L’ 11 febbraio 2017, il contadino francese Cédric Herrou venne condannato a una multa di 3.000 euro con la condizionale per aver aiutato degli immigrati irregolari ad attraversare il confine con l’Italia. Davanti al tribunale di Nizza sostenne la necessità di infrangere la legge se questo implica salvare delle vite. In precedenza aveva affermato: “Lo so che la legge è contro di me, contro quello che sto facendo per aiutare le persone in difficoltà, ma allora cambiamo questa legge. Le leggi devono essere fatte perché la società vada bene e la gente possa vivere insieme in armonia”. Il 3 agosto scorso, il senatore del Pd Esposito, invitato alla trasmissione Agorà ha detto:
Ci sono alcune Ong che hanno una posizione ideologica (o ideale dal loro punto di vista) per cui il tema è esclusivamente salvare vite umane, noi non ce lo possiamo permettere tant’è che il discrimine tra chi ha firmato il codice del ministero dell’Interno e chi non l’ha fatto segnala esattamente questo, perché il tema è intervenire oppure far finta di nulla.
Non amo prendere singole frasi come capri espiatori: è un esercizio abbastanza sterile. Ma quanto affermato dal senatore Esposito esemplifica uno stile di pensiero che vedo molto diffuso: userò dunque le sue parole come caso paradigmatico, e in molti sensi speculare alle parole di Herrou. Innanzitutto cercando di prenderle sul serio, per quanto inaccettabili. Il problema sul tavolo è antichissimo: quello del rispetto delle leggi – invocato esplicitamente da Esposito in una nota successiva – e dunque della priorità da dare a valori universali oppure locali. Dobbiamo agire da italiani, nel rispetto delle norme e delle presunte esigenze italiane (“non ce lo possiamo permettere”), o da esseri umani? Cittadini o persone?
Naturalmente il tema in sé è enorme. Ma credo che qui si riproponga una difesa ad oltranza della norma scritta o del calcolo sociale in quanto tale: una norma la cui lettera è verificabile, ma il contenuto altrettanto fallace – e sempre più povero di riflessione. (Il caso del ddl sulla sicurezza è speculare a quest’ultimo codice di condotta per le Ong). Azzardo un’ipotesi: proprio per mascherare questo vuoto di riflessione, si assume un automatismo tipico di una certa destra: la legge è questa, non giriamoci intorno. Annientando così in un colpo solo tutta la tradizione della disobbedienza civile, della non-violenza, dell’obiezione di coscienza: Capitini, Dolci e Gozzini spariscono (sono già spariti, ahimè) dall’orizzonte di pensiero. Chi ha riassunto meglio tutte le obiezioni a questo legalismo cieco è stato uno degli intellettuali che più ci manca: Luca Rastello. Nel suo breve scritto Il presente come storia, osserva:
Solo se penso di essere al culmine della storia umana, se credo in un progresso costante e perfetto rispetto al quale mi trovo nell’ultimo stadio posso attribuire alla legalità un valore assoluto. Se le cose non stanno così, la legalità rimane un valore al di là dei condizionamenti di potere, allora ha ragione Adolf Eichmann, quando difendendosi a Gerusalemme afferma di essere il rappresentante di una legalità voluta e costruita dal popolo tedesco attraverso un processo di consenso democratico e di non poter essere giudicato ex post dai vincitori della guerra. Se la legalità è un valore assoluto, indipendente dal contesto in cui viene invocata, Eichmann ha ragione e Sandro Pertini e Giovanni Pesce sono terroristi. Non c’è via di mezzo.
(Parentesi. Questo vuol dire giustificare un pieno illegalismo di contrasto, come si sente dire a volte nel movimento? No. Anche perché la categoria dell’illegalismo è tanto vuota quanto quella della mera legalità: perché non scegliere la norma camorrista? Non è cattiva polemica: se la domanda “Quale legalità difendiamo” è ottima, allora occorre rispondere anche a quella contrapposta: quale illegalità difendere? E perché non parlare di giustizia, invece di mimare il nemico?).
Dunque: difendere a oltranza un “noi” basato su un codice o una norma (elaborata naturalmente da “noi” stessi) dà un’immagine pericolosamente esclusiva del pronome, direi quasi un suo uso emergenziale. È come una mina piazzata all’interno di un dibattito comune, quello sull’alterità e l’immigrazione. Noi valiamo la pena di essere difesi ad ogni costo. Anche loro, ma solo se chi li soccorre sottostà a un codice (criticato da parti autorevoli, fra cui Medici senza frontiere). Chi fra noi non salva loro secondo le regole che noi dettiamo, deve farsi da parte; chi fra noi crede che loro vadano soccorsi in ogni caso, è un potenziale criminale. E l’unico punto cruciale, ovvero tutte le vite che andranno perdute in questo continuo avvitamento linguistico? Non importa. E chi sarebbe dunque questo noi? Credo che Esposito intenda “noi cittadini italiani”; al limite “noi europei”. A tal proposito credo valga la pena di rileggere alcune pagine di un libro attualissimo di Tzvetan Todorov, intitolato appunto Noi e gli altri.
Discutendo le derive del nazionalismo, Todorov osserva un corto circuito inquietante. Nel 1789 venne redatta la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in cui “non è mai contemplata la possibilità di un conflitto tra i diritti dell’uno e dell’altro”. Certo i principi costituzionali sono altra cosa dalla loro incarnazione pratica, e conosciamo bene le involuzioni della Rivoluzione francese. (Todorov sottolinea che Robespierre odiava gli inglesi, e attaccò Cloots perché preferiva chiamarsi “cittadino del Mondo” anziché “cittadino francese”).
