I l libro di Antonella Moscati Ellen West. Una vita indegna di essere vissuta è un grande dono per la lettrice e il lettore italiani, ma anche per colei che è stata chiamata Ellen West e di cui ancora oggi non si conosce l’identità. Moscati è tornata sul “caso” di una delle pazienti di Ludwig Binswanger, il fondatore dell’antropoanalisi o analisi esistenziale (Daseinsanalyse), tra i più importanti rappresentanti della psichiatria fenomenologica. Un rampollo della psichiatria – dal nonno istitutore del Sanatorium Bellevue, al padre, allo zio paterno, medico tra gli altri di Friedrich Nietzsche.
Ellen West: una nuova storia, la storia di un torto.
Quasi venticinque anni dopo averla avuta in cura a Kreuzlingen, Binswanger pubblicò la storia patologica di questa giovane donna, morta suicida pochi giorni dopo le dimissioni dal Sanatorium all’età di trentatré anni. Uno dei primi casi celebri di anoressia-bulimia, stando agli inquadramenti psicopatologici, e però non riconosciuto al momento come tale, malgrado l’anoressia fosse nota in ambito psichiatrico e psicologico già da più di mezzo secolo. Ellen West era schizofrenica secondo Binswanger – appena giunta nella sua clinica l’aveva data per malinconica in verità –, nonostante il suo contatto con la realtà e le sue capacità intellettive non fossero mai risultati intaccati, anzi. Prima di allora, gli altri medici che l’avevano avuta in cura formularono svariate diagnosi, dalla “depressione endogena” alla nevrosi ossessiva con tratti isterici o paranoici, a disturbi di origine tiroidea. Nessuno prese in considerazione l’anoressia. Si giunse così al consulto finale nel Sanatorium Bellevue, quello che decretò “l’inguaribilità” di Ellen West (dopo soli due mesi e mezzo di ricovero), dunque le dimissioni della donna, con consapevole e tacita legittimazione del suicidio. Ella aveva tentato infatti di togliersi la vita già più volte nei mesi precedenti all’arrivo a Kreuzlingen e aveva poi continuato a parlare di questa possibilità in modo esplicito. Nel Caso Ellen West di Binswanger si trova il riferimento a un “secondo psichiatra” senza nome, oltre a Eugen Bleuler, convocato al consulto. Si trattava di Alfred Hoche, autore, insieme al giurista Karl Binding, del pamphlet Il permesso di annientare vite indegne di essere vissute, futuro caposaldo dell’eugenetica nazista. Il testo all’epoca del consulto era già stato pubblicato – uscì nel 1920; e ai tempi della prima edizione del Caso Ellen West, 1944-1945, in Svizzera non sarebbe stato conveniente fare questo nome.
Il consulto servì dunque a ratificare la prognosi negativa di Binswanger, non a confrontarsi sulla diagnosi, ancor meno sulla terapia. Così scrisse tredici anni dopo, nel 1934, lo stesso Hoche: In una casa di cura straniera, fu ricoverata una giovane donna estremamente dotata, […] ricca d’interessi intellettuali d’ogni genere, ma destinata ad ammalarsi, a brevi intervalli, di forti depressioni accompagnate da stati ansiosi; lei stessa e suo marito, […] decisero che fosse meglio porre fine alla sua tormentata esistenza. Ai medici chiamati a consulto fu chiesto se si trattasse di una vita ancora degna di essere vissuta, se cioè ci si potesse aspettare una trasformazione della curva dell’andamento della malattia in tempi non lontani; fummo costretti a rispondere negativamente. La donna, […] si mise in viaggio con il marito ancora nella prospettiva di trascorrere alcuni giorni sereni; poi prese il veleno che il marito le aveva procurato, e morì in pace; l’aiuto di lui non era punibile, perché il suicidio non è penalmente perseguibile.
E perché Ellen West lasciò un messaggio che assicurava dell’estraneità del marito ai fatti.
