Q uando nel 1991 il PCI rinuncia a ogni legame con le sue origini sovietico-marxiste e cambia nome, i telegiornali di tutto il mondo trasmettono l’immagine di Pietro Ingrao in lacrime, il volto coperto con una mano. In quel pianto si consumava il residuo ideologico del più forte partito comunista d’Occidente. È allora che Ferdinando Camon, scrittore cattolico e contadino, decide di incontrarlo. Ingrao accetta il confronto, come peraltro aveva già fatto nel 1990, quando nel resoconto autobiografico Le cose impossibili prova a dirimere quell’ “intreccio di vicenda personale, di confronto di idee, di riflessione storica” che era stato per lui il comunismo.
Tra il dicembre del 1993 e il maggio del 1994 i due si scambiano otto lettere e si incontrano per tre volte nella villa romana di Ingrao, in via Ugo Balzani, a ridosso della borgata di Pietralta. Questo scontro ha un peso: le domande di Camon sono impetuose, serrate, assillanti. Da un incontro all’altro Ingrao ha dei ripensamenti, il numero di note alle trascrizioni che gli arrivano da Padova scema rapidamente. Al termine degli incontri, l’insoddisfazione lo spinge addirittura a chiedere che quei dattiloscritti non vengano pubblicati. Camon resta sgomento, ma decide di accontentarlo.
Passa un quarto di secolo, Ingrao muore centenario nel 2015 e Alberto Olivetti, amministratore dell’archivio eponimo alla Fondazione Centro di studi e iniziative per la Riforma dello Stato, ritrova quei carteggi ancora inediti nel faldone B 42. Scrive subito a Camon e ottiene l’assenso a pubblicarli in un libriccino essenziale, Tentativo di dialogo sul comunismo (Ediesse, 2019), offerto oggi “alla comprensione e alla sofferenza di chi vuol condividerlo”.
Liberare l’animale
“Lei parla di ‘morte’ definitiva”, accusa Ingrao già nel primo incontro, “e vuol ragionare su questa morte: il nostro discorso sarebbe [così] un’epigrafe”. Meglio parlare di “crisi”, che è una morte passeggera, uno sfogo cutaneo sulla pelle della storia.
Camon rifugge la precisazione: per lui la scomparsa del comunismo è l’evento più importante dell’ultimo secolo. “Non c’è nulla di altrettanto carico di conseguenze, per tutti e per sempre”. Il crollo dialettico spalanca infatti la porta al pensiero unico, all’uomo a una dimensione e a quello senza qualità, alla concorrenza imperfetta come condizione immutabile della lotta per la vita. Poco importa se il comunismo sia stato la più grande speranza o il più grande fallimento del Novecento: con la sua scomparsa si dissolve un’idea di storia, di giustizia, di rapporto tra gli uomini. Un evento infausto per tutti, anche per i non-comunisti, forse analogo soltanto al collasso della civiltà contadina, dal cui fondale nero sgorga quasi tutta la letteratura di Camon.
Nel pianto di Ingaro si consumava il residuo ideologico del più forte partito comunista d’Occidente.
Ma perché è morto il comunismo? L’abbiamo ucciso o era malato sin dall’inizio? Camon non ha dubbi: è stata la rivoluzione industriale a far fallire quella operaia. “Quel che la gente come me aspettava dal corso della vita”, spiega a Ingrao, “era l’uscita dalla miseria”. E quest’uscita si è indiscutibilmente compiuta: “guardi come sono cambiate le cronache, i giornali, la letteratura, il cinema, in un paio di decenni. I romanzi”. Abbagliata dal fulgore della propria ideologia, l’intellighenzia comunista non si accorse che il contadino desiderava semplicemente diventare operaio. Ai suoi occhi, questi non era un sommerso, ma “uno che aveva denaro, che si era salvato, che ce l’aveva fatta”. L’assunzione in fabbrica rappresentava la liberazione dal giogo del lavoro agricolo: ogni tre figli, si diceva che i contadini mandassero il primo a lavorare nei campi, il secondo in fabbrica e il terzo in seminario.
Così come il contadino guardava al mondo industriale con il desiderio di esserne assorbito, l’operaio sognava l’ingresso nella borghesia. Chiedeva espressamente “la partita, il week-end, il frigorifero, l’utilitaria, il televisore” e tutti gli altri diritti materiali schiusi dalla rivoluzione borghese. Secondo Camon, a rendersi perfettamente conto di quali fossero i desideri reali del proletariato non furono gli esponenti del PCI,, ma piuttosto i capitalisti. Uno su tutti, Silvio Berlusconi: “ha promesso un miracolo, e la gente ha bisogno di miracoli. Ha promesso di dare, e la gente ha bisogno di ricevere. È andato al potere come un inviato della gente. La gente guarda il miracolo e ne resta accecata, non vede più il monopolio”.
