Q uando entro nel cimitero di Osobowice vengo avvolto da una sensazione che è allo stesso tempo dolce e malinconica. È la notte tra Ognissanti e il 2 novembre e il cimitero resta aperto per accogliere le persone che vengono a deporre una candela sulle tombe dei propri cari. È una tradizione fortissima in Polonia e così, camminando per Osobowice, che è il più grande cimitero di Breslavia, si resta colpiti dalla quantità di lanterne che punteggiano il buio. Rosse, gialle, verdi, azzurre. Davanti alla croce del viale centrale ce ne sono così tante che quasi non si riesce a passare, un mare di fiaccole che sfidano l’oscurità e la pioggia, che rende il terreno molle e bagna con pacata insistenza le persone che si aggirano per il cimitero. Non sono poche, nonostante l’ora. La mescolanza tra vivi e morti, tra luce e buio, ridisegna il camposanto e la sua atmosfera: tra buio e pioggia dovrebbe sembrare un luogo da film dell’orrore e invece mai come adesso sembra un luogo di pace. E di ricongiunzione.
Il rapporto che la Polonia ha con la morte è intenso e carico di simbologia. Una tensione che non può che attraversare, come un fiume carsico, anche il suo teatro – che è forse l’unico spazio collettivo, non razionale ma nemmeno necessariamente religioso, in cui possiamo confrontarci con la caducità dell’esistenza. Non è soltanto per questo, però, che Jarosław Fret ha dedicato ai rituali di possessione una sessione delle Olimpiadi del Teatro, che ha organizzato nell’ambito di Wrocław capitale europea della cultura (Wrocław è il nome polacco di Breslavia). Fret dirige l’Istituto Grotowski e per certi aspetti raccoglie l’eredità del grande maestro polacco, il cui teatro indagò la permeabilità tra performance e rituale. Candomblè brasiliano e Voodoo haitiano – presentati in sessioni da quattro ore in uno spazio ibrido, perché trasferire un rituale autentico su un palcoscenico rende evanescenti, più che permeabili, i confini dell’una e dell’altra cosa – sono un terreno di indagine quasi naturale. Ma lo sguardo antropologico non è sufficiente. Jarosław Fret e il suo Teatr Zar (che a sua volta deve il suo nome a un rituale di origine etiope) sono piuttosto a caccia di un’azione che possa uscire dallo spazio della rappresentazione teatrale. Non si tratta dell’ennesimo attacco alla quarta parete, quanto piuttosto di individuare delle connessioni, delle concatenazioni, tra chi agisce in scena e chi agisce fuori di essa.
Il nome di Ewa Klonowski è legato a doppio filo con la Bosnia Erzegovina, dove tutt’ora risiede.
Cerco di spiegarmi più concretamente. Mi ritrovo a Wrocław per partecipare a una discussione pubblica. Al centro del dibattito c’è sì un lavoro teatrale – «Gola» di Chiara Guidi, della Socìetas Raffaello Sanzio – ma c’è anche l’esperienza umana che ha fatto da scintilla per il progetto. Un’esperienza che risponde al nome di Ewa Klonowski, antropologa forense nata in questa città nel 1946 e poi fuggita in Islanda nell’81, quando in Polonia si instaurava il regime militare di Jaruzelski. Il nome di Ewa Klonowski, tuttavia, è legato a doppio filo con la Bosnia Erzegovina, dove lei tutt’ora risiede. Ventun anni fa, nel 1996, comincia una collaborazione con il Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia, prendendo parte alle attività per l’identificazione dei cadaveri sepolti nelle fosse comuni durante la guerra, in particolare a Srebrenica, che in seguito porterà avanti con il solo governo bosniaco. Dare un nome, un’identità, a un corpo che non l’ha più. A volte soltanto a un osso. In un paese dilaniato da una lotta violenta e fratricida non è solo un’azione importantissima, benché dolorosa: è anche l’accenno di una possibilità, per quanto parziale, di ricomporre l’infranto – per dirla con Walter Benjamin.
L’istituto Grotowski ha invitato Ewa Klonowski, Chiara Guidi e il sottoscritto a ragionare attorno al concetto di “witness action”, caro al loro percorso. La testimonianza e l’azione. Due concetti su cui io e Chiara Guidi avremo modo di discutere dal punto di vista delle estetiche, ma che nella biografia di Ewa Klonowski si fa subito azione politica. Un’azione che scava così a fondo nella coscienza collettiva di una nazione, mirando a una possibile rimarginazione delle ferite, tanto che qualcuno nel 2005 ha pensato di candidare Ewa al Nobel per la Pace. Decido allora di confrontarmi con lei sulla sua idea di testimonianza, prima dell’incontro pubblico.
