I l sogno di una piena automazione non è solo di un certo antilavorismo, ma anche di quei dirigenti che vorrebbero veder scorrere l’azienda senza gli attriti particolari del fattore umano. Delegare l’intera produzione alle macchine libererebbe dalle pretese, dagli scioperi o dalle riunioni infinte, dalle relazioni pericolose tra colleghi e manager. Smorzerebbe le indolenze del quiet quitting e rassicurerebbe sulle richieste del work/life balance. La prevedibilità della macchina risulterebbe inoltre meno angosciante rispetto infinite variabili comportamentali che intervengono nel processo quando di mezzo ci sono gli esseri umani. Non siamo lontani dal realizzare questo sogno di una piena automazione.
Tuttavia, con l’aumentare della stessa, l’uomo non scompare dalla produzione, ma il suo lavoro si inoltra in dimensioni emotive, affettive, etiche e relazionali che rendono ancora più umana l’attività lavorativa, aumentando le già complicate dinamiche che regolano ogni interazione tra le persone soprattutto quando sono a lavoro. Come possiamo vedere, al di là del dimensionamento o della disoccupazione, l’accesso alla tecnica e la facilità con la quale si può sviluppare, applicare e spostare in quasi ogni contesto, consente già di ottenere elevati standard di qualità, riducendo il personale qualificato non solo nella produzione ma anche nella logistica o nelle dimensioni più impalpabili del marketing.
Il progressivo scollamento tra gli aspetti materiali del lavoro impiegatizio dalle attività informatiche e cognitive genera però una categoria di lavoratori impiegata per lo più nel management. Tolte le braccia dalla macchina, molti svolgono una gestione dei processi piuttosto che una produzione vera e propria di beni e servizi; e dal momento in cui il robot, l’intelligenza artificiale, l’informazione, prendono il posto dell’uomo nella catena produttiva, al soggetto impiegato rimane infatti solo la supervisione dei flussi. Parafrasando il Marx del capitolo 13 del Capitale, con la piena automazione gli uomini si limiteranno a osservare le macchine piuttosto che a usarle.
Non essendo più la forza o la competenza a organizzare e a svolgere il lavoro, il lavoratore è spinto a superare non solo le problematiche relative agli aspetti tecnici della sua attività, che potrebbe risolvere affidandosi alle competenze della sua professionalità, ma anche quelle del suo carattere, per integrarli nella catena produttiva delle relazioni, che tra i pochi attori impiegati diventano veri e propri mezzi di produzione. L’umano a lavoro è quindi concepito nelle sue qualità più funzionali, cioè come capacità di relazione e negoziazione tra attori interdipendenti che spesso, prima di collaborare tra loro, competono. In un contesto fortemente smaterializzato, l’aleatorietà dei comportamenti non più legati alla cadenza razionale della macchina o alla geografia stessa dell’azienda, da un lato produce effetti di allargamento degli spazi e dei tempi della produzione in ambiti non direttamente esecutivi, dall’altro provoca una certa angoscia gestionale nel management, incapace di tenere sotto controllo il lavoratore non più vincolato alla fisicità dello strumento o della stessa azienda.
Per l’azienda e per tutti coloro che hanno a che fare con persone e colleghi piuttosto che con le macchine, razionalizzare l’identità diventa un interesse strategico.
Per l’azienda e per tutti coloro che hanno a che fare con persone e colleghi piuttosto che con le macchine, è quindi necessario trovare altri metodi di governo per ridurre questa angosciante libertà. Razionalizzare l’identità diventa un interesse strategico. A venire incontro allo spirito del tempo è la straordinaria capacità di mediazione del capitalismo contemporaneo, per il quale il corpo stesso del lavoratore è diventato un limite desueto quanto il corpo materiale dell’azienda. In sintonia con i desideri e le esigenze della classe produttiva, al capitalismo contemporaneo non interessa più infatti controllare il lavoratore opponendogli doveri, mura d’ufficio, orari e catene di montaggio. A governare gli aspetti relazionali e le dinamiche emotive che stanno alla base dei nuovi assetti aziendali non è la disciplina dei corpi applicati alle macchine o ai movimenti tecnici del soggetto messo a lavoro quanto piuttosto una operazione più profonda che considera tratti dalla persona legati per esempio all’etica o allo sviluppo del sé, che senza violenze e costrizioni facciano accettare le pressioni del lavoro al lavoratore.