La liberazione di contadini e operai, i due gironi più bassi dell’inferno sociale, non venne dunque dal lato del comunismo, ma da quello del capitale. “Ha presente quel film di Nanni Moretti”, chiede Camon, “in cui i ragazzi comunisti vanno a vedere il sorgere del sole, stanno lì sull’argine in attesa, dritti in piedi, e il sole nasce alle loro spalle?”. Ecco, l’élite comunista si era illusa d’essere il sole del mondo. Lo stesso Camon, in realtà, pensava di poter contribuire all’emancipazione della classi subalterne non con il progresso materiale, ma con quello spirituale, attraverso la letteratura. Nel 1973 pubblicò la raccolta di poesie Liberare l’animale in cui l’animale del titolo è il contadino, salvo poi constatare il fallimento di quella vana ambizione nei versi terminali di Dal silenzio delle campagne (1998): “volevo liberare l’animale | per farne un uomo nuovo, su cui léggere le virtù | stampate come stigmate dalla miseria: | lo ha liberato il capitale, | togliendoli anzitutto la memoria, | per farne un uomo ricco, e niente più”.
A rendersi perfettamente conto di quali fossero i desideri reali del proletariato non fu l’élite comunista, ma piuttosto i capitalisti.
“Marx dice cose diverse da lei”, lo accusa Ingrao, riferendosi allo sfruttamento del lavoratore salariato in un regime di produzione capitalista. “Marx non sa nemmeno dov’è casa mia”, replica Camon. “Il contadino odiava se stesso, odiava la campagna, odiava il mondo naturale”, e questo l’establishment comunista proprio non lo capiva. Così come non capiva che bisogna produrlo, il capitale, prima di redistribuirlo.
Comunismo delle campagne
È stata questa profonda incomprensione delle classi subalterne, dei loro bisogni e delle loro aspettative, ad aver condotto l’élite comunista italiana alla rovina. Al primo romanzo contadino di Camon, Il quinto stato (1970), Pasolini scrisse una prefazione entusiasta, esagerata, inesatta: predicava il ritorno alla civiltà preindustriale, paragonava un esordiente a Petrarca e a Verga, descriveva il mondo contadino come arcadico, bucolico, dolciastro.
“Il ritorno indietro di Pasolini era una bestemmia”, sentenzia Camon: “nessun contadino, non dico friulano ma della campagna o della meseta o della pampa o della puszta, [avrebbe voluto] tornare indietro”. Quando disse che avrebbe dato tutta la Montedison per una lucciola, Pasolini tradiva la propria non-conoscenza dei contadini, “che avrebbero [invece] dato tutte le lucciole, gli alberi, i prati e le campagne, per un posticino alla Montedison”. Ingrao prova a minimizzare: “la lucciola di Pasolini era una metafora, non si può leggerla meccanicamente”. Era il simbolo di tutto il mondo dell’emotività, della naturalità, dell’eros, che lui vedeva invaso dalle passioni tristi dell’industrialismo.
Camon insiste: l’ignoranza di cosa fosse il mondo contadino impedì al PCI di trovare consenso nelle campagne. Il partito aveva concentrato tutti gli sforzi sulla civiltà industriale – “ha fatto una politica operaia, una cultura operaia, un cinema, una letteratura operaia” – scordandosi completamente dei contadini. Ingrao non è d’accordo: “lei ha in mente L’albero degli zoccoli di Olmi [1978]. Ma pensi anche a Novecento di Bertolucci [1976]”. Quando nel maggio del 2018 morì Ermanno Olmi, Camon scrisse che L’albero degli zoccoli gira tutto sulla capacità di sopportazione che era propria del mondo contadino: “c’è solo un personaggio nel film che si ribella, ed è il cavallo, che a un certo punto s’imbizzarrisce e scalcia all’aria. […] Il cavallo è l’unico vero personaggio marxista di tutta la storia”. L’obbedienza, la remissività e la sottomissione di quel mondo erano incompatibili con la lotta di classe, dunque la rivoluzione comunista era semplicemente inaccettabile in campagna. “I contadini, che pure erano i più poveri, non avevano nessuna voglia di cambiamento”.
L’obbedienza, la remissività e la sottomissione del mondo contadino erano incompatibili con la lotta di classe, dunque la rivoluzione comunista era semplicemente inaccettabile.
Ingrao, di nuovo, dissente: “non è il grado di povertà che crea il comunista, è l’esperienza produttiva che il lavoratore fa, o l’esperienza che fa nel corpo sociale”. E poi il PCI è riuscito ad attecchire tra i contadini dell’Emilia Romagna, dove la lotta di classe era traboccata al di fuori delle fabbriche. Il comunismo delle campagne era soltanto più difficile da realizzare perché i contadini erano geograficamente dispersi, dunque più difficili da scuotere sulla via della rivoluzione.