Ellen West fu giudicata una vita non più degna di essere vissuta. Prima che la storia di un fallimento teorico, cioè di un errore diagnostico, e di un fallimento psicoterapico, questa è la storia di un torto, ha scritto a ragione Antonella Moscati. La storia di un duplice “incontro fatale”: quello tra Ellen West e Binswanger, quello tra il marito (cugino) di Ellen West e Binswanger. Fatale per la donna non è stato solo lo sguardo psichiatrico, ma anche lo sguardo maschile. La complicità Binswanger la instaurò con Karl West (nome fittizio sempre), non con lei. Con lei fu reticente sulla sua malattia – proprio nel diario di Karl West si legge che Binswanger la reputasse una bambina e che quindi a suo avviso come tale andasse trattata. La terapia, fin dalla prima diagnosi di malinconia, fu esigua, da una lettera di Ellen West si evince che consistesse in un paio di visite al giorno per farle “coraggio” e che il resto era stato affidato al “tempo” e alla “quiete”. Colloqui brevi, soprattutto, rifiuto di fare uso della psicanalisi – Binswanger era convinto non servisse. Ai colloqui fugaci con lei fanno da contraltare quelli intensi con Karl West. Ne nacque una vera e propria amicizia, che ebbe seguito anche dopo la morte della donna. Ellen West non venne mai considerata un soggetto capace di autonomia. Oggetto delle loro osservazioni e analisi, le fu detratto il potere su di sé – certo facendo leva sulla sua immane sofferenza, che la condusse a un apparente affidamento consensuale.
Ellen West fu giudicata una vita non più degna di essere vissuta. Prima che la storia di un fallimento teorico, cioè di un errore diagnostico, e di un fallimento psicoterapico, questa è la storia di un torto.
Così i due arrivarono a discutere per quanto ancora ella avrebbe potuto sopportare una tale sofferenza – lei o loro, Karl West in particolare? Nel frattempo suonarono anche insieme, dall’altra parte del Sanatorium, in casa Binswanger, Brahms e Beethoven. E una volta stabilita l’irreversibilità del “processo patologico”, iniziò la discussione sull’“eutanasia”. Così scriveva Karl West, 12 giorni prima del consulto: “Gli dico con franchezza che, se le cose stanno così, non voglio aspettare indefinitamente. Lui dice che la responsabilità e la decisione ultima spettano a me”. Difficile a credersi, ma Alfred Hoche espresse una posizione più possibilista di Binswanger, affermando peraltro qualcosa di disarmante nella sua crudezza su Karl West. Rivolgendosi al collega svizzero due giorni dopo il consulto: “Se ora l’oggetto West non sarà spinto nell’Ade in maniera semi-attiva dal marito, questa apertura facoltativa della porta d’uscita [le dimissioni dalla clinica] potrebbe forse avere un effetto favorevole su ciò che nel suo stato è mediato psichicamente”.
La gabbia interpretativa della Daseinsanalyse suonò la condanna a morte di Ellen West. Stando alle categorie psichiatriche heideggeriano-esistenziali, schizofrenia significava vita “ontologicamente deficiente”: a partire da una ostinata chiusura al mondo, Ellen West sarebbe stata incapace di riappropriarsi della sua peculiare condizione di finitezza e deiezione per costruirvi, in consapevole bilico sull’abisso, un autentico progetto esistenziale. Una simile chiusura avrebbe progressivamente annichilito le possibilità di questa esistenza: la barriera eretta contro l’Umwelt (il mondo ambiente o circostante) e il Mitwelt (il mondo in comune o condiviso) avrebbe coinciso con un eccesso di investimento sull’Eigenwelt, sul mondo proprio in quanto anzitutto proprio mondo corporeo – sfera dell’immanenza, della coazione a essere (Seinmüssen), della dipendenza. Da qui il ribellismo di Ellen West, la lotta interiore, destinata al fallimento, tra un mondo greve, para-animale e il desiderio di un sé etereo, incorporeo, libero dalle catene della materialità, della costrizione biologica. Lo scacco dell’accesso alla trascendenza l’avrebbe paralizzata in via definitiva nella cella dell’“animalità” (Vertierung) che risponde all’eterno e inautentico presente dei bisogni – mangiare, espellere cibo; oralità, analità –, consacrandola così alla morte, ossia al suicidio. Morte che, nel Caso Ellen West, Binswanger lesse nei termini dell’unico atto di autenticità di cui fu capace la sua paziente: se il senso o il desiderio profondo del suo essere era la morte, col suicidio ella avrebbe finalmente trovato se stessa. Successivamente, nell’Introduzione al volume sulla Schizofrenia (1957), egli la interpretò invece come l’ultima manifestazione inautentica di una vita che non era riuscita a farsi esistenza. Fino all’aberrante formulazione secondo cui il suicidio di Ellen West non sarebbe appartenuto all’ambito dello Sterben, del morire esistenziale assunto dal soggetto in quanto possibilità più propria, ma a quello dell’Ableben, della mera cessazione fisiologica della vita naturale.