II
Incontro Ewa nel caffè dell’albergo. Il suo sguardo è limpido e parla in modo molto diretto, ma tiene un tono di voce basso, discreto. Quando le chiedo cosa consideri, nel suo lavoro, una forma di testimonianza, mi risponde “molte cose”. E comincia a descriverle in concreto. La cosa che mi colpisce fin da subito è che, nonostante il suo lavoro abbia avuto inizio alla metà degli anni Novanta e oggi Ewa Klonowski abbia 70 anni, tutto il suo racconto si svolge sempre e comunque al presente.
“La prima cosa che facciamo è l’esumazione. Quando apriamo una fossa, scaviamo con estrema attenzione, finché non ci imbattiamo in un osso. Quella visione vuol dire che qualcuno è stato ucciso. Tutto comincia con l’osservazione, che è la prima forma di testimonianza. Osservando le ossa può capitare di vedere i segni di un colpo di pistola, e sono questi particolari a dirti qualcosa sulle cause della morte. Quella persona non è morta per un influenza, ma perché è stata uccisa. Questo è il senso della testimonianza.”
Il suo racconto è ricco di immagini di forte impatto, per chi, come me, non ha esperienza diretta dei segni della morte violenta. Ma come si fa a riconoscerli dopo tanto tempo, dopo che gli elementi hanno innescato il loro processo di livellamento e cancellazione della memoria? Lei mi risponde con una frase apparentemente semplice: “So osservare le ossa”. Un antropologo forense parte da una profonda conoscenza del corpo umano e quando il suo lavoro diventa seriale come nel caso di Ewa, che lavorato sulle fosse di Srebrenica, arriva il momento in cui sai far combaciare i pezzi come le tessere di un puzzle. Anche se, a causa del tempo, degli elementi e degli eventi, il suo lavoro presenta grandi difficoltà, a volte insormontabili.
“Devi sapere molto bene cosa cercare, e non è facile. Se trovi i resti di un teschio, mettendoli assieme puoi identificare se ci sono i fori di entrata e di uscita di una pallottola. Se invece non trovi segni sul teschio, occorre controllare lo stato delle vertebre del collo, dalla seconda in giù, per capire se la persona è stata sgozzata. Normalmente il coltello lascia dei segni su quelle ossa”. Il suo è un racconto allo stesso tempo cupo e ricco di pietà, perché le osservazioni più crude che Ewa compie sono tutte connesse al tentativo di restituire ai morti un’identità e dare così risposte tangibili ai loro cari. Per questo l’insistenza sugli aspetti più espliciti della sua professione non sembra un racconto macabro, quanto piuttosto un racconto di speranza.
Il lavoro di Ewa è tutto connesso al tentativo di restituire ai morti un’identità e dare così risposte tangibili ai loro cari.
“Cercare tracce sulle ossa non è semplice. È molto diverso rispetto a quando hai a disposizione un corpo. Su un corpo si possono fare esami che permettono di capire molte più cose sulle cause della morte. Quando qualcuno viene ucciso con un colpo di pistola allo stomaco, oppure muore dissanguato perché gli hanno reciso un’aorta, nulla di tutto ciò lascia segni sulle sue ossa. Se ciò che hai a disposizione è uno scheletro, o parte di esso. Il che vuol dire che non potrai più risalire alla causa della morte”.
Mi chiedo, in modo del tutto ingenuo, per quale ragione sia così importante cercare questo tipo di risposta. Perché un’identificazione effettuata tramite test del Dna – che dal 2003 è praticata su tutti i resti rinvenuti – non sia sufficiente a placare l’angoscia delle famiglie. Ma in fondo la risposta è semplice. Chi è stato privato in modo repentino e violento dei propri affetti ha bisogno di due cose, una tangibile e l’altra no: qualcosa di concreto su cui piangere, fosse anche un singolo osso, e una storia da poter raccontare.