Come fanno notare tutte le statistiche di produttività aziendale legate per esempio allo stato emotivo dei lavoratori, le proprietà intrinseche al carattere contribuiscono per una buona parte alla crescita di un’intera azienda o anche di una sola partita iva. Per l’azienda, e per il libero professionista che poggia le sue basi produttive su ambiti cognitivi, creativi, emotivi e relazionali piuttosto che sulle braccia, controllare le emozioni e il comportamento crea valore quanto acquistare un macchinario o modificare la struttura d’impresa.
A partire da questi presupposti, la formazione professionale assume un ruolo secondario rispetto a quella umana. Non essendo la forza o la competenza a organizzare il lavoro, a professionalizzarsi sono le identità. Il saper essere conta più del saper fare e se non ci si può più affidare all’intelligenza operativa, non perché manchi ma perché è inutile quanto addirittura controproducente nella gestione fluida dei processi, si fa affidamento su un altro tipo di intelligenza, la cosiddetta intelligenza emotiva, con la quale riconoscere le emozioni per saperle sfruttare in azienda, nel rapporto con l’altro e con se stessi.
Nel solco di questa crisi della competenza che tiene maggiormente in considerazione l’umano piuttosto che il professionista, per il lavoro contemporaneo sussiste perciò un primato di cura della personalità sulla professionalità. Il proliferare dei corsi di coaching legati alla motivazione, allo sviluppo dell’empatia e alla scoperta di sé, confermano questa tendenza. Così, il lavoro che vale la pena di fare oggi è infatti il lavoro su se stessi.
Controllare le emozioni e il comportamento crea valore quanto acquistare un macchinario o modificare la struttura d’impresa.
I programmi di aiuto del coaching diventano riferimenti imprescindibili per ogni azienda che fa dell’attenzione alle persone il proprio centro valoriale. Il coaching propone interventi sulla sfera emozionale piuttosto che su quella professionale, diventando non solo una pratica di cura di sé proposta dal capitalismo stesso per far fronte agli effetti devastanti del lavoro contemporaneo sull’equilibrio psicofisico dei lavoratori, ma vero strumento di governo con il quale le aziende raggiungono i loro obiettivi di business e i lavoratori realizzano i loro desideri performativi.
È infatti il lavoratore stesso che volentieri si rivolge al coaching, ai maestri di mindfulness, ai guru del self empowerment, guidato dal desiderio di esprimere le sue potenzialità, sia fisiche sia spirituali, con lo scopo di farci qualcosa con sé stesso, di mettersi cioè a profitto. Nel desiderio di stare meglio, cioè di funzionare meglio e quindi di produrre meglio, si ritrova nel campo dell’interesse personale. Prendersi cura di sé significa allora, in ultima analisi, fare impresa di sé.
Le strategie del coaching mettono a regime le emozioni, garantendo uno standard con il quale limitare l’imprevedibilità comportamentale dei lavoratori. Suggerisce schemi normativi efficienti e aiuta il management a riorganizzare il personale secondo un modello per cui le variabili emotive, sentimentali e psicologiche vengono integrate quanto più possibile nel sistema. Mettendo a regime le emozioni e finanche le dimensioni spirituali dell’umano, il coaching assicura un limite al dato aleatorio del carattere del lavoratore per creare una identità affidabile, coerente e prevedibile che non metta in crisi l’ordine un tempo garantito del tornello o dalla leva. In questo modo il coaching riduce quell’incertezza operativa che ogni singolo individuo nella sua libertà potrebbe sviluppare.
