U na delle riflessioni freudiane più celebri è quella contenuta nel saggio sul perturbante, importante sia per lo sviluppo delle sue teorie psicanalitiche che per le teorizzazioni sui meccanismi interni di un’opera di finzione. Questo spazio permeabile tra l’opera e i meccanismi psichici è ciò che fa del perturbante un strumento ermeneutico malleabile in grado di dire molto anche della mentalità del tempo, perché ogni epoca ha qualcosa che “ingenera angoscia e orrore”, quella sorta di spaventoso che risale a ciò che ci è famigliare.
In Carino! Il potere inquietante delle cose adorabili (pubblicato da Luiss University Press con la traduzione di Chiara Veltri), il filosofo inglese Simon May prova a indagare i risvolti inquietanti delle cose carine che affollano la nostra vita, come gli oggetti che effettivamente incontriamo nelle situazioni quotidiane, ma anche le immagini o i video di piccoli animali o cuccioli indifesi che ci muovono alla commozione ogni volta che scorrono sulle nostre bacheche. Hello Kitty, il Balloon Dog di Jeff Koons, i Pokémon, Mickey Mouse, le emoji, E.T. l’extraterrestre sono solo alcuni degli oggetti a cui May fa riferimento nel suo libro in cui prova proprio a individuare come dietro alla pervasività della cuteness di questi oggetti si celino piuttosto meccanismi di potere che ne sfruttano ogni rivolo estetico (“arma di seduzione di massa” definisce May il cute) per esprimere i lati più inquietanti, e perturbanti, dell’esistenza. L’invito è dunque, assecondando il Nietzsche citato da May, a scavare oltre la superficie, perché non esiste nulla di più profondo di ciò che si presta alla vista: “I filosofi – ci ha detto May – lo hanno quasi completamente ignorato perché sembra un tema banale e infantile; certo, gli oggetti carini e la sensibilità carina potrebbero anche essere considerati banali, ma non è affatto banale ciò che la mania per questi ci dice sul nostro mondo”. Ed è proprio a partire da questa mania che May prova a identificare il carattere nascosto e inquietante del cute.
Nella promessa di cura dettata dalla minaccia delle rivalità e degli scontri tra nazioni e tra uomini era celata la consapevolezza dell’oscurità e della vulnerabilità.
Il cute ha, secondo May, un ampio spettro di significati, ma sono proprio le due estremità opposte a rivestire grande interesse e a trasformarlo in una possibile chiave per l’interpretazione della realtà. May suggerisce infatti come esista un’estremità “dolce” che racchiude le qualità innocenti e non minacciose che comunemente associamo al cute, come “comportamenti che ci fanno apparire questi soggetti indifesi, affascinanti e arrendevoli, proprietari di caratteristiche anatomiche simili a quelle dei bambini, come teste fuori misura, fronti sporgenti, menti arretrate e andature goffe. Suscitano in noi, che siamo i loro spettatori, sentimenti deliziosamente protettivi e consolatori”. Ma il suo interesse si rivolge verso lo scontro con l’estremità opposta, quella che definisce appunto “inquietante”, dove le qualità dolci vengono distorte verso qualcosa di più “oscuro, indeterminato e violento”, qualcosa come il Balloon Dog di Jeff Koons che “sembra potente (fatto di acciaio inossidabile) e impotente allo stesso tempo (è cavo e non ha né la faccia, né la bocca, né gli occhi). È enorme ma anche vulnerabile; un cane domestico ma dalle proporzioni e consistenze sconosciute” o come Hello Kitty, “la ragazza-gatto stranamente senza bocca, senza voce e senza dita”.
Si tratta, per esempio, delle forme e degli atteggiamenti che ha assunto nel corso dei decenni Mickey Mouse, la cui evoluzione estetica, tra gli anni Venti e i Settanta del Novecento (gli anni in cui secondo May il cute come estetica stava prendendo piede), funziona come perfetto epifenomeno per una teorizzazione dell’aspetto esteriore di questo tipo di oggetti: “Il suo comportamento cambiò: da aggressivo e sconclusionato, persino sadico, a benevolo, protettivo e gentile. E la sua testa cambiò nella direzione opposta al normale sviluppo cronologico: divenne più infantile, con la testa più bombata e con gli occhi e la volta cranica più grandi. Questi sono esattamente i tipi di caratteristiche carine che l’etologo Konrad Lorenz ha identificato come fattori scatenanti gli istinti protettivi umani verso i loro piccoli”. Ma questa trasformazione non soddisfa solo caratteri estetici, inserendosi secondo May all’interno di un processo storico più grande: “Secondo me è stato l’orrore della guerra mondiale che ha ispirato Disney e, più in generale, l’esplosione del cute negli Stati Uniti dopo il 1945, ma ancora di più in Giappone, che ora è diventato la sua capitale mondiale. Perché fu solo dopo la seconda guerra mondiale che gli americani, gli europei e i giapponesi furono presi dalla repulsione per la violenza e la crudeltà e dal desiderio irrefrenabile di un mondo di gentilezza e cooperazione, in cui si potessero coltivare gli istinti di protezione reciproca e di accudimento. La mania del cute esprimeva quel desiderio, ma anche la consapevolezza dell’oscurità e della vulnerabilità intrinseca alla vita”. L’esempio di Mickey Mouse è dunque emblematico nel ragionamento di May, perché nella promessa di cura dettata dalla minaccia delle rivalità e degli scontri tra nazioni e tra uomini era celata la consapevolezza dell’oscurità e della vulnerabilità: “oscuro, apprensivo, vulnerabile e tuttavia – fedele all’essenza del cute – provocatorio, flessibile e spensierato”.
