

D a Gordon Gekko a Jordan Belfort di The Wolf of Wall Street, abbiamo sempre associato il trading finanziario a gessati, champagne, sigari, yacht. Un’estetica da parvenus che ben si accosta al concetto di “soldi facili” che il mondo della speculazione inevitabilmente richiama. Eppure sono ancora in pochi a farsi attrarre dalle sirene della finanza: secondo una ricerca del 2019 dell’università di Gent, solo il 4,5% delle famiglie italiane investe direttamente sul mercato azionario. In Spagna e in Germania si sale sopra il 10%. Le cose sono abbastanza diverse negli Stati Uniti, dove uno studio Gallup del 2016 ha rivelato che il 52% delle famiglie statunitensi investe sul mercato azionario.
Sarebbe comunque sbagliato immaginare una cittadinanza a stelle e strisce che si ripartisce equamente i profitti del Nasdaq e del Dow Jones (cresciuti rispettivamente del 400 e del 200% negli ultimi dieci anni): a investire è infatti il 92% delle famiglie che fanno parte del 10% più ricco della popolazione degli Stati Uniti e soltanto il 15% di quelle che fanno parte del 20% più povero. Il risultato è ovviamente una crescita della diseguaglianza: la ricchezza finanziaria non viene distribuita, ma si accumula principalmente nelle tasche di chi è già ricco.
L’impressione, però, è che le cose stiano cambiando. E che anche “main street” oggi voglia la sua parte di torta. Costi quel che costi. Lo dimostra, tra le altre cose, il caso GameStop. Ricordate? Era il gennaio del 2021 quando un gruppo di utenti del subforum di Reddit chiamato WallStreetBets si organizzò per acquistare in massa le morenti azioni di GameStop (catena di negozi che vende videogiochi fisici in una fase in cui si scaricano online sulla console), facendo schizzare il prezzo da 10 dollari l’una a un massimo di 325 (oggi sono ancora a circa 120) e mandando in grave crisi investitori tradizionali e fondi speculativi che avevano invece scommesso sulla costante caduta libera del loro valore.
In questa occasione di parlò di “democratizzazione della finanza” resa possibile da un’applicazione come Robinhood (il nome è ovviamente un programma), che ha messo a disposizione dei suoi circa 25 milioni di utenti uno strumento che consente di operare sul mercato azionario con la stessa facilità con cui ordiniamo una pizza su Deliveroo e con lo stesso entusiasmo di un nerd che fa il record di uccisioni a Call of Duty.
Sono ancora in pochi a farsi attrarre dalle sirene della finanza. L’impressione, però, è che le cose stiano cambiando.
Furono gli stessi “pirati di Reddit” ad ammantare le loro azioni di una vena idealistica, dipingendosi come i vendicatori delle vittime della Grande Recessione (innescata dai mutui subprime). Una narrazione decisamente parziale: più che a tanti Robin Hood, ci siamo trovati di fronte a tanti piccoli aspiranti speculatori che solo incidentalmente si sono trovati dalla parte di Davide e che non avrebbero troppe difficoltà, sospetto, a stare da quella degli hedge fund-Golia qualora capitasse l’occasione.
La disintermediazione resa possibile dalle tecnologie digitali avrà pure democratizzato l’accesso agli strumenti finanziari, ma invece di rendere tutto più equo e più giusto lo ha reso ancora più estremo, più anarchico (nel senso di anarcoliberista); ancora più slegato di quanto già non fosse da quei principi razionali che dovrebbero regolare il mercato. Durante il caso Gamestop, la finanza è diventata vittima di una colossale trollata di Reddit, i cui protagonisti non si sono fatti scrupoli a causare perdite di denaro a chi è salito sul loro carro appena prima che decidessero di aver guadagnato abbastanza, facendo crollare il valore delle azioni del 90% in una ventina di giorni.
Speculazione per millennials
Quanto sia profonda l’impronta della cultura millennial in queste vicende non si vede soltanto dal fatto che gli speculatori di Reddit abbiano puntato su una catena di videogiochi, ma anche dagli altri mercati in cui si muovono. Mercati oggetto un tempo di semplice collezionismo e oggi invece al centro di movimenti monetari sorprendenti. Le sneakers, per esempio, generano un “secondary market” (quindi di compravendita tra singoli collezionisti) che nel 2019 aveva già raggiunto i 6 miliardi di dollari a livello globale e che potrebbe arrivare a 30 miliardi entro la fine del decennio. Nell’ottobre 2021 un paio di Nike Air Jordan (indossate dallo stesso Michael Jordan) sono state vendute per 1,47 milioni di dollari.