L’“animalità” in cui sarebbe “caduta” Ellen West aveva a che fare dunque col suo rapporto drammatico e colmo di sofferenza col cibo. Una vita giudicata incapace di trascendersi in un progetto, di accedere alla storicità, non poteva che essere ritenuta, come l’animale (è sempre Heidegger), un grado inferiore nella gerarchia ontologica. Di qui il paradosso: Binswanger che avrebbe voluto ampliare l’angusto determinismo scientifico della psichiatria attraverso le categorie esistenziali ha finito per aderire a un normativismo astratto ben più rigido e, al di là della teoria, fatale per la vita altrui, appunto. Ma c’è di più in quest’ossessione per la differenza definitoria dell’umano rispetto all’animale. L’angoscia, fino alla repulsione, dello stesso Binswanger per il corpo pulsionale, per quell’homo natura che reputò ancora al centro della psicanalisi freudiana, per questo tacciata di positivismo. Così tornò a esprimersi, poco dopo la pubblicazione del Caso, Binswanger su Ellen West: Lì avete visto […] l’esistenza nella forma felice di un uccello che si leva nell’aere […] e infine […] l’esistenza nella forma di un verme cieco, che striscia sulla terra melmosa, […] in un buco angusto. E soprattutto qui avete visto che cosa […] significhi per la ‘mente’ la ‘malattia mentale’, […] con il risultato che di tutta la ricchezza del ‘mondo’ […] ‘non resta più nulla’ se non il grande, vuoto buco’. Ciò che resta è l’ingozzarsi animale, il doversi riempire la pancia in maniera pulsionale e urgente.
Alla presunta replica riduzionista della psicanalisi, Binswanger rispose con la riproposizione intransigente della tradizionalissima dicotomia tra mente e corpo, natura e storia; alla superiore “‘concezione agglomerata’ dell’essere umano come unità di corpo, anima e spirito”, secondo le parole di Karl Jaspers, oppose l’unica “idea ontologico-fondamentale dell’esistenzialità”. Soprattutto, Binswanger rispecchiò, duplicò e corroborò il rifiuto per la vita corporea della sua paziente, ne rafforzò cioè la scelta anoressico-bulimica. Scelta, perché di posizionamento del soggetto si tratta: la disaderenza rispetto al bisogno fisiologico della nutrizione, gli eccessi anoressici e bulimici, sono infatti fenomeni propriamente umani, dichiarazione di un distacco dalla movenza inversa a quella dell’essere animale.
L’idea fissa e l’Ideale dell’Io.
A Ellen West è stata restituita la voce. Prima in Germania nel 2007, grazie al mirabile lavoro di raccolta dei suoi testi – diari, trascrizioni di sogni, lettere, poesie, prose, autodiagnosi – a cura di Naamah Akavia e Albrecht Hirschmüller; ora anche in Italia grazie allo studio di Antonella Moscati (ma ricordiamo pure i precedenti lavori di Carl Rogers e Annelore Homberg). Un archivio, che non solo ci fa scoprire la parola su di sé di questa donna, ma che ne ha rivelato anche la grande levatura intellettuale e poetica, oltre che morale. Un dono, dicevamo all’inizio. Affiora allora una Ellen West autrice, oltre che paziente; acuta, raffinatissima. Tanto che Moscati si interroga giustamente sulla liceità del mantenimento del segreto professionale senza limiti temporali relativamente all’identità di pazienti di questo tipo. Non significherà forse ripetere il torto già subito in vita da Ellen West?