È l’aspetto più umano, quello più basilare di questa “ricomposizione dell’infranto”, ma è anche quello che paradossalmente tendiamo a rimuovere. Ewa Klonowski se ne renderà conto fin dai primi momenti di questa esperienza che le segnerà la vita, portandola a vivere in Bosnia per vent’anni. Dopo aver risposto alla chiamata del Tribunale internazionale si accorse che i metodi utilizzati per l’identificazione in un certo senso negavano proprio quel tratto di umanità che avrebbe dovuto dare senso a tutta l’operazione. “Svolgevamo il nostro lavoro in una vecchia fabbrica in disuso. L’esaminazione veniva effettuata nei locali interni, ma disponevamo di uno spazio esterno dove effettuare il lavaggio delle ossa. Tutta l’area era chiusa da un recinto. Un giorno, mentre portavo avanti le attività di lavaggio, ho visto delle donne che mi guardavano attraverso la recinzione. Erano donne musulmane. Cercavano di intravedere qualcosa, qualcosa che gli parlasse dei loro cari. Se hai perso qualcuno e vedi delle persone lavorare sui resti dei morti, come facevamo noi, cominci a dirti ‘forse quelle ossa appartengono a mio marito, a mio figlio, a mio padre’. Cercavano risposte. A me quegli sguardi non disturbavano affatto. Ma il personale americano impegnato nelle operazioni ha scacciato le donne. La cosa mi ha molto infastidito. Ho cominciato a chiedermi per chi stessimo davvero lavorando. Il giorno dopo, quando sono tornata a lavoro, tutta la recinzione era stata coperta da lenzuola bianche, in modo che non si potesse più guardare all’interno”.
“Per me non era possibile lavorare in quel modo. Le ossa che maneggiavo non appartenevano a me o al personale della missione, ma a quelle donne. Erano i resti dei loro cari. Così ho finito il mio incarico e ho deciso che mi sarei rifiutata di lavorare ancora in questo modo. Non importa quanti soldi mi avrebbero offerto. Io stavo lavorando soprattutto per quelle donne al di là del recinto. Così successivamente ho cominciato a lavorare per la Bosnia Erzegovina, mantenendo un diverso rapporto con le famiglie”. Oggi, infatti, tutti sanno chi è Ewa Klonowski e che compito svolge. Oggi tutti la chiamano naša Ewa, la nostra Ewa.
III
C’è ancora incertezza sul numero dei morti. C’è chi parla di trentamila persone e chi di trentacinquemila. Dall’inizio delle operazioni ne sono stati identificate almeno ventitremila, seguendo modalità diverse. Prima del 2003, ad esempio, il test del Dna non era obbligatorio. Se i racconti dei testimoni diretti erano congruenti e venivano suffragati da abbastanza riscontri, si attribuiva l’identità del defunto senza ulteriori analisi di laboratorio. Ci si affidava alla memoria e alla capacità delle persone come Ewa di “leggere le ossa”, di capire la loro storia. Ewa racconta il caso di una donna bosniaca che aveva visto uccidere il marito di fronte casa e sapeva per certo che era stato seppellito sotto un certo albero. Poiché tutto era congruente si è proceduto con l’identificazione. Ma la storia di questa donna è un caso particolare. Perché trovare i resti di una persona in una fossa singola, la stessa in cui è stata seppellita dopo essere stata uccisa, viene considerato un colpo di fortuna. Così come è raro rinvenire, nelle fosse, oggetti dei defunti che aiutino nell’identificazione (anche perché i cadaveri, prima di essere seppelliti, venivano spogliati di tutto). Le cose, solitamente, sono molto più complesse.
“Le fosse primarie sono poche. Con questo termine si designano quelle fosse dove i cadaveri sono stati seppelliti appena uccisi e nessuno li ha più spostati. Quando apriamo queste fosse ci troviamo di fronte lo scheletro ancora nella posizione esatta in cui è stato seppellito il corpo. Bisogna aprire la fossa con molta molta attenzione, in modo da non compromettere la disposizione delle ossa, che vanno poi pulite con altrettanta cura. In questo sono molto bravi gli archeologi, che hanno la pazienza necessaria. Dopo di ché, per rimettere assieme lo scheletro una volta lavate le ossa, occorre il lavoro degli antropologi forensi. È una questione di esperienza. Una volta pulite le ossa so già istintivamente dove collocarle, come accoppiarle”.
Bisogna aprire la fossa con molta molta attenzione, in modo da non compromettere la disposizione delle ossa, che vanno poi pulite con altrettanta cura.
“La maggior parte delle fosse, tuttavia, sono fosse secondarie, dove spesso riusciamo a identificare solo pezzi di osso. In queste fosse i cadaveri molto spesso sono stati ammassati dopo essere stati prelevati dalle fosse primarie, stipati su dei camion in condizioni già compromesse e poi gettati in una nuova fossa. A volte questa operazione è stata ripetuta più volte, sommando alla rinfusa i contenuti di diversi camion. Quando ci troviamo di fronte a una situazione del genere il nostro lavoro diventa una vera sfida. Quello che riusciamo a ottenere, dopo un lavoro particolarmente attento, sono parti di scheletro. Alle volte con un colpo d’occhio riesco a capire quali resti appartengono a una stessa persona, quali parti vanno assieme. È una cosa istintiva, ma basata sulla mia conoscenza dell’anatomia. Altre volte, invece, ci troviamo di fronte a semplici pezzi di scheletro a cui non è possibile attribuire una provenienza”.