Schegge sovietiche
Nel dopoguerra, ammette tuttavia Ingrao, il comunismo italiano era rimasto fermo alla critica dell’arretratezza del capitalismo. “Ha accettato di ripetere il modello leninista: la Russia arretrata che, sotto il comunismo, saltava le tappe”. Altrove – nella Cina di Deng Xiaoping, ad esempio – la vista del miracolo capitalista produsse nell’intellighenzia comunista una vera e propria conversione al culto del mercato e dei valori borghesi. Gli irriducibili che rimasero fedeli alla lotta di classe, che non guidarono il proletariato a “consumare senza consumarsi”, finirono “fuori-storia”.
Secondo Camon, il PCI non aveva dunque nessuna ragione per continuare a chiamarsi comunista: “nessuna ragione vuol dire nessun diritto e nessun vantaggio”. Dell’enorme fardello storico che fu la dipendenza ideologica dall’URSS, “il comunismo italiano non era più ‘degno’, se era un merito, e non era ‘colpevole’ se era una colpa”. Il distacco edipico dal marxismo-leninismo fu però massimamente violento per il PCI, poiché si trattava del partito che aveva “mantenuto più a lungo di tutti un rapporto discipulare, di apprendistato, verso quello sovietico”. Il Partito Comunista Italiano smise infatti il nome “comunista” quando era ormai già scomparso nella stessa Unione Sovietica.
Nel dopoguerra, ammette Ingrao, il comunismo italiano era rimasto fermo alla critica dell’arretratezza del capitalismo.
Per Ingrao, che comunque pianse la Svolta della Bolognina nel 1991, la rinuncia di “certi postulati fondamentali del comunismo” non sancì l’estinzione definitiva dell’ideologia: “per me”, confessa, “non c’è il comunismo, ma ci sono i comunismi”. Sta bene, glossa Camon, ma “la storia ne ha scelto uno e l’ha messo sopra tutti gli altri, e a quello ha legato per sempre il nome: quando si usa quel nome, è a quell’uno che si pensa, in tutto il mondo”, e quell’uno ebbe un costo umano e culturale troppo grande.
Se il costo era quello, dice Ingrao, “l’oggetto che si comprava per quel prezzo non era più comunismo”. Sarebbe però sbagliato condannare il sovietismo senza “raccontare cosa è stata la terribile paura, che noi abbiamo avuto, che Hitler vincesse”.
Comunismo carsico
Non era del tutto guasto, dunque, il portato ideologico del comunismo ortodosso. Secondo Ingrao, ciò che di sano vi era in quel deposito originario si è disperso in un arcipelago di forme sociali così lontane dall’idea assurda di “partito-guida”, “che cercava di restare uno, e come uno crescere continuamente”. Oggi “c’è il volontariato, c’è il circolo, c’è l’associazione pacifista”. È in aggregazioni come queste che sopravvivono i principi eterni del comunismo: “la dignità dell’uomo, il senso della giustizia sociale, la diversità dei diritti secondo la diversità dei bisogni, la necessità di combattere i privilegi di classe, il dare scuola medicine vita a tutti coloro che la meritano o ne hanno bisogno, togliere dal lavoro lo sfruttamento, occuparsi del povero prima che del genio, della sofferenza prima che della gioia, del cibo prima che dell’arte”. C’è ancora gente che vi s’impegna, c’è ancora qualcuno che ci crede.
Letto così, tutto d’un fiato, questo distillato di valori comunisti mostra per intero la sua rassomiglianza con quanto è precipitato dall’evaporazione della religione cattolica. Al loro nocciolo, queste due forze un tempo contrapposte – comunismo e cattolicesimo – finiscono incredibilmente per toccarsi. “L’elemento della religiosità che m’interessa di più”, confessa Ingrao, “non è la dottrina sociale, ma il valore della contemplazione: il contemplare come non-produrre, non-fare”. La religiosità, “che finalmente slega la vita dall’obbligo del fare”, è in assoluto l’esperienza più anticapitalista, la più comunista di tutte.
Alla fine, Camon e Ingrao convengono che “ci sono cambiamenti che durano secoli, e il comunismo è uno di questi”. I valori che ha iniettato nelle vene della storia sono in qualche modo sopravvissuti alla sua morte, dunque sono immortali. L’immagine che chiude il loro tentativo di dialogo sul comunismo è quella dell’Uèbi-Scebèli, il fiume africano che ha una fonte ma non una foce: “a un certo punto cala sotto la sabbia e svanisce. Lo senti scorrere, sotto i tuoi piedi, ma non puoi vederlo più”. Così è il comunismo, che non è morto, si è soltanto inabissato sotto la superficie della storia e tornerà un giorno a riaffiorare, “diverso da tutte le forme storiche che ha finora assunto”.