I n un episodio di South Park, Eric, Kenny e gli altri protagonisti della serie sono alle prese con un nuovo preside chiamato PC, Politicamente Corretto. Questo preside, che ha le sembianze di un ragazzone bianco palestrato e prepotente, ha deciso di instaurare un vero e proprio regno del terrore all’interno della scuola elementare: se non ti adatti ai dettami della giustizia sociale e non presti attenzione al modo in cui le tue parole possano in qualsiasi modo mancare di rispetto alle minoranze, meriti di essere redarguito, anche con metodi certamente poco ortodossi. Scopriamo così che il suddetto preside appartiene ad una sorta di confraternita di fanatici bulli moralisti, ossessionata dal cosiddetto controllo dei privilegi. In una scena qui particolarmente significativa, la cricca del politicamente corretto organizza una vera e propria retata notturna per punire Kyle, reo di aver osato sostenere che per lui Caitlyn Jenner, ex atleta olimpionica statunitense poi diventata donna transgender e tra le attiviste più famose al mondo, non è una eroina coraggiosa. Kyle deve superare i propri pregiudizi e, per farlo, è necessario che prenda consapevolezza dei suoi privilegi di maschio bianco cis, così che possa capire meglio la condizione dei più svantaggiati.
In quel sagace specchio deformante dei nostri tempi che è la serie, ritroviamo una tendenza caratteristica dell’attuale dibattito pubblico: l’ossessione per il controllo del privilegio. Nato in seno al mondo accademico e all’attivismo progressista, il concetto di privilegio è diventato un quadro onnicomprensivo buono per spiegare qualsiasi cosa, una visione del mondo che ha invaso ogni aspetto delle nostre vite pubbliche, così come un nuovo modo di interagire con gli altri, soprattutto nei media digitali. Saggi, articoli di giornale, vignette, meme, quiz a tema sono oramai una parte centrale del mercato dei contenuti virali. La critica artistica, ad esempio, si è trasformata da tempo in una disamina accurata (e sempre più prevedibile) di liste di privilegi. Non è importante che un libro, un film o uno spettacolo televisivo siano nuovi, interessanti, o illuminanti. Tutto ciò che c’è da dire su un’opera è la sua posizione rispetto al privilegio: in quale punto della gerarchia dei privilegi si colloca la prospettiva dell’autore? Qual è il suo atteggiamento nei confronti di chi sta più in basso? Anche i conflitti all’interno del femminismo degli ultimi anni hanno ruotato, in un modo o nell’altro, attorno alla nozione di privilegio. Prendiamo l’eternamente scottante questione del lavoro sessuale: celebrare il sex work è una forma di emancipazione o un beneficio esclusivo delle donne ricche che non hanno idea di come vada realmente la vita per le lavoratrici del sesso?
Essendo oramai di moda, il copione del privilegio si è adattato bene al populismo della politica, al punto che sia i conservatori che i progressisti hanno iniziato ad utilizzare il richiamo al privilegio come strumento di appartenenza e legittimazione politica per avere la meglio sul proprio avversario. Che la sinistra sfrutti il richiamo ai vantaggi delle classi privilegiate è cosa abbastanza scontata. La novità è la riappropriazione da parte degli esponenti di destra della medesima retorica, che per molti versi si sovrappone alla varietà originale. Sebbene l’enfasi cada più sul classismo che sul razzismo o sessismo, la sostanza è la stessa. I conservatori accusano regolarmente i democratici di privilegi incontrollati, tanto che il vecchio cliché del comunista col rolex – aggiornato alla versione “leader di sinistra con l’armocromista” – rappresenta da anni il fondamento ideologico del conservatorismo intellettuale.
Come la politica insegna, il concetto di privilegio è diventato un termine talmente ambiguo che può potenzialmente riferirsi a tutti: dalle élite inequivocabilmente benestanti alle persone che hanno avuto solamente dei vantaggi, come un diploma di laurea, ad esempio, o un’infanzia trascorsa in una famiglia felice con due genitori. O magari anche solo una taglia 38 di pantaloni. Non c’è una soglia di ricchezza o di reddito da prendere a riferimento: chiunque può essere privilegiato se fa comodo alle argomentazioni altrui. E chiunque può, con l’opportuna abilità retorica, interpretare il ruolo di chi è implicitamente svantaggiato, costruirsi una posizione da sfavorito così da avere la meglio e ottenere una medaglia d’oro alle Olimpiadi dell’Oppressione. L’aspetto più frustrante è che in tal modo si finisce per cadere in un loop di accuse e controaccuse su chi occupa i gradini più alti o più bassi nella griglia dei vantaggi sociali. D’altronde abbiamo passato mesi a chiederci a chi sia più opportuno attribuire il patentino della privilegiata: all’underdog Giorgia Meloni o all’outsider Elly Schlein?