Quando le chiedo a quante persone ha restituito un’identità in vent’anni di lavoro lei ci pensa su e mi risponde che non è semplice da dire. Comunque sia, ritiene che i resti di circa diecimila persone siano passate per le sue mani. Una cifra vertiginosa, sia pure spalmata nel corso di vent’anni. E per quanto riguarda le persone ancora da identificare, la sua stima si aggira tra le settemila e le novemila. Una forbice che non si può ridurre con facilità, perché è legittimo supporre che, prima dell’introduzione del test del Dna obbligatorio, alcuni resti senza nome possano essere stati attribuiti a dei cadaveri a cui non appartenevano.
IV
Chiara Guidi, nel suo percorso personale che firma sempre con la Socìetas Raffaello Sanzio, approfondisce da tempo il potere evocativo della voce attraverso il lavoro teatrale. E la voce di Ewa Klonowski entra, fisicamente, col suo tono pacato eppure deciso, nel lavoro che Chiara Guidi presenta a Wrocław. Gola è un progetto per non professionisti, che Chiara allestisce di volta in volta con attrici differenti al termine di un laboratorio cui prendono parte. Gli elementi che si mescolano in questa partitura elegante e cinerea sono diversi. La voce di Ewa, appunto. Un racconto di Cechov. La figura della doula, una presenza femminile che si prende cura di un’altra donna, dalla gravidanza al post-parto. Tutto si mescola in una performance che assume i contorni di una ritualità contemporanea, reiterandosi in un ciclo ripetuto più volte che spezza la dimensione voyeuristica dello spettacolo. A Wrocław lo spazio che lo ospita aggiunge una strana e spettrale poesia: siamo in una stazione di treno chiusa, in via di ristrutturazione, fatta di architetture massicce e solenni, anche se di dimensioni tutto sommato raccolte.
Il lavoro di Chiara Guidi è prezioso perché inverte un processo che, in teatro, diamo per scontato e che invece è spesso fonte di equivoco. Di fronte alla tragedia che la realtà – come quella della guerra di Bosnia – ci pone sotto gli occhi, il riflesso condizionato è quello di trascinare in scena quella stessa tragedia. Di rappresentarla, cercando di evocarne il pathos. Come se il teatro fosse un mezzo di comunicazione tra gli altri, il cui unico scopo è quello di informare. Cosa ridicola se prendiamo come metro di giudizio l’audience che il teatro è in grado di raggiungere. Ma, soprattutto, azione che non coglie la potenzialità che lo spazio scenico offre – fin dai tempi delle tragedie antiche – al presente: la possibilità di creare uno spazio per interrogarsi sui nodi irrisolti, sulle contraddizioni, in definitiva sul dramma. Gola, con la sua partitura che sfiora la freddezza compositiva, crea invece quello spazio emotivo dove è lo spettatore stesso a interrogarsi sulla consegna che il racconto dell’orrore – la voce di Ewa, la sua testimonianza – fa alle nostre coscienze.
Nel suo intervento durante la nostra conversazione con Ewa, Chiara ribadirà questo concetto, la sua presa di distanza da un’idea informativa dell’azione politica del teatro. Testimoniare non vuol dire informare, ma interrogarsi e fare spazio. Può sembrare una contraddizione, ma è una contraddizione apparente. Fermo restando che esistono altri linguaggi e altre dimensioni per l’approccio storico alla testimonianza – il surplus che il teatro può apportare a un processo pubblico di consapevolezza sta proprio nello spazio d’ascolto che è in grado di aprire. Non è solo un problema di estetiche, quello posto da Chiara Guidi, ma più profondamente un problema di conoscenza – che proprio nell’epoca che stiamo vivendo mostra tutta la sua portata gnoseologica. Come fare a guardare l’orrore in faccia senza restare invischiati nel flusso “osceno” della comunicazione, dove ogni nuovo orrore che si pone alla nostra attenzione è allo stesso tempo nudo e invisibile? Basta pensare ai morti di Aleppo di questi mesi: più li raccontiamo e più le loro esistenze diventano evanescenti. L’esatto contrario dell’evocazione – sia essa reportagistica, artistica o politica – di cui in questo momento avremmo bisogno.