Q ualche settimana fa Abu Qatada al-Filistini, un autorevole predicatore palestinese dalle simpatie jihadiste, citava Shakespeare sul suo canale Telegram. Più o meno negli stessi giorni, sul numero di giugno del magazine jihadista al-Haqiqa (la verità) venivano raccontati tre sogni sul martirio di un certo Abu Jandal, un combattente ucciso nel novembre 2013 e ritenuto vicino al gruppo siriano Hayat Tahrir al-Sham (già Jabhat al-Nusra, legato ad al-Qaeda). In uno dei sogni Abu Jandal parla con un uccello che gli annuncia il martirio. Qualche giorno prima, sui canali di propaganda online dello Stato islamico veniva diffusa l’ultima nashid, con il titolo “Il mio Stato rimane”. Inni di incoraggiamento cantati a cappella senza strumenti musicali, le anashid (plurale di nashid) svolgono un ruolo chiave nella narrazione del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi. L’ultima recita così: “La nazione islamica è stata svegliata dal suo sonno. Oh, popolo dell’errore! Lo Stato non sta scomparendo, rimane. Ancorato come le montagne, ancorato, ancorato…”.
Divenute un tratto distintivo dello Stato islamico, le anashid sono parte integrante del più ampio repertorio jihadista da molti anni, come ha raccontato per esempio lo studioso Jonathan Pieslak in Radicalism and Music. Il perché lo ha spiegato meglio di tutti il barbuto Anwar al-Awlaki in un celebre trattato sui 44 modi per sostenere il jihad. Nato nel New Mexico nel 1971, una vita spesa tra Stati Uniti, Inghilterra e Yemen, “figura religiosa di riferimento per gli attentatori” delle Torri Gemelle secondo il rapporto ufficiale sull’11 settembre del Congresso americano, Al-Awlaki è stato uno dei principali propagandisti di al-Qaeda e l’ideatore di Inspire, la rivista patinata del gruppo di Bin Laden.
Polverizzato in Yemen da un drone americano il 30 settembre 2011 ma ancora letto e ascoltato su Youtube, nel suo trattato al-Awlaki spiega che “i musulmani devono essere ispirati a praticare il jihad”. Ai suoi tempi Maometto “aveva a disposizione dei poeti che usavano la loro poesia per ispirare i musulmani e demoralizzare i non credenti. Oggi la nashid può giocare quel ruolo. Una buona nashid può diffondersi così ampiamente da raggiungere un’audience che non si può raggiungere con una lezione o un libro. Le canzoni ispirano specialmente la gioventù… sono un elemento importante per creare una cultura del jihad”.
Quel che al-Awlaki invocava anni fa, oggi è una realtà: i jihadisti hanno elaborato una vera e propria cultura estetica. Condivisa da una comunità epistemica frammentata e minoritaria ma globale, è diventata materia di studio accademico. Ne è un esempio un libro pubblicato pochi giorni fa, Jihadi Culture. The Art and Social Practices of Militant Islamists (Cambridge University Press). Lo ha curato Thomas Hegghammer, ricercatore al Norwegian Defence Research Establishment, docente di Scienze politiche all’Università di Oslo, alle spalle pubblicazioni importanti sul salafismo-jihadista, Hegghammer è anche l’animatore del sito (e relativo account Twitter) The Bored Jihadi, il jihadista annoiato, dedicato a ciò che fanno i militanti radicali sunniti quando non combattono. Un archivio su cui lavora da molti anni, attingendo a repertori poco ortodossi: autobiografie, post sui social, fotografie, resoconti di disertori, video, pubblicazioni varie.
The Bored Jihadi è un archivio dedicato a ciò che fanno i militanti radicali sunniti quando non combattono: sogni, canzoni, poesie, gastronomia di guerra, cinema, passioni.
Nell’archivio di The Bored Jihadi si trova tutto sui barbuti. Sogni, canzoni, poesie, gastronomia di guerra, cinema, passioni. E molto si trova anche in Jihadi Culture, presentato come il primo studio sistematico sulla “dimensione culturale del jihadismo”. Il libro si basa su un’idea semplice: “per capire veramente una comunità, dobbiamo guardare a tutto quel che fanno i suoi membri”. Detto in altri termini, sull’idea che il terrorismo sia un fenomeno innanzitutto sociale, che investe anche pratiche culturali ed estetiche. Spettatori passivi e intimoriti di attentati e proclami belligeranti, siamo abituati a considerare il jihadismo attraverso un unico prisma, quello militare: addestramento, combattimento, finanziamento, reclutamento, propaganda e un’ideologia funzionale alla lotta armata. In realtà nel salafismo-jihadista c’è molto di più. Ci sono “rituali, costumi sociali, codici di abbigliamento”, “musica, film, storytelling, sport, divertimenti, cibo”. Non solo bombe e dottrina, dunque, ma “prodotti artistici e pratiche sociali che non hanno obiettivi strategici”.