La formula magica del privilegio
Eppure, il discorso sul privilegio nasce con le miglior intenzioni. Il concetto come lo conosciamo oggi deriva dal famoso articolo di Peggy McIntosh del 1988, White Privilege and Male Privilege: A Personal Account of Coming to See Correspondences Through Work in Women’s Studies. Per chiarire cosa si intende con privilegio bianco l’autrice utilizza una metafora particolarmente efficace. Il privilegio è come uno zaino invisibile e senza peso che contiene provviste speciali, garanzie, strumenti, mappe, guide, cifrari, passaporti, visti, vestiti, bussole, strumenti di emergenza e assegni in bianco, un pacchetto di beni non guadagnati che possiamo contare di incassare ogni giorno, ma di cui siamo destinati a rimanere all’oscuro. Spiega McIntosh: “così come gli uomini sembrano spesso ignari dei propri vantaggi in quanto uomini, noi donne bianche siamo spesso inconsapevoli della nostra posizione di vantaggio proprio in quanto bianche”. Il concetto di privilegio ha dunque lo scopo di individuare con precisione i benefici che spettano agli individui solo in virtù della loro appartenenza a un gruppo specifico (etnia o genere).
Il copione del privilegio si è adattato bene al populismo della politica, al punto che sia i conservatori che i progressisti hanno iniziato ad utilizzarlo per avere la meglio sul proprio avversario.
Allo stesso tempo, come chiarisce la filosofa politica e femminista Iris Marion Young, il termine ha l’indubbio merito di migliorare la nostra comprensione di come funziona l’oppressione. Se, nella sua accezione tradizionale, l’oppressione nasce dall’esercizio evidente di un potere dispotico da parte di un gruppo dominante, per Young l’oppressione non è sempre un processo intenzionale o facilmente identificabile. Al contrario, essa appare talmente incorporata nelle strutture sociali, nelle norme culturali e nelle pratiche istituzionali che diventa invisibilmente parte integrante della nostra vita quotidiana. Attraverso la ripetizione e perpetuazione di schemi di pensiero, comportamenti e relazioni di potere, le persone beneficiano e partecipano ai sistemi di oppressione in modi spesso inconsapevoli. Non è dunque necessario fare attivamente qualcosa, bene o male, deliberatamente o accidentalmente, per esercitare una qualche forma di dominazione verso gruppi sociali svantaggiati. Basta occupare la categoria privilegiata all’interno di un sistema di oppressione. Secondo questa visione, si può non avere un briciolo di razzismo o di sessismo in corpo, ma in quanto maschio bianco, per esempio, si beneficerà sia del privilegio dei bianchi sia del privilegio dei maschi, spesso indipendentemente dalla propria volontà. L’idea di dire privilegio bianco o maschile, rispetto a razzismo e patriarcato, è presumibilmente quella di fornire un modo per attirare l’attenzione sui modi involontari, inconsci e passivi attraverso cui le persone avvantaggiate si fanno complici dell’oppressione. O meglio ancora, uno spazio concettuale in cui, ad esempio, i bianchi relativamente ben disposti possano vedersi quali persone rispettabili, ma anche come portatori di un privilegio bianco, e arrivare a un resoconto più genuinamente sistematico della prevaricazione razzista.
Nel momento in cui richiama l’attenzione sugli aspetti sistemici delle diseguaglianze sociali e favorisce un tipo di coscienza critica che contrasti le ingenue narrazioni del merito, il linguaggio del privilegio è certamente produttivo. Come espediente retorico il termine funziona perché l’analogia regge: ad esempio essere bianchi in America è molto più facile che essere neri, allo stesso modo in cui essere ricchi è più facile che essere poveri. La disuguaglianza esiste in un’ampia gamma di assi che si intersecano tra loro e i ricchi in ogni area spesso ne sono davvero ignari. “Controlla il tuo privilegio”, in tal senso, significa: tieni conto di come qualsiasi vantaggio sociale strutturale che hai in virtù della tua nascita o posizione sociale, come essere bianchi, essere ricchi o essere uomini, influisce sulle forme di oppressione sistemica. Questo è innegabile e sensato.
Il problema è un altro: non il concetto di privilegio in sé, ma la sua applicazione all’interno dell’attuale dibattito pubblico, soprattutto negli ambienti digitali. Come spiega Hadley Freeman, approdando in rete intorno al 2006, l’invito a controllare il proprio privilegio ha smesso di essere una frase riflessiva e ancora vagamente accademica, per trasformarsi in un efficace randello retorico con cui vincere qualsiasi discussione su Internet. In un articolo del 2012 dall’eloquente titolo Online bullying – a new and ugly sport for liberal commenters l’autrice Ariel Meadow Stallings sostiene che l’esortazione al controllo dei propri privilegi è diventata una specie di performance online in cui i commentatori progressisti si divertono a segnalare come insensibile qualsiasi forma espressiva da loro ritenuta potenzialmente problematica e ad incalzare gli autori affinché facciano ammenda pubblica dei loro errori, ammettendo la propria posizione privilegiata all’interno della società e i benefici che da essa ne derivano. Nel pezzo, Stallings considera il richiamo al privilegio come una vera e propria forma di bullismo, di trolling mascherato da nobili motivazioni di giustizia sociale. Nessuna pietà interpretativa viene concessa alle intenzioni dell’autore o al contesto delle sue parole, né si è minimamente interessati all’apertura di un dialogo sul problema sollevato. L’unico obiettivo del check your privilege è annichilire l’avversario, portarlo a vergognarsi di sé e rimarcare così la propria rettitudine morale. Lanciare l’accusa di privilegio funziona un po’ come la Maledizione Mortale di Harry Potter. Non c’è modo di fermarla: «Avada Kedavra!» e il tuo avversario è spacciato.