Un mercato che ha raggiunto livelli ancora più elevati è quello delle figurine (pardon: trading cards) sportive, che due anni fa valeva 13 miliardi di dollari e che secondo le previsioni arriverà a quasi 100 miliardi entro il 2027. Non si tratta più di innocuo collezionismo: scarpe, figurine, fumetti rari, action figures e altri simboli della generazione cresciuta tra gli ’80 e i ’90 sono diventati asset finanziari. Che dimostrano la volontà dei millennials non solo di entrare nel mondo della finanza, ma anche di dare vita a mercati speculativi creati a loro immagine.
La disintermediazione resa possibile dalle tecnologie digitali avrà pure democratizzato l’accesso agli strumenti finanziari, ma invece di rendere tutto più equo e più giusto lo ha reso ancora più slegato di quanto già non fosse da principi razionali.
E poi, ovviamente, ci sono le criptovalute: al centro di un intero ecosistema finanziario che si amplia e diventa più estremo ogni giorno che passa (ci arriviamo tra poco). È molto difficile farsi largo nella giungla di analisi che provano a stimare quante persone – nel mondo, in Europa, negli Stati Uniti – possiedono criptovalute, perché i dati variano grandemente tra loro. Le analisi più conservative – e probabilmente più affidabili – stimano l’8% di possessori di criptovalute negli Stati Uniti e il 5% in Europa. I proprietari di bitcoin e compagnia, prevedibilmente, non sono equamente distribuiti. Anzi: sono tutti millennials. Il 76,4% di chi ha acquistato criptovalute ha tra i 25 e i 40 anni, mentre un ulteriore 17,4% appartiene alla Gen Z (nati dopo il 1998). Alla Generazione X e quelle precedenti, cresciute in un’epoca in cui l’approccio all’investimento era completamente diverso, restano solo le briciole.
Dalle sneakers al trading selvaggio su Robinhood fino alle criptovalute, una cosa è certa: oggi i 30/40enni con disponibilità economica hanno una propensione molto maggiore a investire il proprio denaro. E considerati i mondi (e i modi) selvaggi in cui investono, si può affermare che siano molto più propensi a rischiare il proprio denaro, in settori più vicini al gioco d’azzardo che agli investimenti sicuri in titoli di stato che andavano forte tra le generazioni precedenti. L’obiettivo non è più quello classico del “tutelare i propri risparmi e magari guadagnarci qualcosa”: oggi l’obiettivo è “diventare ricchi nel minor tempo possibile”.
C’è chi, come il venture capitalist Rex Woodbury, ha messo in collegamento questa cinica e spregiudicata frenesia criptofinanziaria con il fenomeno delle grandi dimissioni e una più generale presa di coscienza generazionale: “Le regole su come creiamo e raccogliamo il valore economico stanno venendo riscritte, spalancando nuove strade a un tipo di ricchezza precedentemente limitato a pochi selezionati. I giovani d’oggi stanno guidando questa trasformazione rigettando alcune credenze assodate: che dovresti rimanere nella stessa azienda fino alla pensione; che tu debba stare incatenato alla scrivania dalle 9 alle 18; anche solo che tu debba lavorare per qualcuno. Quasi l’80% degli adolescenti afferma di voler essere il capo di se stesso; il 40% aspira a dare vita alla propria impresa. I giovani hanno visto i loro genitori e i loro nonni venir bruciati dalla Grande Recessione e poi ancora dalla pandemia. Questo li ha resi più cinici”.
La tokenizzazione dell’essere umano
Un cinismo in cui il desiderio di indipendenza e le criptovalute si incrociano in modi decisamente inediti. Sempre Woodbury racconta l’esperimento dell’aspirante tecnoimprenditore Alex Masmej, 23 anni. Non avendo il denaro necessario per trasferirsi da Parigi alla Silicon Valley e inseguire i suoi sogni, “ha fatto qualcosa a cui pochi avrebbero pensato. Si è tokenizzato. Vale a dire che ha creato uno strumento finanziario noto come ‘social token’, una forma di criptovaluta il cui valore ruota attorno a una persona che vende quote di se stessa. Da contratto, oltre a ricevere benefit di vario tipo (retweet, conversazioni private, ingresso nel suo network professionale, ecc.), i possessori della criptovaluta $ALEX riceveranno il 15% del reddito di Masmej per i prossimi tre anni, con un massimo complessivo di 100mila dollari”.