Questa ambiguità, la vicinanza disturbante tra il rassicurante e l’inquietante, sono gli strumenti che May utilizza riferendosi alla teoria freudiana del perturbante, uno strumento adatto per un’indagine che oltrepassi i contorni esteriori e che, nella lettura di May, si tinge di un carattere ancora più subdolo. Se infatti lo psicanalista viennese faceva riferimento a oggetti per loro natura portatori di uno spirito spaventoso (si pensi per esempio al Mago Sabbiolino del racconto di Hoffman a cui Freud fa riferimento), May nella sua definizione di cute sembra individuare un aspetto ancora più minaccioso perché la natura primaria di questi oggetti è, a differenza proprio del Mago Sabbiolino, quella di puntare tutta la loro apparenza sulla piacevolezza estetica. Di essere, insomma, innanzitutto belli.
Il cute, secondo May, è un tipo di estetica che ci sfida facendo sembrare il gentile sinistro e il familiare sconosciuto, andando oltre l’apparenza delle cose.
Questo cambiamento di prospettiva porta anche a una riformulazione dei canoni estetici generalmente adottati: quando ci si riferisce al cute, dice Simon May, “non si tratta solo di qualsiasi oggetto o evento ordinario che può arrivare a sembrare inquietante”, quanto invece di “quegli oggetti che sono esperiti come confortanti eppure appaiono snervanti e pieni di una strana bellezza”. Il cute quindi, continua May, è un tipo di estetica che ci sfida “facendo sembrare il gentile sinistro e il familiare sconosciuto” andando oltre l’apparenza delle cose. Ed è proprio questo vuoto intermedio a emergere come luogo estremamente interessante, perché in questo spazio si riflettono alcuni comportamenti umani e la relazione tra l’uomo e le varie forme di potere.
May scrive infatti che il cute è oggi una delle modalità attraverso le quali l’era contemporanea vive l’impossibilità della pura innocenza e anche l’indeterminatezza della natura umana: “Il cute – aggiunge May – è profondamente in sintonia con il modo in cui viviamo oggi proprio nel suo offuscare le categorie tradizionali di bene e male, maschile e femminile, adulto e bambino, umano e animale”, aspetto evidente per esempio nel fatto che la maggior parte degli oggetti carini non rientra nei vecchi canoni di genere. “Pochi di loro oggi sono chiaramente girly o macho o implicano un orientamento eterosessuale convenzionale. Aprono quindi uno spazio per i più svariati orientamenti di genere o sessuali, così come si rivolgono a persone di tutte le età (sono per esempio sempre colpito da come le emoji siano usate da tutti, dai bambini agli anziani). Inoltre gli oggetti carini permettono di proiettare liberamente l’identità che vogliamo su di essi proprio nel modo che è sempre più comune nella nostra epoca, cioè un’epoca in cui l’identità è autodeterminata e pluralistica, piuttosto che una in cui è data per natura ed eredità”.