Nata come strumento per riflettere sulle ingiustizie sistemiche, la critica al privilegio rischia così di diventare un fatto personale, qualcosa che rientra nell’alveo della cosiddetta cultura del call-out. Volete mettere a tacere il vostro interlocutore? Non limitatevi a fargli notare che magari potrebbe sbagliare su un determinato ragionamento. Attribuite quel torto a un privilegio. Volete evitare un dibattito? Dite al vostro avversario di controllare i suoi privilegi. Oppure ditegli che sta facendo slut-shaming o victim-blaming, o che è razzista, sessista, omofobo, transfobico, islamofobico, cisfobico, o qualche altro termine creativo che indichi che siete semplicemente troppo indignati dall’argomento per affrontarlo davvero. Ponete sempre l’accento su chi sta facendo una particolare argomentazione o accusa, piuttosto che sul contenuto di tale argomentazione o accusa. Come ha spiegato lo scrittore Asam Ahmad in un saggio diventato sorprendentemente virale A Note on Call-Out Culture, uno dei principali limiti del call-out è quello di ridurre le persone alle loro identità di privilegio (come bianco, cisgender, maschio, ecc.) e trattarle esclusivamente in quanto tali. Ma nel momento in cui gli individui diventano sinonimo di strutture di oppressione l’analisi sistemica si trasforma in giudizio morale. L’interesse della conversazione slitterà da questioni più ampie all’identità della controparte e alla sua vita interiore: questa persona ha fatto i conti con il proprio privilegio? Lo capisce? E il fatto che lasci la discussione prima di aver dimostrato di averlo capito significa che non lo ha compreso? A quel punto il destinatario di un richiamo al privilegio avrà poche scelte a sua disposizione per non essere travolto dalle critiche: o riflettere sui propri vantaggi non meritati e autoflagellarsi pubblicamente per gli stessi, oppure spiegare ai propri interlocutori che l’accusa di privilegio è stata imprecisa, perché non hanno avuto la vita così facile come i loro accusatori insinuano.
Nata come strumento per riflettere sulle ingiustizie sistemiche, la critica al privilegio rischia così di diventare un fatto personale che rientra nell’alveo della cosiddetta cultura del call-out.
Il quadro non lascia spazio alla discrezione: un esercizio di sensibilizzazione si trasforma così in una richiesta di informazioni personali. Si consideri il famoso video di BuzzFeed di Daysha Veronica What Is Privilege? spesso preso come esempio efficace di educazione al concetto. Il video mostra un gruppo etnicamente eterogeneo di giovani uomini e donne di bell’aspetto che fanno passi avanti o indietro a seconda di come rispondono a trentacinque diverse domande legate ai privilegi. Alcune delle domande ruotano attorno a questioni come l’etnia o il genere, che sono palesemente visibili a chiunque. Altre, come quelle sulla religione, la classe socioeconomica e l’orientamento sessuale, richiederebbero di rivelare cose che non tutti sono disposti a dire in tutti i contesti, come, ad esempio, essere una lesbica musulmana della classe operaia. Altre ancora, infine, sono profondamente personali, come l’aver avuto diagnosticata una malattia/disabilità fisica o mentale, o non essere cresciuti in un ambiente familiare sano. Più ci si allontana da categorie ampie e generiche, più è probabile che si vada a finire nel campo delle cose di cui spesso le persone non vogliono parlare. Non necessariamente coloro che si oppongono a una conversazione lo fanno per evitare di menzionare i propri numerosi privilegi. Potrebbe anche essere che non ne abbiano alcuni che non vogliono dichiarare pubblicamente. Proporre l’ipotesi accusatoria che qualcuno non sia mai stato gravemente malato o obeso, o che non abbia mai avuto problemi finanziari, è un modo per mettere questa persona in condizione di rivelare cose che forse non avrebbe voluto. Qualsiasi sistema che offra punti morali per uno svantaggio, ma che ponga a chi è svantaggiato l’onere di identificarsi, dovrebbe anzitutto interrogarsi con questo tipo di problemi.