I giovani hanno visto i loro genitori e i loro nonni venir bruciati dalla Grande Recessione e poi ancora dalla pandemia. Questo li ha resi più cinici.
In questo modo, Masmej ha raccolto 20mila dollari in cinque giorni e ha potuto trasferirsi a San Francisco, dove ha lanciato la sua startup ShowTime (un social network ovviamente tutto a base di criptovalute, NFT, ecc. ecc.). Invece di raccogliere soldi dagli investitori, Masmej ha trasformato se stesso in una forma di investimento. “Come parte del progetto $ALEX, Masmej ha inoltre progettato una componente chiamata ‘Control my life’”, scrive ancora Woodbury. “I possessori del token potevano votare le sue scelte di vita: se dovesse correre 5 chilometri al giorno, smettere di mangiare carne rossa, svegliarsi alle 6 del mattino. Dal momento che avevano puntato sul suo successo, Masmej avrebbe seguito i loro ordini” (Masmej ha spiegato di aver considerato tutto ciò “un esperimento divertente”).
Se questo è il classico esempio estremo e distopico che – per usare l’ormai tradizionale formula – sembra uscito da un episodio di Black Mirror, altri esempi delle potenzialità di questi “social token” sono più comprensibili e accettabili. Woodbury fa il caso teorico di una criptovaluta $SWIFT legata alla cantante Taylor Swift. Immaginate se la celebrità del country avesse “tokenizzato” se stessa agli inizi della sua carriera, vendendo la moneta digitale ai fan disposti a scommettere sul suo successo. Mano a mano che la carriera proseguiva, queste criptovalute sarebbero diventate più desiderate e quindi sarebbero aumentate di valore. Questo non solo avrebbe consentito ai cantanti di trovare nuove forme di introiti, ma soprattutto avrebbe premiato i fan più accaniti, quelli che seguono l’artista fin dal giorno uno e hanno un ruolo importante nella promozione degli artisti. Una ricompensa economica per la loro opera di evangelizzazione.
Quello di Taylor Swift è un esempio teorico, ma forme d’investimento simili esistono realmente. Royal, per esempio, è una piattaforma che permette di investire nella musica, acquistando le azioni di una canzone e conquistando una parte dei diritti d’autore che matura nel tempo. Immaginate se cinquant’anni fa aveste potuto acquistare una piccola quota di “Mi ritorni in mente” di Lucio Battisti o “Smoke on the water” dei Deep Purple. Da notare che tutti questi scambi economici – come anche quelli che incontreremo nei casi successivi – sono automatizzati grazie agli smart contract, i contratti elettronici basati su blockchain che entrano automaticamente in esecuzione non appena le condizioni sottoscritte tra le parti vengono soddisfatte, riducendo così il rischio di truffe.
Uscendo dal mondo musicale ed entrando in quello sportivo, si può fare il caso di Jaylen Clark, giocatore di basket universitario nei Bruins della UCLA. I fan dei Bruins possono acquistare, come racconta Coindesk, il social token $JROCK e ottenere vari tipi di benefit. Diffondendo queste criptovalute, Clark è riuscito a monetizzare la sua attività nonostante ai giocatori universitari di basket non sia consentito alcuna forma di guadagno tradizionale (e pensare che la seguitissima NCAA cestistica ha un giro d’affari da 18 miliardi di dollari l’anno). E se Jaylen Clark, attualmente al secondo anno, dovesse venire selezionato in NBA? Quanto aumenteranno di valore i suoi token?
Tutti questi scambi economici sono automatizzati grazie a contratti elettronici basati su blockchain, per ridurre il rischio di truffe.
In altri casi, invece, è andato tutto per il verso sbagliato. Nel 2019, Spencer Dinwiddie era un promettente titolare dei Brooklyn Nets che combatté una battaglia con la NBA per avere il permesso di “tokenizzare” il proprio contratto da 34 milioni di dollari. C’è voluto più di un anno prima di riuscire convincere la lega a lasciargli fare questa bizzarra operazione. Nel frattempo, la carriera di Dinwiddie è deragliata. Da titolare dei Nets è diventato uno dei tanti panchinari che cambia squadra ogni anno per riempire i buchi. Risultato? Dei suoi 90 token da 150mila dollari l’uno ne sono stati venduti solo nove, che difficilmente aumenteranno di valore.