Idea fissa, è il nome dato dalla donna alla propria malattia. Colpiscono l’intuizione e la sensibilità nosografiche: nella ricostruzione genealogica del dibattito psichiatrico sull’anoressia a cavallo tra Otto e inizio Novecento che Antonella Moscati compie nella seconda parte del suo libro, fanno eco alle autodescrizioni e riflessioni di Ellen West le osservazioni cliniche di Pierre Janet, in particolare quelle sul caso di una sua paziente anoressica, “Nadia”, che mostrano come il rifiuto del cibo sia avvenuto proprio in conseguenza di “un’idea”. Ellen West fu sempre consapevole del carattere patologico, delirante, della propria idea fissa: la giudicava, razionalmente la criticava, la detestava, ma affettivamente non le riusciva il commiato, ogni volta ricadeva sua vittima. Di “lucida follia” parlò pure il suo primo analista, Viktor Emil von Gebsattel – con cui la terapia fu interrotta finendo lui convertito a una setta religiosa. Questa idea ipertrofica, invasiva fino al condizionamento dittatoriale della vita, inizialmente Ellen West la chiamò anche desiderio (Wunsch). Un desiderio singolarmente negativo: quello di non ingrassare o almeno di non diventare più grassa di quanto non fosse nel momento esatto in cui scriveva. Era l’Ideale dell’Io a parlare, a stabilire un imperativo tanto indeterminato da disegnare, rispetto alla meta, un asintoto della mortificazione. Un Ideale, che chiama in causa il corpo sessuato fin dal principio; che è anche e non secondariamente manifestazione di un dissenso politico. Ecco cosa scriveva la giovane Ellen West, prima che la malattia esplodesse: Non abbiamo alcun diritto di tapparci le orecchie al grido della miseria e passare con gli occhi chiusi accanto alle vittime del nostro sistema. Ho ventun anni e devo tacere e sorridere come una bambola. Non sono una bambola. Sono un essere umano in cui scorre sangue vivo e sono una donna con un cuore palpitante. […] voglio fare qualcosa di grande, e devo avvicinarmi un po’ al mio ideale, al mio fiero ideale!
Il sistema che avrebbe voluto combattere è il medesimo che, ancora oggi, produce povertà e “bambole”. In questione era anche il rifiuto di un ruolo sociale, che si vorrebbe destinale a partire dal sesso di nascita; che ha lavorato dentro Ellen West, che lavora dentro di noi, incistandosi “affettivamente”, anche quando razionalmente lo si decostruisce. Negli anni della sofferenza, quando l’Ideale aveva ormai preso in ostaggio il corpo, scriveva: “Il mio conflitto sta nell’ambivalenza fra maschile e femminile, fra l’anelito di libertà e l’anelito di costrizione”.
Affiora allora una Ellen West autrice, oltre che paziente.
Prima di arrivare da Binswanger, Ellen West tentò anche una seconda analisi (interrotta probabilmente su condizionamento del marito), con Hans von Hattingberg, con cui, pur con profondo tormento, cominciò ad avvicinarsi al tema del suo rapporto con la sessualità. Si sa già da Freud che nell’anoressia qualcosa è andato storto nel “padroneggiamento dell’eccitamento sessuale”. Qualcosa che ha a che fare col nesso primordiale tra fame o pulsioni dell’Io e eros o pulsioni sessuali; le seconde, originariamente “appoggiate” alle prime – solo in seguito divengono indipendenti –, nella misura in cui i primi soddisfacimenti sessuali sono legati alla sfera dell’autoconservazione, ossia della nutrizione, della cura – di qui, la madre, o chi ne fa le veci, come modello della scelta oggettuale amorosa (si vedano il Caso clinico dell’uomo dei lupi e Introduzione al narcisismo). Risulta che Ellen West a nove mesi di vita cominciò a rifiutare il latte, venendo in alternativa nutrita con brodo di carne. Da Donald Winnicott anche abbiamo appreso il legame intimo tra sviluppo emozionale del soggetto e appetito, oralità, come il dubbio sul cibo venga usato, per esempio, per nascondere, ossia esprimere ricattatoriamente, il dubbio sull’amore. Ancora Freud ha evidenziato come molto spesso il rifiuto della sessualità durante l’età puberale, in particolare nelle fanciulle, si manifesti attraverso l’anoressia: gestione della transizione, del processo di differenziazione e soggettivazione, attraverso la separazione radicale; volontà estremistica di un’autonomia assoluta volta a governare l’angoscia della perdita di padronanza (l’assimilazione confonde i confini). Altrettanto, il rifiuto del cibo e del corpo sessuale è frequentemente la risposta al trauma di violenze subite: rifiuto del corpo inerme, oggetto di godimento dell’altro abusante tramite la scelta attiva della negazione anoressica; de-sessualizzare il corpo, affinché non possa essere più posto nel luogo del godimento violento dell’altro. Soggetto volontaristico contro l’oggetto-pezzo di carne.