Il privilegio di chi non si sente privilegiato
Si potrebbe obiettare che, di fronte alla lotta per le ingiustizie sistemiche, un po’ di intossicamento del dibattito pubblico è un prezzo tutto sommato accettabile da pagare. Tuttavia, dal momento che uno degli obiettivi del linguaggio del privilegio dovrebbe essere l’enfasi sul sociale e sul sistema rispetto all’individuo, se riduciamo il concetto ad un call-out identitario rischiamo che perda tutta la sua originaria efficacia analitica. Come abbiamo già visto, il concetto di privilegio presuppone una condizione di ignoranza da parte dei privilegiati: il mondo là fuori è pieno di insensibili involontari − siano esse celebrità, persone comuni le cui gaffe sono diventate virali, il vostro interlocutore in una guerra su Twitter o la proverbiale zia conservatrice della vigilia di Natale − che dimostrano la loro personale mancanza di familiarità con una particolare forma di oppressione. Come Kyle in South Park, queste persone devono essere opportunamente educate affinché prendano coscienza dei propri vantaggi non meritati. Non è un caso che gli spiegoni sui social media che si propongono di illustrare i propri privilegi ai giancosi – termine diffuso in rete per indicare l’uomo cis-etero poco avvezzo alle tematiche queer – siano oramai un genere a sé stante, spesso pensati per diventare virali e generare traffico sulle piattaforme. Funzionano come una sorta di rivalsa sociale da parte di chi si vede svantaggiato. È un modo per dire: “certo, quest’altra persona ha tutto, ma tu capisci cose che quell’idiota non capirà mai”.
Non è detto, tuttavia, che concentrarsi sulla consapevolezza individuale sia un passo decisivo per smantellare il privilegio. Anzitutto il destinatario del check your privilege non necessariamente comprenderà che i suoi vantaggi relativi prescindono dalle circostanze socioeconomiche e legherà il privilegio all’idea di benessere materiale e finanziario. Uno dei maggiori limiti del concetto è, difatti, la sua analogia con la metafora della ricchezza. Nel famoso saggio che ne ha definito l’attuale uso, Peggy McIntosh paragona il privilegio dei bianchi a un conto in banca senza fondo che ti fornisce benefici e vantaggi continui rispetto a quelli accessibili alle persone svantaggiate. La metafora del conto in banca ha senza dubbio aiutato alcune persone a concettualizzare meglio il razzismo, il sessismo e altro ancora. Tuttavia, il termine continua a generare confusione e reazioni difensive nelle persone che sono (per esempio) bianche, e quindi privilegiate dalla bianchezza, ma non si percepiscono materialmente favorite. La parola privilegio sembra far arrabbiare proprio perché rimanda, il più delle volte, ad un immaginario di pony club, yacht e ombrellini da cocktail, una connotazione di lusso e agio che probabilmente non appartiene a quasi nessuno di coloro a cui viene rivolta tale richiamo. È un termine più adatto a dividere le persone che a migliorarne la loro empatia reciproca.
In secondo luogo, quello che il check your privilege solitamente ignora è che far parte di una classe privilegiata non equivale necessariamente ad avere una buona vita. Anche la persona ritenuta avvantaggiata può avere avuto la sua buona dose di rogne. È ovvio che si può essere privilegiati e sfortunati, e che l’ingiustizia sistemica non coincide con le circostanze individuali, come ci spiegano con ragionamenti eleganti gli attivisti per la giustizia sociale. Ma nel mondo delle persone reali sottolineare il vantaggio di coloro che dovrebbero essere, secondo la più brutale delle rubriche identitarie, in cima alla gerarchia della vita, ma che per qualche motivo non ci sono finite, è un deragliamento del tipo più crudele. Come afferma efficacemente lo scrittore e commentatore politico Andrew Sullivan, speculando sulle ragioni della vittoria di Donald Trump nel 2016: “immaginate come si dovrebbe essere sentito un uomo bianco in difficoltà nel cuore del Paese a cui veniva detto di controllare il suo privilegio dagli studenti dei college della Ivy League (termine che indica le più prestigiose e costose università private degli Stati Uniti d’America N.d.A.)”. Anche se si è d’accordo sull’esistenza del privilegio – continua l’autore – è difficile non immedesimarsi nell’oggetto di questo disprezzo”.
Uno dei maggiori limiti del concetto è la sua analogia con la metafora della ricchezza.
Il richiamo al privilegio finisce così per creare solo rabbia e risentimento in chi si sente il bersaglio di ampie e spesso ingiuste generalizzazioni. Come confessa la scrittrice Vanessa Vitiello Urquhart in un articolo dal titolo I’m a Butch Woman. Do I Have Cis Privilege?: “quando vengo definita cis da un sostenitore trans in modo sprezzante, o se qualcuno osa suggerire che io benefici di un privilegio cis, posso arrabbiarmi un po’. Comincio a pensare cose come: Ehi, questa persona non ha idea di quello che ho passato! Come si permette di dire che ho qualche tipo di privilegio?”. Coloro che sono incolpati di alcuni tipi specifici di vantaggi sentono piombarsi addosso questa accusa e molte volte reagiscono cercando di dimostrarci quanto questo sia lontano dal vero.
