C on quel campanile sfigurato, la Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche è uno dei simboli della Berlino del dopoguerra. Data la sua sagoma, i berlinesi la chiamano affettuosamente il “rossetto”: un modo, anche, di esorcizzare i ricordi che evoca. È da queste parti che la notte del 9 novembre 1989 masse di berlinesi confluirono dal settore est per aggirarsi di nuovo tra le vetrine di Kurfürstendamm, una delle grandi vie del commercio, a ovest del centro e a pochi passi dal celebre zoo. A differenza di altri edifici bombardati durante la seconda guerra mondiale, la chiesa non è stata abbattuta né restaurata e si è invece scelto di mantenerla rudere come memento per le generazioni future.
Poco lontano da questo epicentro simbolico, ieri sera, alle 20:15, un TIR nero con targa polacca si è scagliato contro un mercatino natalizio. Quando scrivo il bilancio è di 12 vittime e 48 feriti, alcuni molto gravi. In una conferenza stampa tenutasi alle 11 di questa mattina, Angela Merkel ha confermato che non sembra trattarsi di un incidente ma di un atto deliberato, dalla dinamica molto simile a quello dello scorso 14 luglio a Nizza.
Quasi da subito sui media tedeschi sono circolate voci su un giovane arrestato a Tiergarten nel corso della notte e che sembrava essere alla guida del TIR. Inizialmente si è parlato di un ventitreenne di origine pakistana: poi, nel primo pomeriggio di oggi, una fonte interna alla Polizei avrebbe confidato a Die Welt che si potrebbe trattare dell’uomo sbagliato, e che il responsabile sarebbe ancora a piede libero, forse armato. Se fosse vero, sarebbe una sequenza di eventi purtroppo già vista: la tragedia seguita dalla caccia all’uomo. Ancora una volta assistiamo a una situazione in cui ogni ulteriore minuto d’incertezza è uno spiraglio attraverso cui filtrano paura, illazioni, reazioni di pancia e, soprattutto, la corsa a briciole di punti percentuali da riscuotere alle successive elezioni, che oltretutto in Germania sono prossime. Una concitazione che spesso si imprime nella memoria collettiva più delle verità ufficiali e delle definitive assegnazioni di responsabilità, e che, soprattutto, è molto eloquente della temperatura politica di un paese.
Com’è nel suo stile, Angela Merkel ha fatto un discorso asciutto in cui all’ovvio cordoglio ha però allegato un messaggio forte e chiaro: sarebbe molto grave se l’attentatore dovesse risultare uno dei tanti richiedenti asilo accolti negli ultimi mesi. Nel 2015 la cancelleria aveva presentato la sua Wilkommenpolitik come la risposta a un imperativo umanitario rispetto al quale la più grande democrazia d’Europa non poteva restare indifferente. È passato un anno e ora su quella decisione si giocherà il suo quarto mandato da cancelliera.
Del resto, se da un lato oggi Merkel incassa la solidarietà di esponenti di partiti storicamente avversari, tra cui Michael Muller, sindaco SPD di Berlino, che ha ribadito che non può esistere Berlino senza apertura e tolleranza; dall’altro c’è Frauke Petry, leader in ascesa del partito populista e nazionalista AfD, che dichiara che un attacco al Natale è una spina nel cuore delle tradizioni cristiane su cui si fonda il paese, e che, soprattutto, oggi ha ripetutamente squalificato ogni invito a mostrare umanità ed empatia come espressione di un “politicamente corretto” miope e poco patriottico.
Anche questa è una bobina già proiettata altrove, con i risultati che conosciamo. Data la storia tedesca, è però particolarmente rilevante notare come, nell’atmosfera incendiata di una grave crisi nazionale, aperti sentimenti di ostilità e richiami espliciti ad agire con forza come un singolo corpo nazionale, stiano trovando in queste ore, così come in altri momenti caldi del 2016, quasi la stessa agibilità e visibilità politica degli inviti istituzionali alla moderazione. È un fatto che, solo pochi anni fa, sarebbe stato impensabile.
È dal 1945 infatti che, quello che altrove si definisce come “il politicamente corretto”, in Germania è più di una semplice espressione. In Germania, “il politicamente corretto” dal dopoguerra in poi ha indicato qualcosa di così specifico e sentito da essere essenziale per la tenuta del paese. La Germania ha conosciuto, certo, la sua fetta di critici dell’ipocrisia insita – a loro dire – nella liquidazione di qualunque retaggio del passato, ma si trattava sempre di posizioni e/o di provocazioni intellettuali tanto eterogenee quanto minoritarie e/o condotte a livelli estremamente alti del dibattito culturale. Che alcuni punti fermi non fossero negoziabili è invece stata per anni quasi una fede per l’uomo comune tedesco, una fede che ha cementato la convivenza tra strati sociali ed estrazioni culturali diverse. Metterla in discussione è a lungo equivalso a una profanazione. Ai piedi di una chiesa profanata, ieri, forse potrebbe essere cambiato qualcosa.