Il far west della criptospeculazione
Al di là dei singoli esempi e delle inevitabili esperienze negative – che sono parte integrante di ogni investimento/scommessa – c’è una questione più ampia. Il mondo promesso dalle criptovalute, dalle app che hanno democratizzato l’investimento, dai “social token” che rendono le persone stesse un asset finanziario ecc. è un sistema in cui tutto diventa speculazione. “La finanziarizzazione della vita e della cultura può distribuire valore economico in maniera più equa e corretta, ma il sistema dev’essere progettato affinché abbia delle salvaguardie per assicurarsi che non si arrivi a sacrificare la propria umanità”, conclude Woodbury. Se si gratta la superficie di questo nuovo “internet democratico basato sulle criptovalute” (e che è parte del vagheggiato web3), sul fondo si rischia di trovare tutt’altro: un sistema in cui l’obiettivo unico di qualunque cosa diventa la speculazione.
A restare scottati, come sempre, rischiano di essere i meno accorti, come già visto nelle molteplici storie di persone che si sono rovinate durante la bolla dei bitcoin del 2017/18. Se con la speculazione i ricchi tendono a diventare più ricchi, non si può sottovalutare il pericolo che i poveri diventino invece ancora più poveri. Questi rischi stanno crescendo a una rapidità folle. Il mercato del collezionismo basato su NFT (non-fungible token, fondamentalmente un certificato salvato su blockchain che attesta la proprietà di un bene digitale) è passato dai 100 milioni di dollari del 2020 ai 22 miliardi del 2021. Poco meno della metà del mercato globale dell’arte tradizionale (50 miliardi di dollari nel 2020). In quanti hanno investito in improbabili NFT (il video di una partita di Pokémon di Paul Logan, l’NFT della carta igienica, opere figurative di dubbia qualità create da Lindsay Lohan, il primo tweet di Jack Dorsey e altri ancora) pagati a peso d’oro e che, passata la sbornia, non varranno più nulla?
E poi ci sono la DeFi, la finanza decentralizzata basata su blockchain (in cui i prestiti ad alto rischio giocano un ruolo cruciale) dove nel momento in cui scrivo sono investiti oltre 70 miliardi di dollari (-30% rispetto a novembre), e anche la GameFi, la finanza dei videogiochi basati su blockchain. Il caso più noto è quello del gioco Axie Infinity, che permette di allevare, personalizzare, far combattere e poi vendere o affittare – ottenendo una quota dei guadagni conquistati nei combattimenti – dei mostriciattoli in stile Pokémon.
Il mondo promesso dalle criptovalute, dalle app che hanno democratizzato l’investimento, dai “social token” che rendono le persone stesse un asset finanziario ecc. è un sistema in cui tutto diventa speculazione.
Infine c’è il caso della “speculazione edilizia” virtuale. Il caso più noto è quello di Decentraland: una sorta di Second Life basato su blockchain che permette di acquistare appezzamenti digitali, costruirvi edifici digitali e poi venderli o affittarli a chi, per esempio, vuole organizzare una festa al loro interno. Decentraland è al centro di una corsa speculativa folle (alcuni terreni sono stati acquistati per milioni di euro) nonostante il gioco in sé sia semidisabitato e a tratti grottesco (si veda il ridicolo “rave nel metaverso”). Se le cose non cambiano, sembra essere la premessa perfetta per lo scoppio di un’altra bolla.
Se il web 2.0, quello dei social network, nasceva promettendo di “rendere il mondo un posto migliore connettendo l’umanità” (rivelando poi una realtà a base di capitalismo della sorveglianza), il web3 nasce con l’idea della decentralizzazione di internet e distribuzione della ricchezza, ma si sta dimostrando un far west speculativo folle, dai rischi elevatissimi, dalle bolle che scoppiano in continuazione e in cui riuscire a capire se, sotto tutto ciò, ci sia anche un po’ di sostanza è sempre più difficile.