Una ricerca del 2015 ha documentato che i bianchi, spinti a riflettere sul proprio privilegio, finiscono per esagerare i propri svantaggi in altri ambiti. Un’altra indagine ha provato come l’uso del termine white privilege renda le discussioni su Internet meno costruttive e più polarizzate, influenzando in modo negativo il sostegno a politiche razziali progressiste. Invece di ulteriori seminari in cui i bianchi dicono ad altri bianchi di riconoscere il loro privilegio, forse è possibile immaginare nuove prospettive di azione. Alcuni studi, ad esempio, ci dimostrano che aumentare la consapevolezza degli uomini bianchi sui modi in cui essi stessi hanno sperimentato qualche forma di svantaggio sociale − a causa delle loro opinioni religiose, del loro orientamento sessuale, del loro status socioeconomico o del loro livello di istruzione − rende tali soggetti più propensi a riconoscere le aree in cui sono privilegiati. In altre parole, il semplice atto di ricordare una esperienza in cui ci si è sentiti meno privilegiati migliora la capacità di relazionarsi e di entrare in empatia con le persone che possono aver incontrato difficoltà nella vita a causa del loro retroterra razziale.
L’autoconsapevolezza dei privilegiati
Mentre coloro poco avvezzi al vocabolario del buon progressista fanno fatica a comprendere il richiamo al privilegio, altri lo usano come perno principale della loro politica identitaria. Nella retorica del check your privilege c’è la sensazione pervasiva che l’illuminazione personale debba precedere gli sforzi per migliorare il mondo: il percorso per essere una persona decente e, forse, per rendere il mondo un posto migliore deve sempre iniziare con una valutazione franca e sincera dei propri vantaggi non meritati. Sui social media è buona norma confessare non solo i benefici che si possiedono, ma anche − cosa più importante − il fatto che si è consapevoli e sensibili ad essi. È rimasto famoso un tweet dell’account ufficiale della candidata Hilary Clinton che recitava: “dobbiamo riconoscere il nostro privilegio e praticare l’umiltà, piuttosto che dare per scontato che le nostre esperienze siano le esperienze di tutti”.
In realtà, come spiega Maureen O’Connor, sventolare il proprio privilegio è la forma più antiquata di snobismo, una pratica presuntuosa di egocentrismo mascherato da ipersensibilità. Denunciare ad alta voce i vantaggi relativi che si otterrebbero dalla propria posizione sociale diventa unicamente un’occasione in più per mettersi in mostra. In fondo, la persona privilegiata sta dicendo che sa di essere avvantaggiata e che non pensa che la sua fortuna la renda un individuo migliore. Eppure, sta rivelando la sua bontà con l’atto stesso della confessione. Come afferma Courtney Martin: “non è sufficiente riconoscere il proprio privilegio. Anzi, spesso riconoscerlo è poco più che un’occasione per darsi una pacca sulla spalla per essere diventati così consapevoli”. Il senso di colpa e la sofferenza che derivano dal rendersi conto che si sta occupando lo spazio di qualcuno più meritevole, così come il costo emotivo di questa incrollabile vigilanza nel nominare il razzismo o denunciare il sessismo ovunque esso appaia, diventano ironicamente segni non della nostra sconfitta, ma della nostra auto-illuminazione, del nostro vero impegno per la giustizia sociale. Alimentano quello che Lacan definirebbe un godimento in eccesso, un godimento nel sacrificio, un godimento nella confessione. Il linguaggio del privilegio ha il risultato (magari involontario) di indirizzare l’attenzione dei più fortunati dove è più comodo: su sé stessi. La conseguenza finale non è tanto la giustizia a vantaggio di tutti, ma la redenzione morale dei privilegiati stessi.
Aumentare la consapevolezza degli uomini bianchi sui modi in cui essi stessi hanno sperimentato qualche forma di svantaggio sociale rende tali soggetti più propensi a riconoscere le aree in cui sono privilegiati.
Non fraintendetemi: certamente un aumento diffuso dell’autoconsapevolezza è una buona cosa. Il punto è che non si capisce in base a quale meccanismo la consapevolezza del privilegio dovrebbe ispirare il desiderio di liberarsene. La stessa Peggy McIntosh insiste sul fatto che è molto importante riconoscere i propri vantaggi sociali, ma ammette che farlo potrebbe non portare da nessuna parte, né esclude che elencare i propri privilegi renda qualcuno ancora più incline a tenerseli stretti. Del resto, cosa spingerebbe l’uomo medio a rifiutare un lavoro ottenuto grazie a delle conoscenze? Quale persona che ha avuto la fortuna di nascere di bell’aspetto, per quanto disapprovi gli standard di bellezza in astratto, vorrebbe essere più brutta? Perché, precisamente, rendere trasparenti tutte le gerarchie dovrebbe portare alla loro scomparsa? Come sottolineano i curatori di Privilege: A Reader, “non si può rinunciare al privilegio più di quanto si possa smettere di respirare”.
