L’ Arkansas fa i saldi sulla pena di morte. Sembra una battuta di cattivo gusto, ma è un’analogia purtroppo molto calzante: l’esecuzione tramite iniezione letale che è la prassi in questo Stato viene condotta con l’aiuto di un sedativo, il midazolam, creato una quarantina d’anni fa dal dottor Armin Walser. Il midazolam è più potente del Valium, ma rimane comunque un sedativo pensato, nelle parole del suo creatore, “per rendere più facile la vita delle persone, non la loro morte”. Le case farmaceutiche che producono midazolam sono restie a proseguire la fornitura per quello scopo, e l’Arkansas ha delle scorte in scadenza. Il loro modo di ottimizzare è procedere a tappe forzate nell’esecuzione di un po’ di prigionieri: otto in undici giorni, secondo i loro piani.
Il primo a essere soppresso è stato Ledell Lee, il 20 aprile, ma la corsa all’esecuzione è stata bloccata da due ordini giudiziari provenienti dalla giudice federale Kristin G. Baker e da un giudice delle corti d’appello dell’Arkansas; ordini successivamente scavalcati da una sentenza della Corte Suprema, che ha dato il permesso di procedere con l’esecuzione consecutiva di altri due prigionieri, Jack Jones e Marcel Williams. La sedazione di Jones ha richiesto 45 minuti di ricerca di una vena ed è risultata “crudele e inumana”, secondo l’avvocato di Williams, che ha tentato inutilmente di fermare la soppressione del suo assistito. Il quarto uomo a essere legato sul lettino dell’esecuzione si chiamava Kenneth Williams: anche in questo caso, i testimoni riportano una morte crudele, in cui il condannato si agitava in preda alle convulsioni anche dopo l’iniezione di una dose di sostanza paralizzante.
Il problema del midazolam è che non funziona per tutti: se iniettato in dosi massicce dovrebbe portare alla perdita di conoscenza e far sì che il condannato non avverta dolore quando gli viene iniettata la tossina che paralizza gli organi vitali. Alcuni però si svegliano, danno segno di provare dolore, si contorcono: il corpo umano è una macchina delicata e resistente al tempo stesso. Nel luglio del 2014, l’esecuzione di Joseph Wood in Oklahoma richiese due ore, il tempo che ci volle perché Wood morisse asfissiato sotto gli occhi dei testimoni venuti ad assistere al suo decesso. In più Stati, i condannati possono scegliere come metodo alternativo la fulminazione tramite scarica elettrica, oppure la fucilazione, l’impiccagione o l’intossicazione tramite gas letale. A volte succede. Molti detenuti trovano il modo di uccidersi mentre aspettano la condanna. Altri chiedono che la sospensione della pena sia annullata e scelgono volontariamente di farsi uccidere a spese dello Stato.
L’ottavo emendamento della Costituzione americana proibisce le pene “crudeli e inusuali”: la pena di morte in sé non viene considerata tale, a patto che il condannato non soffra. La sofferenza psicologica di una persona condannata a morire per mano dello Stato non è considerata crudele o inusuale, nemmeno se quella persona fa parte del circa 4% di condannati ingiustamente. In ogni caso, l’esecuzione deve essere il più possibile asettica e priva di dolore: il metodo preferito è quello dell’anestesia totale del condannato, che quindi viene sedato perché non provi dolore, o quantomeno non mostri di provarne agli occhi dei testimoni. Come Clayton Lockett, giustiziato nel 2014 dopo quaranta minuti di agonia, durante i quali tentò anche di sollevarsi sul lettino e di parlare.
A questo punto è importante dirlo: Trump non c’entra niente. Quello che succede in Arkansas non è legato alla presenza nella Casa Bianca di uno dei presidenti più razzisti e noncuranti dei diritti umani della storia degli Stati Uniti. Il problema ha a che vedere con il sistema giudiziario americano, tenuto insieme da tenui indicazioni generali e più o meno lasciato all’autodeterminazione dei singoli Stati. Per questo se uccidi qualcuno in Texas (un reato che in genere è di competenza della giurisdizione locale, a meno che non avvenga su terreno di proprietà del governo federale o in una riserva indiana) puoi essere condannato a morte, e in New Mexico (uno dei diciannove Stati che non prevedono la pena capitale) invece no; fermo restando che per alcuni crimini federali l’esecuzione è prevista in tutti i cinquanta Stati. È il caso di Dzhokhar Tarnaev, l’attentatore della maratona di Boston, condannato a morte con pena sospesa: negli ultimi cinquant’anni, solo tre delle sessanta condanne per crimini federali sono state eseguite.
Le manovre per l’abolizione della pena capitale, un tema controverso sul quale gli americani sono da sempre divisi nonostante il sostegno alla pratica sia in calo costante (anche fra i conservatori), sembravano essere iniziate con l’amministrazione Obama. Durante i suoi due mandati, l’ex presidente ha fatto commutare 1.715 sentenze per crimini federali e ha definito la pena capitale “profondamente disturbante”, ma non si è spinto fino a chiederne la sospensione in tutto il territorio degli Stati Uniti. È una di quelle cose – come la vendita di armi, come l’interruzione di gravidanza, come l’assenza di sanità nazionale e il divario enorme fra università pubblica e istituti privati – che gli europei faticano a capire. L’elezione di Hillary Clinton avrebbe forse tenuto viva la speranza di chi in America si batte perché la pratica dell’omicidio di Stato venga abolita, come nel resto dei paesi occidentali. La presidenza Trump, improntata fino dalla campagna elettorale al più vieto machismo e superomismo in salsa barbecue, non sembra orientata a mettere mano allo stato delle cose.