E le stroncature infatti abbondano. Il seguitissimo blogger e programmatore Stephen Diehl ha definito il web3 “una stronzata”, basata su una tecnologia come la blockchain che continua a essere “una soluzione in cerca di problemi”, afflitta da insormontabili problemi di scalabilità e non solo. Al di là delle questioni tecniche, Stephen Diehl si è soffermato anche sugli aspetti per noi più rilevanti, quelli legati alla speculazione finanziaria che sta divorando internet. “È in corso un cambio di paradigma nella deregolamentazione finanziaria che darà vita a un nuovo anarco-capitalismo-da-casinò in cui ogni 14enne può lanciare dal nulla uno schema di Ponzi e pomparlo sui social media dalla sua cameretta. Un paradiso dei giocatori d’azzardo (…). È l’apoteosi di un capitalismo in cui il mercato fornisce un token finanziario per ogni meme, ogni celebrità, ogni movimento politico e ogni pezzetto di arte e cultura. È l’iperfinanziarizzazione di tutta l’esistenza umana. È davvero questo il mondo in cui vogliamo vivere?”.
Quello che dipinge Diehl è una sorta di scenario post-apocalittico capitalista: una giungla anarcoliberista in cui vince il più furbo sulla pelle dei meno furbi. D’altra parte, bastano i dati per vedere come la “distribuzione della ricchezza” promessa sia solo, appunto, una promessa. Come riporta Rebecca Jennings su Vox, “per il modo in cui questo tipo di informazione legato alle criptovalute si dissemina – in subreddit, in forsennati thread di Twitter, in server di Discord seguiti da nicchie – il mondo delle scommesse e degli investimenti è pesantemente dominato da persone che sono già ben rappresentate nel mondo tecnologico, della finanza e della cultura internet. Vendere e comprare criptovalute spesso dipende dai sussurri che avvengono in network di persone ben informate che si consigliano l’un l’altra in chat private su cosa comprare e quando”. Altro che distribuzione, prosegue Jennings: “La concentrazione della ricchezza dei bitcoin è 100 volte superiore a quella dell’economia statunitense. Lo 0,01% controlla il 27% dei 19 milioni di bitcoin attualmente in circolazione”.
Accelerazionismo finanziario
E se in verità dietro alle promesse rivoluzionarie si nascondesse solo una grande truffa? È un timore difficile da lasciarsi alle spalle quando ci si ritrova davanti ad alcune incredibili operazioni speculative. Nel luglio 2021 è stato venduto per 4 milioni di dollari un NFT che rappresenta l’immagine del cane protagonista del celebre meme Doge. A settembre, il valore di questo meme è schizzato a 225 milioni di dollari grazie a un’operazione di “frazionamento”. L’NFT in questione è stato infatti diviso in 17 miliardi di pezzi, collegati ad altrettanti token di cui il 20% è stato messo in vendita.
E se in verità dietro alle promesse rivoluzionarie si nascondesse solo una grande truffa?
Un’operazione che la testata Coindesk riesce serenamente a definire “un evento che riflette la richiesta in rapida crescita di proprietà frazionate di NFT: un modo nuovo e più semplice di partecipare al mercato sempre più costoso e volatile degli NFT”. O forse è un evento che riflette un ambiente fatto di speculazione folle e di ciarlatani degni dei venditori d’olio di serpente al circo Barnum. È davvero credibile che un miliardesimo di frazione della firma digitale che autentica la proprietà del jpeg di un meme debba avere un qualche valore se non quello speculativo fine a se stesso?
È possibile che gli NFT – in quanto semplice certificato – dimostreranno di avere utilizzi concreti, che la DeFi faciliti l’accesso al credito, che la GameFi possa generare introiti per appassionati gamer, che i “social token” permettano ad artisti e sportivi di individuare nuove forme di guadagno, che il web3 possa creare una nuova economia di internet partecipata e condivisa in cui anche le cause civili sono tokenizzate. Tutto ciò passa però in secondo piano osservando un mondo speculativo che ha raggiunto vette di follia che i più assetati squali di Wall Street non avrebbero mai sognato.
Difficile non vedere in questo mondo esasperato la realizzazione delle più ardite e oscure profezie di Nick Land: “La rivoluzione macchinica deve andare nella direzione opposta alla regolazione socialista: insistere per un’ancora più disinibita mercatizzazione dei processi che stanno sfaldando il campo sociale, ancor più lontano con il movimento del mercato, della decodificazione e della deterritorializzazione”, scriveva in un lontanissimo 1994 Land all’interno di Collasso (recentemente ripubblicato dalla Luiss University Press).
Osservando un mondo in cui la criptofinanza sta divorando ogni aspetto dell’esistenza, e in cui l’essere umano stesso diventa asset speculativo, il teorico dell’accelerazionismo e dell’illuminismo oscuro, da qualche parte nella Cina che l’ha accolto, se la sta senz’altro ridendo di gusto.