Questo fa sì che l’imperativo check your privilege sia, nella maggior parte dei casi, un mero gesto retorico, una performance identitaria – non è un caso che sia esploso con i social media: controllando il mio privilegio sto in realtà producendo un certo tipo di soggettività, un soggetto più tollerante e impegnato. Questo soggetto autocritico è, il più delle volte, il soggetto liberale di oggi, attento all’emarginazione degli altri (soprattutto di quelli di cultura diversa), che si vanta del suo multiculturalismo (la sua sensibilità riformata, liberale, meno eurocentrica) e del suo rispetto per la diversità, e che si distingue proprio da quegli individui che non controllano i loro pregiudizi impliciti – gli individui che beneficiano del sistema senza saperlo, che dimorano beatamente nel comfort esistenziale, la cui felicità è fondamentalmente procurata a spese dei membri svantaggiati della società. La teoria del privilegio diventa unicamente un comodo strumento per dare un nome agli intolleranti della società: sono facilmente individuabili; sono i tanti Kyle da stanare con le polizie del politicamente corretto di South Park, ciechi di fronte al potere sociale e culturale di cui godono immeritatamente, fondamentalmente colpevoli di privilegio.
Le preoccupazioni da primo mondo dei privilegiati
A questo punto sono sicuro che molti obietteranno insinuando che io stia facendo tone policing, uno dei sette peccati capitali dell’attivismo progressista, che significa disapprovare il modo in cui un messaggio o una critica legittima viene comunicata, piuttosto che concentrarsi sulle questioni sostanziali o sui fatti presentati. Chi è scettico sul check your privilege viene accusato di aver dimostrato la tesi dei propri accusatori. Dopo tutto, il privilegio è, per definizione, il tipo di vantaggio invisibile che la gente nega per mettersi sulla difensiva. Una reazione che probabilmente condiziona anche la volontà di scrivere questo articolo e che espone il suo autore al pericolo di portare acqua al mulino di chi vuole banalmente conservare le cose come stanno.
Non si può certo negare che la critica al privilegio rischi di essere un argomento fortemente conservatore. La destra condanna questa teoria per aver creato un’industria del vittimismo e per aver contribuito a legittimare un’atmosfera soffocante di correttezza politica (in cui le categorie emarginate − i non privilegiati − sono esenti da critiche, mentre i maschi bianchi, cristiani ed eterosessuali sono da sottoporre a continua disapprovazione). Alcune repliche al check your privilege derivano, sic et simpliciter, dal rifiuto della nozione stessa di disuguaglianza sistemica; altre sono solo lagnanze sul fatto che gruppi precedentemente emarginati hanno, in modi molto limitati, guadagnato più terreno. In altri casi può sembrare che il moto di resistenza riguardi soprattutto il diritto di persone importanti di dire il tipo di cose che farebbero licenziare chiunque altro, senza la minima ripercussione. Detto questo, non è sempre così semplice stabilire se una particolare obiezione provenga dall’estrema sinistra o da destra. Anzi, dal punto di vista ideologico, il richiamo al privilegio ha creato una sorta di inedita coalizione tra conservatori e progressisti, uniti dal disprezzo per la pedagogia inquisitoria dei cosiddetti social justice warrior, paragonati a novelli maoisti cinesi dediti a contemplare il mandala intersezionale della Ruota del Privilegio.
Esiste una critica da sinistra che non rifiuta gli obiettivi e le diagnosi generali a cui il quadro del termine si riferisce, ma ritiene questa concettualizzazione carente.
Esiste, tuttavia, una critica da sinistra che non rifiuta gli obiettivi e le diagnosi generali a cui il quadro del termine si riferisce, ma ritiene questa concettualizzazione carente. Secondo tale prospettiva, il fallimento più grande del check your privilege è il suo drammatico allontanamento da qualsiasi forma di analisi materialista delle diseguaglianze. Il richiamo al privilegio è diventato una presa di coscienza delle micro-minuzie dell’ingiustizia, a danno di analisi capaci di tenere conto di quelle macro. L’enfasi sul micro dà la falsa impressione che i problemi macro siano risolti. Che il razzismo al giorno d’oggi consista nell’appropriazione culturale da parte di qualche pop star o che la violenza di genere possa essere combattuta a colpi di desinenze linguistiche. Anche quando chi parla può aver ragione sui meriti, la copertura sproporzionata che questi temi tendono a ricevere fa sembrare che la sinistra, nel suo complesso, abbia sbagliato le sue priorità. Parlare di cose tipo il privilegio della monogamia − come se i poligami volontari fossero una casta oppressa al pari, ad esempio, dei poveri − presta il fianco ai detrattori, che avranno gioco facile nel liquidare tali analisi come preoccupazioni da primo mondo di persone altamente istruite, che vivono in enclavi liberali e benestanti, e non hanno mai sperimentato ciò che la maggior parte degli individui pensa come oppressione.