Cosa è accaduto a Ellen West? Difficile a dirsi – senza considerare peraltro una storia familiare segnata dalla sofferenza psichica. In un appunto del suo diario del periodo dell’analisi con Hattingberg si legge: “Mangiare, succhiare il pollice, ingrassare vuol dire isolarsi dal mondo. Non mangiare, essere magra vuol dire vivere con altri esseri umani, con coloro che sono il mio ideale, i biondi, i più elevati” – Ellen West era ebrea. L’Ideale – l’incorporeo, l’etereo spirituale, l’ariano – prescriveva le condizioni di accesso al consesso degli umani. Un resoconto successivo di Hattingberg riporta questa associazione riconosciuta dalla donna: mangiare = essere fecondata = rimanere incinta = diventare grassa. Da più giovane ella aveva dubitato della fertilità e della bellezza del proprio corpo. Poco dopo il matrimonio ebbe un aborto spontaneo.
In Ellen West più antica era la fame, l’idea fissa operava come il tentativo perpetuo di inibire la voracità arcaica, “l’elemento animale” che si esprimeva col sintomo bulimico e che la terrorizzava. Da cui l’oscillazione tormentosa: l’idea fissa che le intimava di non ingrassare e la “rappresentazione coatta” (Zwangsvorstellung) che la costringeva a pensare continuamente al cibo. Il paradosso punitivo: lo sforzo titanico di emanciparsi dalla vita animale e il rimanervi incastrata corpo e anima, come un “pavido verme” (sì, lo stesso termine di paragone usato da Binswanger). L’assoluta indeterminatezza dell’ingiunzione funse così da formula incantatoria di blocco del tempo: eterno e infernale presente pietrificato dalla paura del mutamento. L’angoscia di Ellen West si chiamava “divenire”, “possibile”, “vita”. La paura di mangiare, di ingrassare, di modificarsi secondo le leggi del cambiamento organico fu al fondo paura di vivere: “Questa è la cosa orribile della mia vita: è piena di paura. Paura di mangiare, paura di aver fame, paura di avere paura”; e poi: “Sì, ora so che cosa significano i sentimenti di paura nel cuore: paura della vita”. “Paura dello sconfinato”, l’ha anche definita. Forse, paura del femminile? Dell’apertura che il venir meno dell’idea fissa avrebbe potuto schiudere, spalancare dinanzi a lei? Paura della sperimentazione di qualcosa d’altro rispetto al dualismo maschile/femminile-libertà/costrizione? Né ascesi né caduta, ma spazio di mezzo, dove “Con tutti gli occhi vede la creatura / L’aperto” (Rilke).
Fare il vuoto. Della distruzione dell’Io come atto politico.
Il gesto anoressico è un eminente gesto politico. Che esprime la grande moralità dell’ascesi. Prima dell’anoressia come categoria diagnostica, psicopatologica, ci sono state le sante anoressiche d’altronde – da Chiara d’Assisi e Caterina da Siena fino a Simone Weil. Se Ellen West, pur aspirando all’abbandono, era terrorizzata dal vuoto, la santità che passa per l’arte del digiuno, vuole il vuoto, vota l’esistenza a questa disciplina. Una tecnica del sé che mira all’oltrepassamento del limite, tracciando un percorso che dall’identificazione narcisistica con l’Ideale dell’Io perviene all’esperienza mistica della de-individuazione. Simone Weil poc’anzi nominata nei suoi diari invocava l’accoglienza del vuoto come “suprema plenitudine” e la depersonalizzazione, la “distruzione dell’Io”, come unica via per raggiungere lo “stato di perfezione”: “in ciò che si chiama Io non c’è nessuna sorgente di energia che permetta di elevarsi”, scriveva, nel distacco dal mondo, dagli oggetti del desiderio, nella sospensione del “lavoro dell’immaginazione che colma i vuoti”, sì. Soltanto una tale separazione, che è imitazione della rinuncia di Cristo, può essere foriera del dono della grazia, quindi della leggerezza e dell’elevazione. In questione è un esercizio metodico, indefesso, di liberazione dall’“attaccamento” alla carne del mondo, dalla dipendenza; una volontà del nulla che arrivi ad annichilire la stessa intenzionalità soggettiva per lasciar essere finalmente la luce spirituale e solo di essa nutrirsi. In questione è l’abbandono delle leggi della pesantezza e della fame, che sarebbero le leggi del “peccato”. La creazione medesima, del resto, era concepita da Simone Weil come un movimento di ritrazione di Dio: secondo un atto passivo-creativo che ricorda quello della Qabbalah di Yitzhak Luria, Dio farebbe essere il mondo ritirandosi e facendo spazio, non forgiandolo ex nihilo. Questo è anche il vero amore, l’opposto della brama proprietaria dell’amante che ama l’amato o l’amata “come un avaro il suo tesoro”.