Resta il fatto che per questo frutto dell’Illuminismo, la tensione tra i due poli viene ridotta il più possibile. È una lezione importante, ma che è stata ampiamente disattesa. Todorov ci spinge a fare un balzo in avanti di cent’anni, durante il caso Dreyfus: qui l’uomo e il cittadino sono ormai l’uno il nemico dell’altro; e Maurras potrà scrivere che “Il sentimento umanitario non esiste”. I semi del nazionalismo antidemocratico e del fascismo a venire sono solidamente piantati.
Il nazionalismo fa scudo a una crisi dei valori che dovrebbero appartenere naturalmente a qualsiasi gruppo democratico: i diritti universali, la storicità delle leggi, la capacità di pensare l’altro come essere umano e non mero numero.
Siamo di nuovo a questo punto? Non lo so, ma la caratura del discorso – al di là delle singole parole di Esposito – desta molte preoccupazioni. Il nazionalismo e persino l’europeismo d’accatto fanno scudo a qualcosa di molto peggiore: la crisi di tutti i valori che dovrebbero appartenere naturalmente non dico a una sinistra autentica, ma a qualsiasi gruppo democratico: l’attenzione ai diritti universali, la comprensione della storicità delle leggi, la capacità di pensare l’altro come essere umano e non mero numero o variabile politica; e più di tutto, un’empatia di base che sta evaporando quasi del tutto dal dibattito pubblico. Non dovrebbe servire l’esempio degli italiani che emigrarono in America e furono soggetti a discriminazione e razzismo. Dovrebbe bastare quel minimo di amore per le persone che porta con sé – a livello embrionale e imperfetto, certo – la volontà di “diminuire aritmeticamente il dolore del mondo”, per dirla con Camus: e impedire che delle vite vengano perdute per una fobia di massa che non trova alcuna base empirica, ma solo il linguaggio della destra fascistoide.
E così l’attenzione (e il carico di indignazione collettiva) si sposta dalla crisi umanitaria alle indagini a carico dell’Ong Jugend Rettet, dimenticando la mossa politica che sta alle spalle delle ormai costanti accuse nei confronti di chi effettua operazioni di salvataggio – una strategia che si gioca tutta sui corpi delle persone. Ecco: mi sembra che questa distanza fra “noi” – comunque vogliamo identificarci: diciamo quelli che stanno dalla parte giusta del mare – e “gli altri” stia diventando sempre più ampia. Una distinzione irriflessa, data per scontata, e ormai diffusa anche nel lessico di chi per istinto dovrebbe rifiutarla.
Certo un politico italiano è chiamato a rispondere delle necessità italiane; ma qui non si tratta di ingerenze in campi governativi stranieri: si tratta della questione — tutt’altro che banale, e urgentissima — della superiorità di un’etica sulla politica stessa, ridotta a esercizio di potere. Questo nel senso meno astratto possibile, perché mentre scrivo altre persone si stanno preparando al lungo e terribile viaggio che le porterà sulle coste africane del Mediterraneo e lì cercheranno di giungere in Europa. Garantire la piena libertà d’esercizio di chi vuole salvare le loro vite non dovrebbe nemmeno essere un tema sull’agenda; dovrebbe essere un’ovvia responsabilità morale.
Se abbandoniamo questi principi o li rigettiamo come nobile ma vago idealismo – nel nome di una realpolitik che puzza solo di cinismo – allora distruggiamo la preziosa eredità dei Lumi: quella “nostra” patria culturale che molti si affannano a difendere in altre sedi, più comode, con tutta la retorica necessaria. Ma questo sarebbe ancora poco, sarebbe una querelle da intellettuali: il punto è che corrodendo così il discorso pubblico ci condanniamo a una colpa non più redimibile. Come scrivono Heller e Pezzani nella sintesi del rapporto Blaming the Rescuers,
Fintantoché i migranti saranno costretti a ricorrere ai passatori a causa della mancanza di canali legali di ingresso, le operazioni di ricerca e soccorso proattiva rimarranno una necessità umanitaria, indipendentemente dal fatto che vengano condotte da governi o ONG. Solo un fondamentale riorientamento delle politiche migratorie europee che possa garantire un passaggio sicuro può mettere fine alle attività dei passatori e alla necessità di soccorrere in mare ogni giorno centinaia di persone in pericolo.
Quindi in che modo creare delle norme che si preoccupino innanzitutto degli esseri umani coinvolti in questo momento epocale? Perché non soffermarsi sulla necessità di un corridoio umanitario, e invece liquidare il problema con una condanna a morte di massa? Perché accusare le Ong di fare ciò che fanno, ovvero porsi l’assoluta priorità di salvare vite? Perché non porre come questione primaria l’immane quantità di dolore generata dalla frontiera mediterranea, e i morti che pesano sulla buona coscienza europea? Perché non domandarsi, come ha fatto l’Economist, cosa succederebbe se le frontiere stesse venissero abolite? Perché, infine, tutta questa cattiveria e paura anche in ambiti dove dovrebbero fiorire la razionalità e il coraggio? Tutte domande che, mi sembra, pochi politici si pongono. Forse perché hanno già le risposte, e suonano spesso terribilmente uniformi nella loro disumanità.