Date tali premesse, non dovrebbe sorprendere che alcuni socialisti si siano mostrati dubbiosi nei confronti di questa struttura retorica. Analizzando i contenuti di un documento che ha circolato all’interno del movimento Occupy Wall Street nel 2012 intitolato Checking Your Privilege 101, lo scrittore David Judd dimostra come il testo ignori totalmente ogni analisi di classe, e quindi tralasci l’importanza di capire il capitalismo e le forme di oppressione in relazione ad esso. Gli autori, ad esempio, fanno rientrare all’interno dell’espressione gruppo dominante intere categorie come i bianchi, i maschi, i cisgender. Ne consegue che un operaio maschio, bianco, etero e con un buon salario sindacale potrebbe essere un membro del gruppo dominante, ma un amministratore delegato nero con stipendio milionario non rientrerebbe nella categoria. Allo stesso modo, viene menzionato il privilegio di classe, ma esso è definito unicamente come “il privilegio di essere una persona cresciuta con stabilità finanziaria e accesso a reti di sicurezza finanziaria attraverso la famiglia o altri beni”. Questo dimostra quanto il documento sia molto lontano da un’analisi di stampo socialista del concetto di classe come divisione basata sui rapporti di produzione capitalistici, e si limiti a considerarla in maniera superficiale e individualistica, come una questione di background familiare, o al massimo di reddito.
Le idee proposte nel documento, continua Judd, non solo sono un passo indietro dal punto di vista del socialismo. Sono un passo indietro anche dal punto di vista dell’organizzazione pratica contro le diverse forme di oppressione. Quando accennano a concetti quali strutturale e istituzionale, molti attivisti per la giustizia sociale lo fanno come se si riferissero a un’aggregazione di pregiudizi e comportamenti individuali da riformare a colpi di educazione e autoconsapevolezza, impedendo così di comprenderne la radice comune e la necessità di una mobilitazione politica e collettiva contro di essi. Si parla di riconoscere il proprio privilegio, essere un alleato, praticare il call-out, usare i propri vantaggi a beneficio degli altri. Concretamente, tuttavia, non si offre alcun suggerimento verso azioni tangibili di cambiamento sociale. C’è poca speranza di eliminare l’oppressione, conclude l’autore, se la principale motivazione che dovrebbe spingere la maggioranza a unirsi alla lotta è unicamente di carattere morale o altruistico.
Secondo Kate Robinson, il problema di questo termine è la sua eccessiva focalizzazione sul capitale culturale a svantaggio del capitale economico. In un illuminante articolo pubblicato su Jacobin nel 2016, la giornalista racconta come la sua disillusione nei confronti di una critica della cultura pop incentrata sui privilegi l’abbia condotta al socialismo. Come molti attivisti per la giustizia sociale, Robinson immaginava che il conservatorismo della politica statunitense − e per estensione i problemi della società − fosse consolidato nel conservatorismo culturale del popolo americano: “pensavo che questo profondo conservatorismo culturale potesse essere sradicato e che la giustizia sociale potesse essere raggiunta solo educando gradualmente la popolazione. Da qui l’importanza della cultura pop e dei media”. Certamente il linguaggio, le rappresentazioni e l’intrattenimento mediatico plasmano i processi politici ed economici. Tuttavia, non spiegano le cause profonde dell’ingiustizia, dell’oppressione e delle disuguaglianze che risiedono invece nelle relazioni socioeconomiche concrete degli assetti capitalistici. Porre troppa fiducia nelle parole e nei simboli ci rende vulnerabili all’inganno, distraendo le persone dai loro veri interessi materiali. Anche per Robinson, l’enfasi sull’azione individuale dovrebbe essere più sfumata rispetto alla focalizzazione sulle istituzioni o le strutture: “il modo migliore per cambiare il comportamento delle persone è attaccare i sistemi che le costringono a competere […] per questo l’interesse materiale della classe lavoratrice è un principio motivante migliore rispetto ai concetti di peccato e redenzione”.
C’è poca speranza di eliminare l’oppressione se la principale motivazione che dovrebbe spingere la maggioranza a unirsi alla lotta è unicamente di carattere morale o altruistico.
Se pensiamo di combattere il sistema sostituendo le relazioni di classe con un elenco arbitrario di privilegi, sostiene Connor Kilpatrick sempre su Jacobin, stiamo semplicemente facendo il gioco dei conservatori, il cui obiettivo è restringere la portata del conflitto, portarla al livello più basso possibile, così da distogliere l’attenzione rispetto ai veri privilegiati, quel il 10% che possiede il 76% di tutta la ricchezza globale, secondo i dati recenti del World Inequality Report 2022. Kilpatrick conclude il suo saggio con un appello condivisibile: “controllare il tuo privilegio? Sicuro. Ma per una volta, proviamo a confrontarlo con il gestore medio di hedge fund invece che con un acquirente casuale di Whole Foods (catena alimentare particolarmente costosa di alimenti naturali e prodotti biologici N.d.A.)”.