Il sistema che avrebbe voluto combattere è il medesimo che, ancora oggi, produce povertà e “bambole”.
Il ritrarsi dell’Io come esito paradossale della volontà ostinata che anzitutto fa muro contro il mondo esterno, il suo ordine, contro l’eteronomia, è l’esito anche del Digiunatore di Kafka o di Bartleby lo scrivano di Melville. Due grandi esempi letterari di ascesi anoressica. Quello di Kafka è un artista del digiuno (Ein Hunger-Künstler), che della fame – del bisogno – si riappropria attraverso la durissima tecnica dell’astinenza; la sua perizia sta nella conquista della piena padronanza di sé nel contesto della soggezione. Fino alla sparizione di sé: il digiunatore muore nella sua gabbia di inedia e più non si distingue ciò che resta del suo corpo, delle sue ossa, dalla paglia. Ma il paradosso qui è duplice: questa arte inerisce infatti all’essenza del digiunatore, non è questione di libera scelta, ma di necessità, egli ubbidisce alla sua arte come l’animale all’istinto. Ecco il punto: contrariamente a Ellen West, la padronanza virtuosa della fame ambisce in questo caso al divenire animale, alla suprema coincidenza di necessità e libertà – grazia, di nuovo. Una volta morto, il digiunatore sarà rimpiazzato nella gabbia da una giovane pantera, “belva selvaggia”, il cui corpo nobile, imponente, guizzante forza, bellezza e “gioia di vivere” ovunque sembra non mancare di nulla; “pareva non le mancasse neppure la libertà”. L’animale è il maestro irraggiungibile, il digiunatore, alla fine del racconto, cioè della sua vita, chiede perdono a tutti, per aver domandato ammirazione – possiamo dire, amore –, quando non poteva fare altrimenti che digiunare e questo digiuno non avrebbe mai potuto essere all’altezza della perfetta necessità animale. E confessa al guardiano, “con le labbra appuntite come per un bacio”, di non aver mai potuto fare altro che digiunare non essendo mai riuscito a trovare cibo che gli piacesse. Tragica richiesta di amore, in quanto consapevole impossibilità dell’amore. Al contempo, grumo di resistenza radicale di fronte a ciò che “non piaceva”, che “non piace”. Negli occhi ormai spenti dalla morte del digiunatore rimane d’altronde “la salda, anche se non più fiera convinzione di continuare a digiunare”.
Parimenti Bartleby risponde al muro di Wall Street col muro di resistenza passiva della propria formula “I would prefer not to”, che dà il ritmo al testo, come una lunga, lenta (eppure man mano sempre più incalzante) marcia, la quale trova la propria acme nel rifiuto di Bartleby, una volta finito in carcere, di alimentarsi fino a lasciarsi morire di inanizione. Un’ascesi in senso letterale, un climax: dall’iniziale, silente pallore, dalla lievità dello scrivano alla magrezza sempre più smunta, emblema di una solitudine cosmica, sino all’anticipazione esplicita del cadavere. Sino allo spirare del “consunto” Bartleby che, “raggomitolato” alla base del muro del cortile del carcere, quasi non sembra più distinguersi da esso – come il digiunatore dalla paglia. E il tratto martirologico in Melville è accentuato dai riferimenti biblici ed evangelici. All’incirca a metà dell’intreccio il narratore, l’avvocato, racconta di aver avuto una improvvisa visione: Bartleby ravvolto “in un gelido sudario, tra indifferenti sguardi di estranei”. Una via crucis, anche qui parabola della sovversione dell’arroccamento narcisistico: sottrazione, sciopero dalla domanda (meschina) del mondo, fino alla sottrazione, allo sciopero dall’Io, dalle sue costruzioni immaginarie, fino alla stessa evaporazione dell’Io, dell’involucro suo contenitore.