A una iperumanizzazione del lavoro segue quindi una iperazzionalizzazione dell’umano con la quale standardizzare il comportamento per ridurne l’imprevedibilità. Una delle tecniche introdotte dal coaching e ampiamente diffuse in tutta la nostra società della prestazione è quella della meditazione o introspezione attiva. Con la pratica dell’osservazione di sé in o con gli esercizi di verbalizzazione delle emozioni proposti dalla PNL (programmazione neurolinguistica), il coaching offre all’azienda la possibilità di sistemare il lavoratore nella catena di montaggio relazionale. Con l’ascolto di sé, la tecnica oggettiva l’essere del lavoratore per governarlo e ordinarlo all’interno di modelli comportamentali che funzionano. Guardandosi e auto analizzandosi, il soggetto-lavoratore pone infatti una distanza tra sé e se stesso per farsi oggetto di conoscenza e posizionarsi nel mercato del lavoro e nella catena produttiva delle relazioni non in base alle sue competenze professionali ma in base al suo carattere.
A una iperumanizzazione del lavoro segue una iperazzionalizzazione dell’umano con la quale standardizzare il comportamento per ridurne l’imprevedibilità.
I processi suggeriti per esempio dallo sviluppo del personal branding nel marketing sono parte di questi mezzi di costruzione di una identità con i quali vendere la rappresentazione di se stessi prima ancora della propria forza lavoro. Come sosteneva già il sociologo americano Cristopher Lash negli anni Settanta “Il deterioramento del lavoro rende l’abilità e la competenza progressivamente estranee al successo materiale e in questo modo incoraggia la rappresentazione del sé come oggetto di consumo.” Chi ottiene un sapere su se stesso per mezzo delle applicazioni psicologiche sviluppate con il coaching, apprende innanzitutto come usarsi, per capire quale posto occupa nella catena di montaggio relazionale e per prendere posizione nella rete di significati sociali sviluppati nell’azienda/mondo.
Il lavoratore impegnato nella scoperta di sé, delle sue reazioni automatiche non scopre dunque se stesso, ma scopre ciò che funziona di se stesso. Conoscere se stessi in azienda attraverso il coaching non significa perciò raggiungere l’illuminazione, ma in primo luogo significa sapere come sfruttarsi. Il lavoratore addestrato a comporre se stesso non vende più solo la sua forza lavoro ma vende tutto se stesso. Non è l’essere in sé del lavoratore al centro di queste pratiche bensì il farci qualcosa con l’essere. Nell’analisi e con l’uso dell’introspezione il soggetto chiarifica quelle zone d’ombra che inceppano il meccanismo, scoprendo quei limiti personali che non gli consentono di progredire sulla via del successo.
Nel regime comportamentale aperto dal coaching e attraverso la luce della consapevolezza, il soggetto affronta la sua storia personale, scopre i nodi emblematici che hanno formato il suo carattere, e perché no, i sintomi disfunzionali che rendono particolare l’identità di ognuno, per superarli a favore della forma perfetta e senza sbavature della produzione. Per mezzo dell’introspezione sarà capace di liberarsi delle sue forme comportamentali reattive, scegliendo come agire sulla base di un principio individuato nell’immagine proposta dalla mission aziendale, la quale coinciderà con l’immagine che il soggetto vuole avere di se stesso.
L’azienda contemporanea si è accorta infatti che il recupero della consapevolezza di sé è fondamentale all’interno dei processi produttivi, sia per la sostenibilità psichica del lavoratore sia per la vita stessa dell’impresa. Lo stress, il sovraccarico di lavoro, se per esempio non sono mediati da una comunicazione efficace e consapevole, che va oltre per esempio le reazioni d’ “istinto”, possono compromettere le relazioni della vita lavorativa viziando il flusso della produzione all’interno dell’organizzazione. Scoprendosi nelle dinamiche intersoggettive create ad hoc nella prassi del coaching, il soggetto può portare a consapevolezza aspetti nascosti della psiche che condizionano le sue reazioni per interrompere l’automatismo di risposta all’ambiente, che invece di spingerlo alla performance lo esauriscono nel burn out. È così che l’interiorità del soggetto impiegato viene messa a profitto, le sue inclinazioni comportamentali corrette per far scivolare l’azienda sui binari di una conoscenza di sé tale da mantenere i rapporti più semplici possibile.
Tutto ciò favorisce una standardizzazione della condotta con la quale incastrare i lavoratori gli uni con gli altri come se fossero ingranaggi di una macchia emotiva e comportamentale.