Se queste dunque sono le caratteristiche del cute, emerge bene come tale incertezza si riversi su questioni di genere, morali, di riconoscibilità, di etnia e anche di età e necessiti dunque, per essere indagata, di una nuova modalità di analisi in grado di racchiudere i due spettri all’estremità della definizione. Se infatti il lato tenero invita solamente al soccorso e alla protezione, il lato perturbante, maggioritario nello studio di May, con la sua richiesta di attenzione è più consapevole, anche rispetto alle questioni di potere che evoca: oltre a essere consapevoli, scrive May, gli oggetti e le persone che afferiscono a questo lato dello spettro “desiderano essere conosciute e riconosciute, per poi, fedeli alla loro impossibilità definitoria, nascondersi”. Nel ragionamento di May infatti questo aspetto pervasivo del cute, con tutte le sue ambiguità, si riflette anche nelle persone e nel modo in cui queste vengono osservate e valutate dalla società. Per esempio nel capitolo intitolato Il cute e il mostruoso: il caso di Donald Trump descrive come l’ex presidente degli Stati Uniti possieda un’attitudine cute proprio per la sua natura di difficile definizione. Come per altri politici, come Stalin o Kim Jong-il a cui dedica attenzione, May ipotizza che il cute possa essere un indizio per capire il fascino di Donal Trump: “Questo perché Trump, come nel caso del cute, confonde le categorie tradizionali di bene e male, verità e falsità, adulto e bambino, e persino forte e vulnerabile. Nel fare ciò evoca un’indeterminatezza, un’oscurità e una ferocia che lo dotano di mistero, un mistero accresciuto dal suo strano aspetto fisico, come la sua bocca increspata e i suoi capelli biondi pettinati all’indietro. Una chiave del suo carisma è che questo mistero non è risolto. I suoi fan lo amano perché evoca il sinistro e il consolatorio, il malevolo e il benevolo, il distruttivo e il creativo, la promessa di caos e la promessa di ordine. Trump vince incarnando l’oscura indeterminatezza di cute, cosa che nessuno dei suoi rivali è in grado di fare”.
Nascondersi e fingersi impotenti sono allora due degli atti fondamentali nella creazione dell’identità degli oggetti cute che però “usano la loro vulnerabilità per allettare e manipolare”. Qui risiede, secondo May, la funzione del cute all’interno dei meccanismi di potere: poiché ripropone il vecchio interrogativo circa chi detiene davvero il potere, il signore o il servo? Com’è noto, secondo Hegel il potere del servo potrebbe essere addirittura più importante di quello del padrone poiché senza il servo non esisterebbe l’identità del signore che quindi non può annullare del tutto la sua dignità perché altrimenti non potrebbe ricevere il riconoscimento che è alla base della sua natura (e di tutta la natura umana, annotava Hegel seguito poi da Kojéve o Lacan). Si crea quindi un cortocircuito rispetto alla normale valutazione dei rapporti di potere, perché il cute perturbante “non può fare a meno di ricordarci che nelle nostre relazioni intime spesso non sappiamo chi ha davvero il coltello dalla parte del manico”.
Il cute è oggi una delle modalità attraverso le quali l’era contemporanea vive l’impossibilità della pura innocenza e anche l’indeterminatezza della natura umana.
Ecco quindi che è il cute stesso a ribaltare la normalità dei processi di trasmissione del potere: sono proprio questi processi a conferire il potere all’oggetto o alla persona cute che può giocare con la percezione che lo spettatore ha del proprio potere, muovendolo tra pose dominanti e incertezza del controllo. A questo interrogativo si lega direttamente una questione ontologica sul potere stesso e sul suo valore in ogni tipo di relazione, lavorativa, amorosa o sociale. Qui May fa riferimento alla riflessione di Nietzsche sulla volontà di potenza e a quella di Foucault sull’interpretazione di tutte le pratiche sociali e delle istituzioni in relazione all’esercizio del potere: pur sottolineando come magari il cute non abbia la forza di incarnare la promessa di un futuro sperimentale o di un afflato messianico, nello stesso tempo sottolinea però come si tratti di “un modo, anche se forse molto vago, di esplorare se e come sia possibile uscire dal paradigma del potere, il paradigma che comprende cioè tutti i desideri e le azioni umane, e persino tutta la vita, in termini di relazioni di potere. Il cute lo fa, prima di tutto, sollevando la questione di chi ha potere nella relazione con le cose carine”.
Nel suo libro May si domanda infatti se il cute possa essere “un cavallo di Troia in miniatura nella cittadella del potere”, in un mondo che ha sempre interpretato i “rapporti umani più altruisti, compassionevoli e liberatori in termini di potere e volontà di potere” e quindi, prosegue, se “gli oggetti carini mettono in discussione le chiare distinzioni che spesso assumiamo esistano tra i potenti e chi il potere non lo ha”: “questo – ha aggiunto – è parte del loro fascino ed è il motivo per cui sostengo che il culto del cute ci spinge a mettere in discussione ciò che ormai diamo per scontato, cioè l’idea che la vita umana possa essere compresa prevalentemente in termini di esercizio e proiezione della volontà di potenza degli individui o dei gruppi”. In questo senso il cute potrebbe preannunciare un possibile futuro capace di superare l’idea diffusa della vita umana sotto “il profilo dell’esercizio e della proiezione della volontà di potere del soggetto” perché il cute dunque, nella sua natura ambivalente che mescola violenza e tenerezza, potrebbe esprimere un desiderio antico, quello di ripudiare le scale gerarchiche che contraddistinguono le relazioni mettendo in discussione la natura stessa del potere e le categorie di governante e governato.