Sbarazzarsi del privilegio
Credo sia importante chiarire a questo punto che riconoscere il grado di disuguaglianza presente nella società è molto più importante del termine che si usa per descriverla. In altre parole, che lo si chiami privilegio, beneficio o vantaggio non è la questione principale. Questo è vero. La domanda, però, che raramente viene sollevata, che è anche l’unica che vale la pena di porre è la seguente: è servito? L’introduzione di questo quadro teorico ha portato a una società più giusta?
In linea di principio, avere una sorta di passe-partout concettuale su cui tutti sono d’accordo, e che è il punto di partenza nel trovare modi per rendere il mondo un posto migliore, ha un certo fascino idealistico. In pratica, tuttavia, dobbiamo constatare che il check your privilege ha fallito. Il vecchio ordine non è andato da nessuna parte. Semplicemente ci si è limitati a ad imbellettare con una patina di ipersensibilità una società dove le ingiustizie sono più presenti che mai. Il continuo richiamo al privilegio ci dà l’impressione che i tempi siano cambiati, e lo fa quanto basta per suscitare risentimento in chi vorrebbe mantenere lo status quo.
Come spiega Phoebe Maltz Bovy nel suo libro The Perils of “Privilege”. Why Injustice Can’t Be Solved by Accusing Others of Advantage se il privilegio non ha funzionato è ora di smettere di pensare che le persone che rifiutano questa struttura di pensiero lo facciano necessariamente per motivi difensivi o reazionari. È tempo, più precisamente, di mettere in dubbio l’argomento della motivazione individuale e di affrontare le questioni dell’ingiustizia da punti di vista più produttivi. Ad esempio, spiega l’autrice, ci si dovrebbe aggrappare alla consapevolezza in senso numerico: “siate consapevoli se la vostra azienda favorisce gli uomini bianchi o se l’università di cui siete responsabili ammette solo figli di miliardari. Siate consapevoli se siete un giornalista e la vostra testata giornalistica presenta solo le élite e i loro problemi. Siate consapevoli, come persone − come cittadini, se preferite − di ciò che accade nel mondo, nel vostro luogo. Tuttavia, si tratta di un tipo di consapevolezza diversa, che non mira a categorizzare in modo impreciso vaste fasce di umanità sotto l’ombrello di chi ha dei presunti vantaggi immeritati”. È una consapevolezza più interessata a cogliere il problema non nel possesso dei privilegi, ma nell’esclusione illegittima di coloro che non godono di tali benefici relativi.
Se il concetto di privilegio non ha funzionato è ora di smettere di pensare che le persone che rifiutano questa struttura di pensiero lo facciano necessariamente per motivi difensivi o reazionari.
Come argomenta efficacemente il filosofo Michael J. Monahan in un lavoro dal titolo The Concept of Privilege: A Critical Appraisal, i presunti privilegi dovrebbero essere intesi come diritti umani, diritti che sono negati alla maggior parte dell’umanità nella pratica, anche se sono garantiti loro in linea di principio. I non bianchi, per esempio, dovrebbero avere i vantaggi della bianchezza, ma naturalmente, se li avessero, non si tratterebbe di privilegi perché non sarebbero più esclusivi per i bianchi. Etichettarli in quel modo, quindi, è fuorviante proprio perché li posiziona retoricamente come interessi di cui i privilegiati usufruiscono ingiustamente, piuttosto che riconoscere che si tratta di diritti di cui gli svantaggiati vengono privati.
Nessuno nega che denunciare il razzismo, il sessismo, l’omofobia e altri atteggiamenti reazionari sia una parte necessaria della lotta all’oppressione nella vita quotidiana. Ma se il nostro obiettivo è la trasformazione collettiva della società, che richiede la costruzione di un movimento di massa, chiamare in causa singole persone a controllare i loro privilegi non solo è una mossa inappropriata, ma anche controproducente. Inappropriata, perché ritiene che la colpevolizzazione individuale sia sufficiente per mettere in cortocircuito la macchina sfruttatrice della società; controproducente, in quanto finisce per alienare proprio quelle persone che potrebbero essere conquistate da un movimento per porre fine all’oppressione, ma che si sentono escluse da un linguaggio che le accusa di aver vissuto una vita di vantaggi non meritati.
Avete controllato i vostri privilegi prima di parlare? Avete scrutato e criticato doverosamente il comportamento degli altri? Ciò che viene offuscato, ciò che infine si perde in questo infinito esame di coscienza che alimenta il meccanismo del check your privilege sono le questioni più globali dell’esistenza sociale, ovvero il crescente divario tra gli inclusi e gli esclusi nel tardo capitalismo. L’invito a controllare i propri privilegi non fa che scalfire la superficie; individualizza l’intervento, pone comodamente il problema nelle azioni degli altri e, così facendo, finisce per diventare un’arma retorica fine a sé stessa.