eppure una larga parte dell’America si è riconosciuta in lui e gli ha dato il suo sostegno.
Verso le tre di mattina sul fuso orario di Roma, Berlino e Amsterdam, la reazione più diffusa sui social network di area liberale erano quasi tutte varianti di “What the f— just happened?”. Quello che è successo davvero non lo sappiamo ancora: quello che sappiamo è che le bambine americane, le stesse bambine citate da Hillary nel discorso successivo alla sconfitta, sono andate a dormire con la speranza – sempre più flebile, man mano che passavano le ore – di svegliarsi in un mondo in cui una donna poteva diventare Presidente degli Stati Uniti d’America. Si sono svegliate invece in un paese in cui una donna ha perso le elezioni presidenziali. Le ha perse alla grande, le ha perse dopo aver nuotato per vent’anni nella vasca degli squali che è Washington D.C.. Oggi abbiamo scoperto che un uomo accusato da più donne e in maniera molto circostanziata di molestie sessuali (e da almeno una, di stupro: denuncia ritirata solo pochi giorni fa), con un processo per truffa a suo carico che dovrebbe iniziare in novembre e uno storico di dichiarazioni razziste che gli sono valse anche il sostegno del Ku Klux Klan può spuntarla contro una donna il cui problema più grosso, in campagna elettorale, è stato un pasticcio con l’inoltro delle mail da un indirizzo all’altro.
Ma è un’altra storia, e se ancora una volta la fiction anticipa la realtà è una storia che hanno già raccontato I Simpson, nell’episodio del 2000 in cui Bart viaggia nel tempo e scopre che Lisa è diventata la prima donna presidente della storia, e ha ereditato da Donald Trump un bel buco di bilancio. Lisa, se ci sei, comincia a prepararti ora.