È una verità che facciamo fatica ad accettare e che, per esempio, ci spinge a vedere lupi solitari mentre c’è sempre un contesto sociale. “La verità – ha scritto Jason Burke in The New Threat – è che il terrorismo non è qualcosa fai-da-te. Come ogni altra forma di attivismo, è altamente sociale”. Se adottiamo questa lente, ci accorgiamo per esempio che “negli ultimi tre decenni gli sviluppi più importanti dell’islamismo militante non hanno a che vedere con i successi o i fallimenti di un’organizzazione specifica, con la creazione o la distruzione di una particolare enclave in un Paese lontano, né con la conquista di una città o con la perdita di una battaglia, ma con l’emergere, il consolidamento e l’espansione di ciò che potremmo definire il movimento dell’islamismo militante”.
È la diffusione di un certo milieu culturale, di una particolare lingua franca internazionale, di una vera e propria “comunità globale” che condivide lingua, stili di vita, piattaforme mediatiche, pensieri. Non solo morte e distruzione, rancori e obiettivi militari, ma anche poesia, musica, iconografia, cinematografia. Perché i jihadisti, spiega Hegghammer in Jihadi Culture, “amano la poesia, parlano regolarmente dei propri sogni, piangono molto, hanno alimentato un intero settore dell’industria musicale, produzioni cinematografiche”, un articolato immaginario visivo, una vera e propria “cultura estetica”. Seduttiva e articolata.
Prendiamo la poesia. In Jihadi Culture viene citata una poesia di Osama bin Laden risalente alla fine degli anni Novanta, tra il suo arrivo in Afghanistan nel 1996 e l’attacco alle Torri gemelle del 2001. “È una poesia in due parti, di 44 righe. Nella prima metà la voce è quella del figlio di bin Laden, Hamza”. Oggi invoca attentati ed è il simbolo della rinascita di al-Qaeda, ma allora era poco più di un bambino. Puro e innocente, nella poesia Hamza chiede conto degli anni passati al padre. Traversie, sofferenze, ingiustizia, viaggi infiniti “tra valli e montagne”. Ci sarà mai una fine, una ricompensa, per simili avversità? Nella seconda metà della poesia, il padre risponde ricorrendo a un classico della letteratura militante: le avversità e l’esilio sono necessari. Servono a distinguere gli autentici fedeli, devoti alla causa, dagli ipocriti; i falsi dagli eletti; chi fa veramente parte dell’avanguardia rivoluzionaria da chi va espulso. Uno stratagemma retorico che oggi, non a caso, è sempre più adoperato dagli strateghi della comunicazione dello Stato islamico, per giustificare la progressiva erosione dei territori controllati in Siria e Iraq.
I poemi jihadisti sono uno strumento di autorappresentazione culturale e politica, che delinea i confini della comunità e disegna una nuova geografia politica fatta di avamposti che vanno difesi.
Nel 2014 e 2015, quando si trattava di celebrare l’edificazione dello Stato islamico, le chiavi narrative erano diverse. Affidate a poeti/militanti e a quella che sarebbe diventata una vera e propria poetessa di corte, Ahlam al-Nasr (Sogni di vittoria), di cui si è molto scritto sui giornali. La sua prima raccolta, Incendio di verità, è stata pubblicata nell’autunno del 2014: 107 poesie, dalle elegie per i combattenti agli inni vittoriosi, passando per la glorificazione delle virtù del Califfo.
Sembra semplice propaganda, annaffiata con un pizzico di arte, ma non è così. Scartabellando la gran mole di versi prodotti dai gruppi militanti sunniti, Bernard Haykel e Robyn Creswell in uno dei saggi inclusi in Jihadi Culture spiegano che i poemi jihadisti andrebbero intesi come “performance di autenticità”, più che come prodotti ricreativi o di propaganda. Sono uno strumento di autorappresentazione culturale e politica, che delinea i confini della comunità, tramanda una cultura minoritaria (esemplare la poesia di bin Laden), disegna una nuova geografia politica fatta di avamposti che vanno difesi. Come nella teologia jihadista, anche qui l’elemento centrale è la lotta contra l’ortodossia intellettuale, ritenuta spuria, corrotta, impura, deviata, contaminata, cospiratoria. La poesia dei barbuti, al contrario, è pura.