Tutto ciò favorisce una standardizzazione della condotta con la quale incastrare i lavoratori gli uni con gli altri come se fossero ingranaggi di una macchia emotiva e comportamentale che lavora con la forza del pensiero. Un pensiero che non deve essere disturbato da elaborazioni particolari, teorie ermeneutiche, emozioni negative, poiché pensieri e sentimenti rendono torbida la trasparenza sulla quale devono scivolare veloci merci e relazioni. Come sostiene Byung Chul Han, “Lavorare all’infinito per migliorare se stessi assomiglia all’autoesame e all’automonitoraggio del protestantesimo, che rappresentano una tecnologia di soggettivazione e dominio a sé. Ora, invece di cercare il peccato, si danno la caccia ai pensieri negativi.”
Il soggetto che si rivolge alle pratiche di rieducazione comportamentale sente infatti che il suo stesso pensiero sia qualcosa di frenante. Come nota lo psicanalista Christopher Bollas, quando le persone vanno a stendersi sul suo lettino “l’analizzando non ha il tempo di riflettere sulle questioni perché sente di dover trovare urgentemente una soluzione ai propri problemi. Potrebbe nutrire la fantasia inconscia che la mente sia un’entità capace soltanto di creare guai, che necessita di una strutturazione standardizzata per poter essere controllata.” I percorsi psicologici con i quali il soggetto controlla e modifica se stesso nella prassi del coaching devono condurlo verso il bene. Il bene è ciò che funziona, è ciò che non lascia scarti nel disegno geometrico della produzione, la conduzione lineare di un movimento che deve concludere il suo percorso senza noia, senza frustrazione, possibilmente senza fatica, spinto da una passione interna che non deve trovare limiti di tempo o di spazio per esprimersi dentro e fuori l’azienda.
Fare ipotesi costringe a riflettere e a rallentare i processi, per valutare il senso o la convenienza di certe scelte. “In questo nuovo clima utilitaristico”, continua Bollas, “notiamo l’emergere di un lieve nichilismo in cui il soggetto umano e i processi complessi del suo pensiero vengono implicitamente considerati un impedimento all’implementazione efficace di programmi che dipendono ancora dalle persone.” La tristezza, l’insoddisfazione, hanno bisogno di tempo per essere elaborate e le emozioni, quando non sono dirette verso scopi utili, sono un intralcio alla produzione poiché impediscono lo scambio di informazioni tra gli attori e creano attriti tra i collaboratori. È nella superfice piatta dell’automazione comportamentale che i processi scivolano senza intoppi.
Tuttavia, direbbe il filosofo Bernard Stiegler, laddove vi è automazione vi è assenza di pensiero, incapacità di elaborare teorie, di essere creativi. La normalizzazione del comportamento e delle identità dei lavoratori confluiscono invece in una perdita di profondità che impedisce ai lavoratori di individuarsi e di differenziarsi come persone prima ancora che come professionisti. “La profondità del soggetto, della sua identità e della sua interiorità, impedirebbero di adattarsi, di essere flessibile, di eliminare il suo endoscheletro per meglio plasmarsi nell’esoscheletro che obbedisce alle leggi del mercato” dice lo psicanalista Miguel Benasayag.
La normalizzazione del comportamento dei lavoratori impedisce loro di individuarsi e di differenziarsi come persone prima ancora che come professionisti.
Con il coaching e con le varie metodologie di intervento associate, la tecnica si sposta dalle macchine alle anime, in un’ottica gestionale della psiche capace di amministrare anche gli aspetti più profondi dell’individuo. Attraverso strategie comportamentali misurate, il lavoratore assume nella sua vita il tempo, il senso, lo scopo della produzione. Alla stregua di una leva, di una manopola, di un pistone, vive immerso nel meccanismo generale delle relazioni codificate dal management aziendale, dalla società che lo spinge a performare o dal suo stesso desiderio di assolvere all’immagine dell’imprenditore di sé. Così l’alienazione non si consuma più nel gesto ripetuto, ma nell’intero comportamento, che deve adeguarsi a una forma più funzionale generata dal management. Ecco perciò che se il sogno di una piena automazione tarda ad avverarsi, quello di standardizzare i comportamenti corre veloce. Ed è sorprendente come oggi i desideri dell’uno siano anche i desideri dell’altro.