Che il sistema sia sbilanciato e profondamente influenzato da questioni razziali ce lo dice un dato in particolare, preso dal sito Death Penalty Information Center: dal 1976 a oggi, i casi di omicidio interrazziale si sono risolti con la pena di morte in 286 casi se la vittima era bianca e l’omicida nero; 20 volte in caso contrario. Numeri che vanno confrontati con il totale degli omicidi interrazziali: nel 2015, i bianchi uccisi dai neri erano il 15,8% degli omicidi totali, mentre i neri uccisi dai bianchi erano l’8,6% (dati di US.news). C’è una sproporzione evidente fra la quantità di condanne comminate ai neri che uccidono i bianchi rispetto al contrario, come se l’America fosse rimasta inchiodata a Il buio oltre la siepe. I neri sono da soli il 34,5% dei giustiziati dal 1976 a oggi, e rappresentano il 37,8% delle persone incarcerate. Il problema diventa evidente se confrontiamo queste percentuali con quelle totali della popolazione: nel 2015 i bianchi (inclusi quelli di origine ispanica) erano il 71% della popolazione, i neri poco più del 13%.
Tutto quanto sopra viene compreso meglio alla luce della funzione svolta dal sistema carcerario in generale. L’organo governativo che se ne occupa è denominato Department of Corrections, nome che starebbe a indicare una funzione rieducativa del carcere; nella pratica, il carcere negli Stati Uniti viene utilizzato come mezzo punitivo anche per infrazioni minori, come la guida in stato di ebbrezza (che in Italia, ad esempio, viene punita con una sanzione amministrativa a meno che qualcuno non si faccia male) o il possesso di piccoli quantitativi di droga per uso personale. Chi viene arrestato con l’accusa di reati minori può essere liberato su cauzione oppure – se non può permetterselo – rimane in carcere fino al processo. Questo vale per gli adulti come per i minorenni. Di fatto, il carcere negli Stati Uniti svolge una funzione punitiva: non sono pochi i politici locali che vincono le elezioni promettendo di aumentare la stretta sul crimine, il che si traduce in più arresti (ma non in efficaci politiche di prevenzione).
Lo stesso Trump, nel suo discorso di insediamento, ha dipinto il paese come un territorio in mano alle gang, un inferno su cui lui prometteva di far scendere il pugno di ferro della legge. Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York, deve parte della sua fama di “sceriffo” all’uso massiccio dello stop-and-frisk (fermo e perquisizione), la pratica di arresto, detenzione e interrogatorio di persone sospettate di portare armi o altre merci di contrabbando. La stragrande maggioranza dei fermati sono Latinos o afroamericani, e secondo un’analisi della New York Civil Liberties Union, quasi nove fermati su dieci erano innocenti. La mass incarceration, carcerazione di massa delle persone per reati non violenti, è impensabile in un sistema garantista come il nostro, che punta a comminare la reclusione solo ai soggetti socialmente pericolosi o colpevoli di reati gravi, e che impone regole molto severe sulla carcerazione preventiva. Un arresto sporca la fedina penale, e nelle comunità in cui la sorveglianza della polizia è massiccia si crea un circolo vizioso: ti arrestano per una dose di marijuana, finisci dentro, quando esci non trovi lavoro, finisci per affiliarti a una gang, commetti altri crimini, finisci dentro. È da storie come questa che nascono i Clayton Lockett, dentro e fuori di prigione fino allo stupro e omicidio di Stephanie Nieman, a cui Lockett sparò per poi seppellirla viva dopo essere entrato in casa sua a scopo di rapina.
In un quadro come quello descritto, orientato al giustizialismo e viziato dal pregiudizio, la riluttanza degli americani a mettere in discussione la necessità della pena di morte è molto più comprensibile. Non è nemmeno una questione di costi: dati alla mano, è dimostrato che un caso che porti a una sentenza di morte costa di più rispetto a uno che preveda l’ergastolo senza possibilità di uscita per buona condotta. L’avanzamento culturale rispetto alle modalità e condizioni della giustizia e del sistema carcerario ha reso l’esecuzione molto meno efficiente rispetto al diciannovesimo secolo, quando un processo sommario poteva portare rapidamente a un’economicissima impiccagione. I costi delle indagini, della carcerazione preventiva e della difesa sono più alti rispetto a quelli dei casi in cui non si prospetta la pena capitale: un carcerato vivo, insomma, costa meno di uno morto. Amnesty International e molti altri gruppi nazionali e internazionali si battono da sempre perché gli Stati Uniti abbandonino la mentalità di frontiera che li porta a custodire armi in casa e a sopprimere le persone socialmente indesiderabili. E nei prossimi quattro anni è legittimo pensare che questo non avverrà.