Tutti i gruppi jihadisti rivendicano ortodossia. Dunque purezza. Coltivano la passione per la poesia anche i Talebani, il più importante gruppo anti-governativo afghano, vent’anni di militanza armata e un periodo di amministrazione statale censoria e insulare. Sono diversi gli studiosi che si sono occupati delle pratiche culturali della guerriglia in turbante afghana, ma tra i libri più interessanti c’è senz’altro Poetry of the Taliban, curato da Alex Strick van Linschoten e Felix Kuehn, due studiosi che, insieme ad altri, da molti anni cercano di completare un ambizioso progetto di raccolta e digitalizzazione di documenti sui Talebani, il Taliban Sources Project, rifiutato con pretesti giuridici dalla British Library nel 2015. Introdotto da una puntuale prefazione di Faisal Devij, studioso dell’islamismo politico all’Università di Oxford, Poetry of the Taliban include una serie di poesie scritte, recitate o cantate dai “turbanti neri” dagli anni Novanta del secolo scorso fino al 2008. È una lettura istruttiva, perché integra e completa l’immagine che dei seguaci del mullah Omar si deduce dai tanti libri e saggi dedicati alla loro ideologia. Ne esce un quadro sorprendente, un prezioso manuale estetico-politico del movimento, fatto di vicende quotidiane e di grandi avvenimenti, di raffinatezze poetiche e di tragiche brutalità. E di molti sogni.
Mullah Omar, lo storico leader dei Talebani, l’uomo che ha trasformato dei religiosi zelanti dai sandali impolverati in ministri e ambasciatori, era un noto sognatore. Non perché inseguisse obiettivi utopici, ma perché si affidava all’attività onirica per le decisioni più importanti. La leggenda vuole che, all’inizio del 1994, sia stato proprio un sogno a spingerlo ad assumere la guida degli “studenti coranici”, che avrebbero conquistato prima Kandahar, poi le province di Zabul, Helmand, Uruzgan, Herat e infine Kabul, dando vita all’Emirato islamico d’Afghanistan. La cosa non deve sorprendere. In uno dei saggi di Jihadi Culture i ricercatori Iain Edgar e Gwynned De Looijer ricostruiscono l’importanza dei sogni nella tradizione islamica e poi nelle pratiche dei militanti islamisti, dal profeta Maometto al medioevo islamico – quando si diffondono i manuali che democratizzano l’accesso all’interpretazione dei sogni –, da mullah Omar a Osama bin Laden.
Per i militanti jihadisti i sogni hanno un potere rivelatorio: sono interpretati e commentati socialmente, rimangono l’unico canale di comunicazione diretta tra l’umano e il divino.
Per i militanti jihadisti i sogni hanno un potere rivelatorio, come nel caso del combattente Abu Jandal e dell’uccellino che gli annunciava il martirio; indicano la retta via, guidano l’azione, collegano il presente all’età d’oro dell’Islam; sono condivisi, raccontati, interpretati e commentati socialmente. Dopo la rivelazione del Corano, rimangono l’unico canale di comunicazione diretta tra l’umano e il divino. E conferiscono autorevolezza: quella di leader come Osama bin Laden e mullah Omar è passata anche attraverso la loro capacità di interpretare i sogni dei loro combattenti e di ricevere, attraverso i sogni, le indicazioni divine, facendosi mediatori tra i due mondi.
Lo stesso potere di mediazione lo ha il martire. Una “figura liminale” – spiega David Cook in un altro saggio di Jihadi Culture – non soggetta a passioni e volontà mondane, i cui resti corporei diventano i bastioni del paradiso in terra. Profumato e miracolosamente preservato, il corpo dei martiri garantisce la sacralità del jihad, è un corpo puro, venerato, che testimonia la verità, intercede per gli uomini e indica la via verso Dio. Così spiegava per esempio l’ideologo e stratega Abdallah Azzam negli articoli scritti negli anni Ottanta sul magazine al-Jihad, destinato ai mujahedin che combattevano l’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Proprio a lui – convinto che “la vita dell’ummah islamica dipenda solo dall’inchiostro dei suoi studiosi e dal sangue dei suoi martiri” – si deve la costruzione di una vera e propria “mitologia martirologica” e l’affermazione di una “corrente salvifica del jihad”. Entrambe contaminate da pratiche e concetti del sufismo, dottrinalmente osteggiato dai salafiti-jihadisti.
È proprio questa la cosa più sorprendente che emerge dal vasto repertorio di aneddoti e vita ordinaria dei “barbuti annoiati”. “La cultura jihadista sembra essere diventata più ‘liberale’”, scrive Hegghammer nell’introduzione a Jihadi Culture. Basta guardare “l’affascinante evoluzione cronologica dai primi anni Ottanta, quando molti islamisti radicali erano scettici su inni e immagini, fino agli anni Dieci del Duemila, quando il materiale audiovisivo è diventato onnipresente nel movimento”. Ma lo dimostra soprattutto il fatto che la cultura jihadista abbia acquisito elementi della tradizione sufi. “Non lo ammetterebbero mai”, chiosa Hegghammer, “ma per adottare nuovi prodotti e pratiche i jihadisti hanno rinunciato ad alcuni fondamentali principi salafiti”. E non esitano neanche a citare Shakespeare, simbolo del vituperato Occidente.