Due esempi letterari questi in qualche modo anomali: anche se non si avverte il corpo sessuato dei nostri, là dove l’ascesi anoressica de-sessualizza il corpo, entrambi sono uomini. La clinica ancora oggi ci dice che in prevalenza l’anoressia è donna. Il pensiero femminista, in particolare quello della differenza, si è interrogato e continua a interrogarsi al riguardo, chiedendosi se col passaggio dalla modernità alla postmodernità non si sia assistito anche a quello dal sintomo nevrotico isterico al sintomo anoressico. Questione politica decisiva, se si riconosce che la tanto nota crisi della Legge del Padre è anche esito della rivoluzione femminista degli anni Sessanta e Settanta (e ancora in corso). Cosa dice il corpo anoressico? Questo corpo-muro, che si ossifica fino a vuotarsi del desiderio, parla? Si rivolge? A chi? È radicalissimo grumo di resistenza contro cosa? Disperata necessità di distacco e autonomia da cosa e da chi?
La psicanalisi in dialogo col femminismo ha mostrato come molto, troppo spesso sia divorzio dal proprio corpo sessuato e sessuale in quanto corpo abusato. Lo si è già detto sopra, l’Altro bandito in questo caso è l’Altro invasivo, violatore, divoratore. Tutto ciò che per quest’Altro può essere appetibile viene espulso. Fuoriuscita drammatica dalla posizione di vittima, tentativo di estromissione dell’esperienza traumatica della passività coatta attraverso la riappropriazione autodeterminata di sé nella forma della chiusura monadica. Certo, in questione è anche una risposta storica, sono i sintomi di un’epoca: tecniche di resistenza all’imperativo edonistico-consumistico delle società a capitalismo avanzato, diniego nauseato, categorico, dinanzi all’altrettanto categorico comandamento che impone il godimento-scarica forsennato (di contro alla precedente interdizione del desiderio e della sessualità femminile in particolare che generava nevrosi, isteria appunto). Rivendicazione pure di una integrità morale rispetto alla corruzione dilagante (si ripensi a Il ventre di Parigi di Zola). Una parabola della sovversione dell’arroccamento narcisistico: sottrazione, sciopero dalla domanda (meschina) del mondo, sino alla sottrazione, allo sciopero dall’Io
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Ma l’anoressia, e questo è il punto che più interroga il femminismo, invocando i suoi strumenti per tentare l’invenzione di nuove pratiche (cliniche e politiche), il rinnovamento o l’espunzione di altre, chiama in causa il rapporto col materno, con la madre reale innanzitutto, ma anche con quella e quelle simboliche. Senza con questo voler ricadere nell’antica e (più o meno consapevole) patriarcale litania della colpevolizzazione della madre. Ha scritto in proposito Ida Dominijanni: se nell’isterica abbiamo visto “il bisogno del continuum materno, la sottrazione dalla madre del corpo anoressico non esprimerà al contrario un bisogno di discontinuità dal materno, una differenza femminile dalla madre cui dare spazio e significato?” Cui dare la parola, nonostante il mutismo. Come nel caso di Ellen West. Giuliana Grando, psicanalista che tanto del suo lavoro ha dedicato allo studio e alla clinica dei cosiddetti disturbi alimentari, ha sostenuto che la parola nell’anoressia sia al contempo l’impensabile e la colpa – “la colpa di essere portatrici di una soggettività, di un desiderio altro, altro anche dalla nostra stessa madre, il che si traduce in essere altro dalla nostra carne”. Una lotta contro e per la propria soggettivazione, contro e per la propria autonomia. La ricerca di una “nuova genealogia”, di un nuovo ordine simbolico, non solo del materno, ma anche e soprattutto del femminile. E riformuliamo allora la domanda: come è possibile, dall’annientamento, raggiungere un nuovo punto di scaturigine della parola? Cosa significa dare altra forma espressiva – costruttiva, se si vuole – alla radicalità? Come riconnetterla col desiderio? Perché la distruzione serve, ma da sola non ce la fa.